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L’adozione di una prospettiva relazionale è legata anche al superamento della
prospettiva individualistica e razionale che era diffusa sia nel pensiero
economico che in quello psicologico e sociologico, e che vedeva l’individuo
come ‘isolato’ e mosso esclusivamente dal desiderio di realizzare i propri
obiettivi.
Per quanto riguarda le singole discipline, si può evidenziare come in psicologia
e in economia il benessere e la felicità dell’individuo siano diventati oggetti
d’interesse solo in tempi recenti, in quanto in psicologia è stato necessario il
superamento del dualismo cartesiano tra mente e corpo e il riconoscimento
della psicologia stessa come scienza perché accadesse; in ambito economico,
invece, determinante è stato l’emergere del cosiddetto ‘paradosso della
felicità’, derivato dalla messa in crisi della convinzione che un maggior reddito
fosse sufficiente ad assicurare un maggior benessere per l’individuo.
L’analisi psicologica mette poi in evidenza la difficoltà di misurazione della
felicità, o di quello che Kahneman (1999) chiama ‘benessere soggettivo’: la
scelta è tra l’adozione di un analisi bottom-up, che ritiene che siano le
circostanze o gli ambienti a determinare una maggiore o minore felicità, oppure
un’analisi top-down, che ritiene che la personalità sia una forte determinante
del benessere e che sia la felicità globale a influenzare i sentimenti che
vengono provati nei diversi ambiti.
Viene poi analizzata anche la condizione d’infelicità che, come Legrenzi (1998)
sottolinea, non è l’opposto della felicità, ma il prodotto della messa in atto di
tutta una serie di meccanismi cognitivi che sono propri dell’essere umano.
L’analisi economica, invece, dopo aver rilevato il ‘paradosso’, sottolinea come
la felicità non derivi tanto dal possesso di beni materiali, ma piuttosto
dall’essere in grado di sviluppare i cosiddetti beni relazionali, cioè dei beni il cui
valore è dato dalla relazione tra le persone e che coinvolgono la sfera valoriale
del soggetto; è proprio la relazione in sé, dunque, a costituire il bene.
La prospettiva sociologica, infine, sottolinea come il benessere non sia
semplicemente legato ad elementi di carattere oggettivo, come la prospettiva
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utilitaristica tradizionale sosteneva, ma anche ad elementi soggettivi ed
emotivi.
Per includere nell’analisi anche gli elementi soggettivi, però, è necessario
andare oltre la nozione tradizionale di benessere, che veniva concepito come
assicurazione di una serie di standard materiali che consentissero al cittadino
di non scendere sotto una soglia minima di povertà, e parlare, invece, di
‘qualità della vita’.
Il raggiungimento, però, di una buona di qualità della vita richiede l’adozione di
un nuovo modo di agire, che consenta un miglioramento qualitativo degli
standard piuttosto che un loro aumento quantitativo, e che tenga conto che è
necessario prendere in considerazione la vita del lavoratore nel suo
complesso, anche in quegli aspetti che vanno al di là del momento produttivo
vero e proprio. Infatti, come anche Bailyn e Fletcher (2004) evidenziano in un
loro saggio, fondamentale è favorire la continuità tra la sfera lavorativa e quella
domestica, in quanto esse s’influenzano a vicenda, e ignorare questo legame è
controproducente per l’organizzazione.
Dopo questo excursus interdisciplinare, inizia quella che è la seconda parte del
lavoro, che si concentra sull’analisi del benessere e della felicità nel contesto
organizzativo; per farlo, però, è necessario introdurre un nuovo concetto, che è
quello di ‘qualità della vita lavorativa’.
Esso è il risultato di un lungo processo, che dallo Scientific Management,
giunge fino allo Human Resource Management e oltre, passando attraverso le
teorie ergonomiche e dei sistemi sociotecnici.
Il punto di arrivo di questo percorso è una considerazione del lavoro come
elemento che favorisce la realizzazione individuale e che tenta di favorire la
partecipazione e il coinvolgimento del soggetto.
