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Capitolo primo
LA TRADIZIONE DEL TEATRO NEI LUOGHI DEL DISAGIO
1.1 Capire cos’è la follia
Se chiediamo ad uno psichiatra o psicologo o anche alla gente
comune cos’è la follia la maggior parte di essi risponderà che è una sorta
di disturbo della psiche. Sergio Zavoli asserisce che “una legge antica […]
continua a separare l’uomo che dalla società ha il diritto di essere difeso e
il matto che, essendo tale, perde questo diritto perché la società lo giudica
pericoloso a sé e agli altri, e di pubblico scandalo”
2
; sembra quasi di
leggere tra queste righe la paura che ha la gente verso un essere non
ritenuto normale o che comunque non corrisponde ai canoni del viver
bene nella società.
C’è però un’altra parte che vede la follia come uno stato misterioso e
affascinante.
E’ infatti dagli anni Sessanta che tanti artisti entrano nei manicomi
“con lo scopo di recuperare l’essere umano e di raccontare alla gente la
sua storia che è nella maggior parte dei casi storia di violenza e di
oppressione subita, più che di violenza inferta agli altri”
3
. L’arte scopre
nella follia una condizione umana, perché questi gruppi di artisti hanno
saputo ascoltare i matti conquistando, di conseguenza, la loro fiducia. E’
con le foto, con il teatro, con la pittura, la scultura, con tutti quei mezzi
“artisticamente utili” che si tenta di avvicinare i due mondi della normalità e
della follia non poi così lontani ma fino ad allora mantenuti lontanissimi da
tante, false, credenze.
2
AA.VV., Il volto della follia, cent’anni di immagini del dolore, Milano, Skira, 2005, p. 81.
3
Ibid., p. 37.
5
Vorrei spiegare la follia, ma giustamente non ci sono definizioni
semplici ed univoche (se domando che cos’è la normalità la risposta
sarebbe identica, perché entrambi questi universi sono misteriosi e
complessi).
Le prossime righe evocative di Davide Benati, scritte a commento di
una mostra fotografica sui rinchiusi dei manicomi dell’Emilia-Romagna, si
avvicinano alla mia concezione di follia.
“Ho davanti a me in studio una fotografia di naufraghi del
1870 sopravvissuti a un disastro in mare; sono stipati su una
fragile scialuppa e i loro sguardi sono esattamente gli stessi che
hanno le persone nelle fotografie di questa mostra. Persone
rinchiuse, alienate al mondo, sopraffatte o semplicemente
inspiegabili. I reclusi dell’Istituto Psichiatrico San Lazzaro. Il
San Lazzaro è là, adagiato lungo la via Emilia come un paese:
le sue lunghe mura di cinta, i villini e l’opificio, la scuola e la
ciminiera e dentro, nascosti agli occhi, i naufraghi
dell’esistenza. Gli intoccabili. C’è il guardarobiere appassionato
di fotografia che, oltre a distribuire divise, cataloga i volti;
esponendoli a un obiettivo li condanna e li salva. Li salva per
noi che ora li illuminiamo col nostro sguardo. Persone. Capelli
unti, ispidi, abiti sgualciti e pochi patetici vezzi. Poi gli occhi
come impronte digitali; sono dati sufficienti per diagnosticare un
male? Non ci sono nomi per questi volti, e se mai ci furono,
sono stati pronunciati a bassa voce, irrisi o con vergogna, e poi
sepolti in fretta. Tanti nessuno, tante odissee minime. Nessun
colore. Foto in bianco e nero per questi Nessuno; e pensare
che al San Lazzaro è passato anche Antonio Ligabue che di
colori ne ha usati di bellissimi, ma si sa, Antonio era un pittore e
i pittori sono tutti un po’ matti…”
4
.
4
AA.VV., Il volto della follia, cent’anni di immagini del dolore, cit., p. 71.
6
1.2 L’incontro tra teatro e follia nel mondo
contemporaneo
In Italia il teatro entra nelle istituzioni manicomiali solo ad un certo
punto, molto di recente, all’incirca negli anni Settanta in coincidenza con le
battaglie dell’antipsichiatria e con l’impegno triestino di Basaglia ed è uno
di quei tanti strumenti utilizzati per portare la follia e i matti sulla scena
pubblica. Come afferma Canosa “tutto il secolo diciannovesimo è percorso
da tendenze che mirano ad eliminare nel trattamento del malato di mente i
mezzi coercitivi tradizionali fino a configurare in alcuni anche l’abolizione
di asili chiusi e del relativo divieto per gli alienati di abbandonare il luogo di
ricovero”
5
.
Il manicomio cominciava ad essere esplorato in profondità. Se il
“settecento era stato l’anno del ‘grande internamento’ indifferenziato
(delinquenti, vagabondi, folli,ecc.)”
6
, all’800-900 veniva accostato il termine
‘psichiatrico’. Nel 900 “il manicomio, nel suo isolamento […] permetteva
che la malattia mentale con il conseguente svilimento del paziente,
esercitasse i suoi effetti dannosi comprimendo lo sviluppo della persona,
la sua individualità, le iniziative, appiattendone l’esistenza, riducendo le
relazioni interpersonali, l’esercizio della libertà, la difesa della dignità
personale”
7
.
Quando affermo che l’istituzione manicomiale veniva studiata in
profondità mi riferisco inoltre alla situazione che vi era all’interno di queste
strutture. Uno dei tanti esempi che riporto di seguito non rappresenta il
caso particolare, ma in questo si può leggere la condizione che in
generale vi si poteva trovare.
“[…] In questo manicomio dove erano rinchiusi 608 pazzi provenienti
da varie province, l’uso dei mezzi di coercizione superava ogni
immaginazione. L’uso di ceppi e di catene di ferro ai polsi ed alle caviglie
era abituale ed essi venivano applicati non occasionalmente o per poche
5
CANOSA R., Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 77.