L’azienda, dunque, inizia ad interessarsi del lavoratore come ‘persona’ dotata
dei propri bisogni e per questo non si occupa più solo delle condizioni di salute
fisica del lavoratore, ma anche del suo benessere mentale e sociale, e indaga
quali elementi sono in grado d’influenzarlo. Viene poi sottolineata l’importanza
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delle emozioni in ambito organizzativo: mentre in passato, infatti, spesso esse
venivano considerate come elementi nocivi o dannosi per i processi
decisionali, oggi, invece, vengono riconosciute a pieno come elementi
caratteristici dell’organizzazione.
L’organizzazione è una vera e propria ‘arena emotiva’, usando le parole di
Fineman (2000), da cui gli individui sono influenzati, e proprio al suo interno si
vivono le più intense esperienze e si sviluppano importanti legami; anche per
valutare le emozioni, però, è necessario superare la prospettiva individualistica
tipica della psicologia e adottare una prospettiva socio-relazionale, che tenga
conto del più ampio contesto in cui l’individuo è inserito e delle relazioni che
sviluppa al suo interno.
Infine, viene sottolineato il ruolo che sia la cultura, intesa come l’insieme dei
vissuti interiorizzati dagli appartenenti ad un contesto sociale, sia l’etica
svolgono all’interno dell’organizzazione. Entrambe, infatti, sono sia degli
strumenti che consentono all’organizzazione di esercitare un’influenza sul
comportamento dei lavoratori, sia degli elementi che contribuiscono alla
creazione del capitale sociale, una risorsa multidimensionale che riunisce la
cultura, la fiducia e le norme sociali proprie di una comunità e che favorisce la
creazione dei beni relazionali, fondamentali per raggiungere il benessere nella
società moderna.
La messa in evidenza di questa nuova prospettiva con cui guardare
all’organizzazione, in concomitanza con l’analisi degli elementi che
caratterizzano il contesto lavorativo odierno, permetteranno poi di capire quali
possono essere le leve su cui il management può agire per raggiungere una
buona ‘salute organizzativa’ e il benessere del lavoratore.
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1. LA FELICITÀ IN PSICOLOGIA E LA PSICOLOGIA DELLA
FELICITÀ
La trattazione della felicità e del benessere in ambito psicologico non è un
fenomeno da sempre esistito; infatti, la felicità, fin dai tempi più antichi, è stata
oggetto di dissertazione da parte di filosofi e letterati, ma il suo ingresso come
campo specifico della psicologia è molto più recente.
In particolare, lo psicologo Legrenzi (1998) ritiene che questo sia stato
possibile solo grazie al superamento del dualismo cartesiano tra mente e
corpo.
Infatti, nella tradizione occidentale che discende da Cartesio, si trova una
distinzione tra corpo e mente, secondo la quale al corpo vengono associati i
piaceri, mentre la felicità è legata allo spirito, che persegue le virtù intellettuali.
Questa separazione, se da una parte ha favorito la nascita delle scienze
moderne, dall’altra ha ostacolato il riconoscimento della psicologia come
scienza e lo studio scientifico dei fenomeni mentali, in quanto prerogativa delle
scienze è che si occupassero di fenomeni naturali, riguardanti il corpo, e non
della mente.
Solo con il riconoscimento che anche la mente poteva essere analizzata con il
metodo scientifico si apre la possibilità che la felicità possa essere analizzata
da un punto di vista psicologico.
In tempi molto più recenti, Kahneman (1999), nella prefazione a Well-Being:
the foundations of Hedonic Psycology, sostiene di perseguire uno scopo
preciso, che è quello di sviluppare un nuovo campo della psicologia, ovvero la
psicologia edonica, che è lo studio di che cosa rende la vita e le esperienze
piacevoli o spiacevoli.
Nell’uso comune, l’aggettivo edonico è spesso associato alle sole esperienze
piacevoli; al contrario, la psicologia edonica copre l’intero ambito del piacevole
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e dello spiacevole, riguarda i sentimenti di piacere e di dolore, l’interesse e la
noia, la gioia e la tristezza, la soddisfazione e l’insoddisfazione.
Di solito la psicologia cognitiva non si occupa di fenomeni che riguardano la
gioia o il dolore, ma preferisce concentrarsi su altri processi quali l’attenzione o
la memoria; inoltre, qualora lo faccia, preferisce concentrarsi sugli elementi
negativi piuttosto che su quelli positivi; per questo il progetto di Kahneman
(1999) appare ancora più ambizioso.
1.1 FELICITÀ: L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO
Legrenzi, nel suo libro Felicità, tenta una classificazione linguistica e
concettuale del termine felicità e ne ripercorre un po’ la storia e l’uso nei secoli.
Egli, in generale, sostiene che termini come estasi, felicità e benessere
appartengono a categorie diverse di stati mentali.
Anche per Salvatore Natoli (1994) la felicità è uno stato della mente, un
sentimento, una generale sensazione di piacere e di soddisfazione che gli
uomini provano, ma su cui non s’interrogano, poiché completamente immersi
in essa.
Nell’antichità greca la felicità, conosciuta come eudaimonia, rappresentava il
sommo bene, ma era anche un dono della sorte, che l’individuo non poteva in
alcun modo guadagnare o meritare; l’uomo viveva, dunque, in un clima di
incertezza, poiché la felicità poteva essergli data e tolta in modo del tutto
arbitrario. Per questo, ancora oggi nel senso comune, fortuna e felicità sono
considerati sinonimi, e chi è felice è ritenuto anche fortunato.
Nella tradizione cristiana, invece, si usava il termine ‘beatitudine’ per indicare
la felicità basata sul rapporto armonico tra l’uomo e i suoi ideali; e anche nella
traduzione latina della Bibbia il termine beatus e beatitudo sostituivano spesso
quelli di felix e felicitas.
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Lo stesso termine ‘bliss’, in uso presso la lingua inglese deve essere tradotto
con il termine beatitudine, per indicare uno stato d’animo di completo
appagamento, diverso, però, tanto dalla felicità quanto dall’estasi.
Di fatto la differenza nell’uso delle parole è un riflesso non solo di lessici più o
meno complessi, ma dei diversi tipi di cultura che l’hanno prodotta.
Con la modernità la felicità assume nuovi significati: nella Germania industriale
tra le due guerre, per esempio, l’essere felici viene a legarsi con la possibilità
di fondersi nella collettività e nell’immedesimarsi nei suoi valori; il grande
psicologo Metzger (1971) è un sostenitore di questa linea, in contrapposizione
al filone americano che vedeva la felicità strettamente legata alla libertà
individuale.
Egli sostiene che è lo spirito di comunità che deve essere coltivato in modo
tale che favorisca la felicità nell’uomo, aiutandolo a diventare un cittadino e a
superare la distinzione tra corpo e mente, che aveva impedito il riconoscimento
della psicologia come scienza.
Una volta che l’influsso di queste teorie giunge oltre oceano, negli Stati Uniti,
viene in parte perso il loro senso originario e iniziano a venir sviluppate una
serie di ricette su misura per raggiungere la felicità, che l’individuo deve
perseguire in modo individuale; l’idea è che la felicità nasca dalla possibilità
per l’individuo di controllare e piegare ai propri scopi il mondo esterno.
La felicità assume così i connotati di un diritto/dovere di tutti gli individui, che
rispetto ad essa nascono uguali; quest’idea è talmente diffusa da venir posta a
fondamento della dichiarazione d’indipendenza americana.
La ricerca della felicità si è trasformata così, poco alla volta, in ricerca di
benessere e soddisfazione, e si è sviluppata una linea di ricerca che tenta
d’individuare i fattori soggettivi che determinano questi.
Ogni individuo è autonomo e solo nella costruzione della sua felicità, e si
sviluppa la convinzione che la felicità privata sia la garanzia della felicità
pubblica, poiché una società sana è appunto quella in cui l’individuo può
trovare la sua felicità.
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Idea legata a questa è che l’individuo ha la possibilità di cambiare se stesso, di
migliorarsi avvicinandosi a quel canone di felicità che la società riconosce e
premia, e può farlo più facilmente grazie all’aiuto di un esperto. Da qui lo
svilupparsi di tutte le guide i manuali, i libri che riguardano l'argomento e che
oggi sono così diffusi.