6
Ibid., p. 87.
7
dal sito www.cestim.it
7
ore, ma per mesi e per anni. La loro applicazione era inoltre rimessa non
alla discrezione di un medico, bensì di un frate. […] 608 malati
rimanevano affidati ad un solo medico giovane ed inesperto (mia nota:
durante l’assenza del frate il suo posto veniva preso da un ‘medico
giovane’ senza esperienza). Le condizioni igieniche erano disastrose, gli
infermieri rozzi ed ineducati, la disciplina inesistente, i cessi delle buche
sul pavimento che comunicavano direttamente con le fogne, i mezzi di
cura pressoché nulli, la alimentazione deficiente”
8
.
Canosa aggiunge che “il manicomio fu assai spesso la risposta
nuova ad un problema antico. Non si tratta di una insinuazione malevola:
sono spesso gli stessi psichiatri più sinceri ad insistere sul manicomio
come luogo di custodia, anche se sovente al termine di custodia viene
aggiunto quello di ‘cura’, la quale è poco più che una parola vuota”
9
.
Insomma il manicomio è luogo non d’incontro o di custodia, ma
d’isolamento.
Intorno agli anni Settanta ci si rende conto che la psichiatria
tradizionale è “una funzione necessaria al ‘sistema’ per sopravvivere
attraverso il trattamento di tutti i devianti, che vengono esclusi
definitivamente dalla vita sociale, grazie all’istituzionalizzazione
10
. Si
riflette anche che la diagnostica relativa alla malattia mentale risente
pregiudizi politico-sociali: riporto ciò che scrive Giovanni Berlinguer: “Le
divergenze diagnostiche derivano dalla maggiore o minore capacità
scientifiche del medico, dall’incerto confine fra sano a malato, ma spesso
anche dall’atteggiamento di classe che il medico, inconsapevolmente,
assume verso il soggetto di visita. Gli studenti di medicina di Parma,
issarono sul manicomio provinciale un ironico cartello che diceva: il figlio
del ricco è esaurito, il figlio del povero matto”
11
.
8
CANOSA R., Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, cit. p. 121.
9
Ibid. p. 98.
10
dal sito www.psicolinea.it
11
BERLINGUER G., Psichiatria e potere, Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 11.
8
E in questo contesto che nasce la figura di Franco Basaglia, che con
la ‘sua’ legge del 1978, abolì i manicomi per istituire i servizi d’igiene
mentale.
La battaglia di Franco Basaglia era incentrata su “un moderno
metodo terapeutico consistente nel non considerare più il malato mentale
alla stregua di un individuo pericoloso ma al contrario un essere del quale
devono essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane. Il malato
è di conseguenza in continui rapporti con il mondo esterno, in quanto gli è
permesso di dedicarsi al lavoro e al mantenimento dei rapporti umani […].
Scopo dell’antipsichiatria è di coinvolgere nelle propria concezione
polemica tutte le istituzioni: famiglia, scuola, fabbrica”
12
.
C’è chi usa il teatro a scopo terapeutico, chi, come Claudio Misculin,
lo usa per esaltare l’arte della follia.
Il teatro in Italia si è occupato di dare espressione scenica al disagio.
Dagli anni Sessanta il teatro sociale opera negli ambiti che vanno da
quello socio-formativo a quello terapeutico e socio-culturale, dalla scuola
alle istituzioni totali.
Con la mia tesi mi concentro sul teatro che va alla periferia della
società, che entra nelle zone di confine in cui risiedono i matti e che mette
in scena “la loro originalità e la loro forza esistenziale”
13
.
Il teatro è uno dei mezzi per “raccontare delle storie ed avvicinare
l’Altro, fino ad allora vissuto come mostro da tenere lontano”
14
. Il matto si
trasforma da essere anormale ad attore, artista, capace di relazionarsi con
la realtà, a cui prima non apparteneva.
Andreoli afferma che la follia è la rappresentazione della sofferenza
di non poter essere quello che la società avrebbe desiderato e di poter
svolgere un ruolo che la regola avrebbe voluto
15
.
12
dal sito www.psicolinea.it
13
BERNARDI C., CUMINETTI B., DELLA PALMA S., I fuoriscena, esperienze e riflessioni
sulla drammaturgia nel sociale, Euresis, Milano, 2000, p. 72.
14
AA.VV., Il volto della follia, cent’anni di immagini del dolore, cit., p. 38.
15
Ibid., p. 74.
9
Ebbene, il teatro ha fatto sì che il folle si sentisse a proprio agio con
la società, assumendo quel ruolo di teatrante che “qualcuno” gli aveva
affidato.
Quei “qualcuno” sono diventati “molti”; c’è chi ha chiamato questo
teatro-handicap o drammaterapia, con funzione terapeutica, come Angelo
Fasani e Giuseppe Badolato con il Comitato Arte teatro & handicap, o altri,
chiamandolo psicodramma (inventato da Jacob Levy Moreno), come
“esperienza in cui il protagonista, anziché raccontare una situazione o un
fatto, viene guidato a rappresentare i suoi vissuti con l’aiuto di persone del
gruppo […]”
16
; o altri ancora, per primo Claudio Misculin, che ha rifiutato
ogni attributo terapeutico, perché ha visto nei matti non carenze, non
deficit, ma qualcosa in più rispetto ai “normaloidi”, risorse espressive e
affettive: di qui la scelta di definirlo come teatro-follia.
16
BERNARDI C., CUMINETTI B., DELLA PALMA S., I fuoriscena, esperienze e riflessioni
sulla drammaturgia nel sociale, cit., p. 152.