1.2 LA VALUTAZIONE DELLA FELICITÀ
La questione di che cosa renda una persona felice è sempre stata oggetto di
grande interesse per gli studiosi che si occupano a diverso titolo della felicità.
Kahneman (1999) ritiene che una valutazione di questo tipo possa essere
condotta a diversi livelli; in particolare, sostiene che per prima cosa si deve
tenere in considerazione il contesto sociale e culturale in cui il soggetto è
inserito. Poi, bisogna considerare che per valutare la qualità di vita non è
sufficiente rifarsi a un bilancio del piacere o del dolore o alle affermazioni
soggettive, che comunque rimangono centrali, ma bisogna tener conto di altri
fattori, quali le caratteristiche oggettive della società (come la povertà, la
mortalità infantile).
Il benessere soggettivo implica, poi, una componente di giudizio e di paragone
con gli ideali, le aspirazioni, gli altri e il proprio passato.
Sotto il benessere globale, vi è il livello degli stati emotivi, che sono
caratterizzati dalla loro persistenza e dalla perdita di connessione con
particolari eventi; vi sono notevoli differenze tra le persone a questo livello. Ad
un livello successivo ci sono poi i sistemi neuronali e gli ormoni che regolano il
sistema motivazionale.
Secondo Kahneman (1999), sostenitore di una teoria bottom-up, molto spesso
per capire i livelli più alti è necessario interessarsi di quelli più bassi.
Argyle (1988), invece, sostiene che non esiste un’unica dimensione per
misurare la felicità, in quanto alcuni preferiscono valutare la componente
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emozionale, come il sentirsi di buon umore; altri invece valutano l’aspetto
cognitivo e riflessivo, come il sentirsi soddisfatti della propria vita. Per questo
essa può essere definita di volta in volta come gioia, divertimento, piacere o
come soddisfazione e appagamento.
Per appagamento Argyle (1988) intende uno stato di benessere generale che
deriva da una meditata valutazione della qualità della vita nel suo complesso
ed è diverso dalla felicità come semplice emozione positiva.
Argyles (1988) individua tre ambiti fondamentali che contribuiscono a
sviluppare un senso d’appagamento, ovvero quello dei rapporti con gli altri, del
lavoro e dello svago.
Per quanto riguarda i rapporti sociali, che comprendono le relazioni che si
hanno in famiglia, sul lavoro, o con gli amici, ciò che davvero conta non è tanto
la quantità quanto la qualità dei rapporti, quindi l’intimità, il grado di confidenza,
la disponibilità ( che rientrano nel cosiddetto ‘sostegno sociale’).
Nel divertimento, invece, l’autore fa rientrare tutte quelle attività che si
svolgono semplicemente perché le si vuole fare, per se stesse, per gioco, e
non in funzione di un guadagno materiale.
Il divertimento influisce sia direttamente sul benessere, garantendo
appagamento sociale, identità e distensione, che indirettamente, influenzando
altri aspetti importanti per la nostra felicità, quali il matrimonio, e vari ambiti
della vita sociale.
Infine, un altro fattore fondamentale che influenza la felicità è la situazione
occupazionale. In generale si osserva che coloro che ricevono uno stipendio
maggiore ed hanno un lavoro più prestigioso tendono ad essere più felici, ma
anche altre componenti influenzano l’appagamento sul lavoro, quali ad
esempio il rapporto con i colleghi, la possibilità di realizzarsi e sviluppare a
pieno le proprie capacità. Inoltre, bisogna tener conto del fatto che spesso i
lavori più prestigiosi sono comunque legati ad un maggior stress e ad un
eccessiva responsabilità, che portano a sacrificare il tempo speso con gli altri.
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Nelle società meno avanzate, spesso non vi era una vera e propria distinzione
tra svago e lavoro, tra il tempo dedicato all’una o all’altra attività. Solo con lo
svilupparsi della rivoluzione industriale in Gran Bretagna lo svago ha iniziato
ad opporsi al lavoro, che era spesso svolto in condizioni disagevoli e con orari
rigidi; in questo contesto lo svago diventa una compensazione rispetto al
lavoro e si concentra nelle ore non lavorative. Oggi questa distinzione vale
ancora, soprattutto per i lavoratori che si trovano a dover svolgere lavori
stressanti, noiosi o poco soddisfacenti e per i lavoratori manuali non istruiti.
1.2.1 IL METODO GOOD/BAD
Kahneman (1999), in un altro suo saggio, sviluppa ulteriormente il concetto di
una teoria che valuti la felicità partendo dal basso e introduce un nuovo
concetto, quello di Good/Bad (GB), con cui intende una dimensione generale
per spiegare la felicità, che permette di sostituire il temine valutazione, troppo
connotato intellettualmente.
In questo saggio egli distingue innanzitutto quattro varianti di GB, le quali si
differenziano per il livello d’integrazione al quale si riferiscono:
1)l’utilità istantanea, che vede la soddisfazione o la preoccupazione come un
attributo che caratterizza l’esperienza in un particolare momento; secondo
l’autore è la migliore per capire la predisposizione a voler interrompere o
continuare l’esperienza corrente;
2)l’utilità ricordata, invece, è una valutazione globale che è assegnata ad un
particolare episodio del passato o ad una situazione in cui ricorre
un’esperienza simile;
3)la soddisfazione, che si riferisce a più ampi ambiti della vita, quali la famiglia
o il lavoro;
4)al massimo livello d’integrazione si trovano dimensioni quali la felicità, il
benessere che riguardano tutti gli ambiti della vita.
L’obiettivo di Kahneman (1999) è riuscire a comprendere il livello massimo
attraverso un’analisi bottom-up, che dal basso procede verso l’alto, e che
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quindi parte dall’utilità istantanea come criterio base, e da questa cerca poi di
ottenere una definizione normativa e oggettiva di felicità; questo implica
tralasciare la valutazione soggettiva che il soggetto fa del suo stato, o meglio la
si accetta nell’immediato della valutazione dell’utilità istantanea, ma poi la si
abbandona, perché la valutazione posteriore di un evento può essere
influenzata da errori di memoria o dalle emozioni.
Le valutazioni soggettive, infatti, possono essere fortemente influenzate dalle
esperienze emotive, per cui un individuo che ha sperimentato affetti per la
maggior parte negativi con poca probabilità descriverà se stesso come
soddisfatto o felice.
A monte del suo ragionamento vi è la distinzione che Kahneman fa tra felicità
soggettiva e oggettiva; la prima fissata chiedendo ai soggetti quanto siano
felici, la seconda derivata da una registrazione dell’utilità istantanea durante un
periodo rilevante.
La relazione tra felicità oggettiva e soggettiva è analoga alla relazione tra utilità
totale e ricordata di quell’episodio.
Naturalmente alla fine la felicità oggettiva è basata su dati soggettivi: le
esperienze GB di momenti di vita; è chiamata oggettiva perché è
l’aggregazione delle utilità istantanee, è determinata da regole logiche e
potrebbe essere fatta in teoria da un osservatore che ha accesso al profilo
temporale dell’utilità istantanea. Il modo naturale di agire è definire l’utilità
totale provata durante un periodo di tempo attraverso l’integrazione temporale
1
dell’utilità istantanea.
Kahneman, Wakker e Sarin (1997) tentano di giustificare questo modo di agire
sostenendo l’esistenza di alcune assunzioni di partenza che riguardano le
stime soggettive, ovvero il fatto che, innanzitutto, le stime devono comunque
contenere tutti gli elementi utili e rilevanti per permettere l’integrazione
temporale; poi, la scala ha un punto zero stabile (corrispondente a né buono
1
Quest’idea era già stata sviluppata da Edgeworth, e si ritrova esplicitamente e implicitamente esposta
anche nell’analisi utilitaristica.
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né cattivo, né da ricercare né da evitare) e le misure delle decisioni che si
discostano da questo punto sono ordinali; inoltre, le valutazioni soggettive
devono correttamente ordinare le esperienze sulla base dell’intensità di good
bad, ma gli intervalli tra le stime possono essere arbitrari: una stima di 7 può
essere giusta quanto una di 6, ma l’intervallo tra 6 e 7 non può essere
considerato psicologicamente equivalente a quello tra 2 e 3.
Infine, l’osservatore deve essere a conoscenza della scala che usa il soggetto.
Questi assunti, però, riguardano una possibilità teorica piuttosto che una
procedura pratica.
Le regole dell’integrazione temporale, comunque, sono applicate solo dopo
che è stata effettuata una nuova scala di valori che incorpori un giudizio
sull’equivalenza tra intensità e durata.
Cacioppo e altri (1994) mettono in evidenza la natura bivalente del sistema
good bad, che non è incompatibile, però, con il fatto che un determinato
momento può essere caratterizzato con un singolo valore GB, che rappresenta
il presupposto fondamentale su cui si basa l’analisi.
Quindi, di solito i principali momenti dell’esperienza possono essere facilmente
caratterizzati da un solo valore sulle dimensioni GB: non si riscontrano
particolari difficoltà nel distinguere momenti buoni, cattivi o neutri; certo vi
possono essere casi in cui questo giudizio è ingannevole, ma è possibile
applicare un criterio aggiuntivo, che richiede se un interruzione dell’esperienza
sarebbe gradita o sgradita ai soggetti.
Il progetto di misurare la felicità oggettiva da una registrazione dei valori di GB
richiede un metodo di misurazione che permetta il confronto dei valori di GB
attraverso i diversi contesti.
L’obiezione ovvia di un metodo comune di GB è che non ha significato
paragonare l’intensità tra due esperienze che differiscono nella qualità;
Kahneman, Wakker e Sarin (1997), comunque, ritengono che le principali
esperienze possono essere classificate come buone o cattive con poche
difficoltà e che l’esperienza affettiva neutrale rimane con gli stessi significati
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anche quando cambiano gli stimoli che la producono. Inoltre, è lecito assumere
che il punto neutro sulla scala è comparabile interpersonalmente, perché il
rifiuto o l’accettazione hanno lo stesso significato per le diverse persone.
Quindi, la stabilità intrapersonale e la comparabilità interpersonale
dell’esperienza affettivamente neutra garantisce la fattibilità di almeno una
elementare misurazione della dimensione GB.
1.2.2 TEORIA DELL’ADATTAMENTO, HEDONIC AND SATISFACTION
TREADMILL
La teoria dell’adattamento, sviluppata da Helson (1964), è fondamentale per
valutare il grado di felicità di un individuo, e per questo è oggetto d’interesse da
parte di molti studiosi; essa sostiene che gli stimoli sono valutati sulla base di
uno standard determinato dalla gamma di stimoli sperimentati in precedenza:
gli stessi eventi, dunque, possono essere fonte di dolore o di piacere a
seconda del livello di adattamento.
Brickman e Campbell (1971), in un loro saggio, analizzano le implicazioni della
teoria del livello di adattamento per la felicità dell’uomo e per la progettazione
di una buona società.
Essi sviluppano la nozione di ‘hedonic treadmill’ (rullo edonico) e sostengono
che se le persone si adattano al miglioramento delle circostanze al punto della
neutralità affettiva, i miglioramenti non avranno benefici; per questo anche
l’aumento del reddito non produce più felicità, osserveranno poi gli economisti.
Questa idea riscuote grande successo, grazie ai collegamenti con i fenomeni
della relatività della felicità e l’inutilità delle corse per sorpassare gli altri, e
grazie ai dubbi che pone riguardo agli effetti del progresso economico sul
benessere. Naturalmente l’idea deve essere letta con cautela, perché, per
esempio, un’interpretazione radicale sostiene che tutte le esperienze routinarie
diventano neutralmente affettive, ma la normalità non implica neutralità
affettiva.
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Altri, tra cui Headey e Werring (1992), interpretano l’idea del treadmill
sostenendo che nell’individuo agisce una sorta di processo omeostatico per cui
l’individuo tende a tornare al suo livello medio di soddisfacimento al di là degli
eventi che possono alterarlo in positivo o negativo.
L’hedonic treadmill assume che un cambiamento delle circostanze oggettive
produce un cambiamento nella valutazione GB degli stimoli.
Successivamente, Kahneman (1999) considera la possibilità di un
meccanismo che produce effetti sul treadmill senza alcun cambiamento
nell’esperienza edonica e lo definisce come ‘satisfaction treadmill’.
Esso implica un cambiamento nella relazione tra la distribuzione dei valori GB
e la scala sulla quale l’individuo riporta la soddisfazione e la felicità soggettiva.
Si consideri un individuo le cui circostanze cambiano, ad esempio per un
aumento del reddito: le nuove circostanze producono una nuova distribuzione
di esperienza positiva e negativa in molti domini di vita.
Una possibile spiegazione è che cambia lo standard su cui è giudicata la
soddisfazione generale: un soggetto il cui reddito è aumentato per manifestare
lo stesso grado di soddisfazione può richiedere una distribuzione dei valori GB
più favorevole rispetto alla situazione reddituale precedente.
Brickman e Campbell (1971) ricavano l’hedonic treadmill dalla nozione di livello
di adattamento di Helson (1964); il satisfaction treadmill può derivare da
un’altra nozione: il livello di aspirazione, che definisce il confine tra
soddisfazione e insoddisfazione.
È risaputo che di solito le aspirazioni sono più alte rispetto al livello di
aspettative reali che si possono avere.
Anche Argyle (1988) sostiene che l’appagamento è maggiore quando i risultati
raggiungono le aspirazioni, che di solito sono basate sul confronto con gli altri
e sull’esperienza passata, e minore quando ciò non avviene.
L’appagamento deriva quindi dal divario tra obiettivi e risultati e dal valore
attribuito a ciascun obiettivo; se le aspirazioni crescono troppo in fretta rispetto
al tasso di miglioramento allora il risultato sarà lo scontento.
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L’adattamento comunque richiede tempo e prima che si stabilizzi ci sono dei
periodi in cui è più alto o più basso. Altri fattori, poi, che influenzano
l’appagamento, quali il lavoro, la famiglia o il cibo non smettono di soddisfare
anche se rimangono costanti.
Il satisfaction treadmill che interessa a Kahneman (1998), in ogni caso, è però
quello che agisce sulla distinzione dei valori GB, non sul reddito. Il punto è che
come nel caso del reddito, il miglioramento delle circostanze può provocare
nell’individuo il richiedere più intensi e frequenti piaceri per mantenere lo
stesso livello di soddisfazione. Il satisfaction treadmill, quindi, produce che la
felicità soggettiva rimanga costante anche se migliora la felicità oggettiva.
Naturalmente, l’adattamento edonico e il livello di aspirazioni possono
verificarsi contemporaneamente e quindi a che cosa sia poi dovuto il treadmill
è difficile da stabilire anche se è importante a livello di policy.
Brickman e Campbell (1971), infatti, ritengono che le politiche che migliorano
le circostanze sono futili se non producono miglioramenti soddisfacenti e la
felicità soggettiva.
Anche Argyle (1988) ritiene che l’influenza della genetica e della personalità
suggeriscono un limite nel grado in cui le politiche possono effettivamente
intervenire per accrescer il proprio benessere personale. La felicità non è
determinata solo dalle circostanze in cui uno vive o dalle risorse a disposizione
e cambiamenti nell’ambiente, sebbene importanti per il benessere a breve
termine, hanno poco effetto sul benessere a lungo termine e perdono salienza
per i processi di adattamento.
Kahneman (1999), invece, sostiene che le politiche che migliorano la vita e
tolgono le circostanze negative sono utili anche se le persone non si
descrivono come più felici o più soddisfatte; il fatto che con la crescita delle
aspirazioni non si raggiunga la piena soddisfazione non vuol dire che la felicità
non possa essere raggiunta. Quindi, le politiche devono rivolgersi alla
misurazione della felicità oggettiva e non alla felicità soggettiva o alla
soddisfazione.