interessati quando ci raccontano dei propri rapporti con
madri, padri, figli, mogli e mariti riamasti “all’esterno”.
Si è voluto dare particolare rilievo anche all’aspetto della
sessualità e alle modalità con cui i detenuti affrontano le
restrizioni che il carcere, anche in tale ambito, impone.
Abbiamo ritenuto opportuno occuparci dell’argomento
appena citato in quanto la sfera sessuale occupa un posto
importante all’interno della dimensione affettiva di
qualunque persona, ed è al centro di numerose discussioni.
L’elaborato sarà articolato in tre capitoli più le conclusioni
finali. Nella prima parte verrà fatta una panoramica sulla
normativa penitenziaria e la sua evoluzione dal periodo
fascista fino al momento attuale; nel capitolo secondo si
analizzeranno dettagliatamente le influenze che la vita
carceraria ha sul mondo affettivo del detenuto in relazione
all’autostima del detenuto stesso (intesa come affetto di
sé), e al rapporto con i famigliari. Nel terzo e ultimo
capitolo verrà approfondito invece, l’annoso problema
della conciliabilità tra la vita dietro le sbarre e la
possibilità per il detenuto di avere momenti di intimità col
proprio partner.
2
Capitolo I
Normativa penitenziaria e tutela degli affetti
Il cammino legislativo intrapreso per rendere effettiva la
possibilità di un soddisfacente mantenimento delle
relazioni affettive tra il detenuto e i propri cari, sarà oggetto
di analisi in questo capitolo.
Il percorso fino alla prima riforma penitenziaria nel 1975 è
stato lungo e complesso ed ha avuto inizio durante
l’autoritarismo fascista tramite il regio decreto 18 giugno
1931 n. 787.
1. Regio Decreto 18 giugno 1931 n. 787
La regolamentazione fascista era espressione di uno Stato
di impronta autoritaria il cui fine era apparire forte e
rigoroso anche nella lotta alla criminalità. La pena aveva
funzione affittiva ma anche di correzione e recupero, era
attuata esclusivamente attraverso l’istruzione, il lavoro e la
pratica religiosa. Nel testo di legge non vi era quindi alcun
riferimento al mondo affettivo del detenuto quale risorsa a
cui attingere per la risocializzazione e il recupero del reo.
1
La disciplina del regolamento si fondava sull’obbligo di
frequentare le scuole istituite negli stabilimenti e muoveva
dal presupposto che lo stato di incultura e ignoranza, fosse
1
DI GENNARO, BREDA, LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla
detenzione, Giuffrè, Milano, 1997.
3
una delle cause criminogene primarie, per cui “istruire i
delinquenti” sarebbe valso a riadattarli alla società. La
negligenza scolastica era addirittura sanzionabile con la
cella a regime di pane e acqua.
La filosofia seguita era quella enunciata dal Berner: “la
prigione deve rassomigliare a un convento di una regola
inalterabile e rigida . Quelli i quali resistono debbono
essere sottoposti a una regola anche più severa, ad un
costringimento anche più immediato”.
2
Ogni atteggiamento
della vita carceraria era previsto e regolato.
Circa la possibilità di intrattenere rapporti col mondo degli
affetti al di fuori del carcere, con concetti simili si
esprimevano i giuristi del periodo fascista: “Dallo stato di
cattività deriva la limitazione di molte facoltà
dell’individuo che allo stato di libertà possono apertamente
esercitarsi. Pertanto vediamo che i principali mezzi di
comunicazione, col mondo esterno, attraverso la
corrispondenza e i colloqui trovano nel regolamento il
minimo di restrizione.”
3
Tra i giuristi del regime fascista vi era quindi la
convinzione che la normativa sotto questo aspetto fosse
liberale e di maglia larga.
Nello specifico la disciplina dei colloqui è regolata da tutto
il capitolo IV del titolo III (art. 96 a 102). La regola
generale è che nessuna persona estranea
all’amministrazione dello stabilimento o alla sorveglianza
dei detenuti possa parlare con i detenuti, salvo abbia
2
BERNER, Trattato di diritto penale, trad. Bertola, Milano, 1892
3
D’ANIELLO M., Appunti di diritto penitenziario, Ed. La Toga, Napoli, 1934
4
permesso scritto dell’Autorità. Agli effetti del colloquio i
detenuti vanno distinti in base alla loro condizione in
imputati, condannati e fermati a disposizione dell’autorità:
nel primo e nel terzo caso il direttore deve limitarsi a dar
esecuzione al permesso, salvo ostino ragioni di disciplina
(es. punizioni) e in tal caso ne avverte chi ha dato il
permesso. Il permesso è di regola limitato ai parenti
prossimi con l’eccezione di coloro i quali hanno riportato
condanne per gravi delitti, i sottoposti a procedimento
penale per delitto non colposo e persone sottoposte alla
libertà vigilata, salvo permesso per speciali motivi (art
101). Il Ministero della Giustizia può concedere colloqui a
chi dimostri di avere interessi gravi e legittimi; può altresì
autorizzare una persona di spiccata moralità, designata dai
prossimi congiunti ad avere colloqui in loro vece con i
condannati. La funzione genitoriale era addirittura
annullata, era infatti fatto divieto ai minori di diciotto anni
l’accesso, per qualsiasi ragione, agli istituti di pena (art 58).
Il momento del colloquio era reso ancor più difficile per il
detenuto e i familiari dello stesso, dalle modalità pratiche e
dal luogo dello svolgimento.
In ogni carcere dovevano essere approntati locali per i
colloqui, spesso assolutamente inadatti a salvaguardare un
clima famigliare già precario. Vi erano locali diversi a
seconda del sesso o della categoria del detenuto e per gli
infermi veniva predisposta l’infermeria dell’istituto. Nei
vari locali preposti doveva sempre essere presente il
personale di custodia per il continuo controllo della
regolarità del colloquio. La regolarità del colloquio era data
5
tra le altre cose anche dal linguaggio tenuto e dal tono della
voce che dovevano essere tali da non disturbare la pace
dell’istituto. I colloqui avevano durata massima di trenta
minuti prorogabili dal direttore fino e non oltre sessanta (art
96). La validità del permesso era limitata al giorno indicato
e in caso di sopravvenuto impedimento la trafila per
l’autorizzazione doveva essere rinnovata. I colloqui
potevano aver luogo ogni quindici giorni, salvo per i
condannati all’ergastolo che disponevano di un solo
incontro mensile. E’ chiaro che lo Stato dovendo attuare il
suo diritto alla pena poneva serie limitazione alle facoltà di
comunicazione, infatti: “il diritto a mantener vivo il
rapporto con i propri cari e il diritto dello Stato a punire,
sottende un contrasto in cui non può che prevalere il
secondo aspetto sul primo”.
4
Esisteva dunque una profonda
dicotomia tra i due aspetti e la separazione pressoché totale
dal “mondo libero” era vista come parte integrante la pena.
A tal punto si spingeva questa concezione che la possibilità
di sussidiare economicamente la famiglia col proprio
lavoro, continuando ad averne cura, era concessa solo come
premio ai detenuti più meritevoli. Era altresì concesso a
coloro che si fossero rivelati particolarmente degni nel
lavoro e nella scuola, il permesso ad usufruire di maggiori
visite e la concessione gratuita di carta da lettere e
francobolli. Una volta in cella la cura della famiglia del reo
passava, se necessario, perché particolarmente indigente,
sotto la cura del Consiglio di Patronato, il cui compito era
4
M.D’ANIELLO, Appunti di diritto penitenziario, Ed. La Toga, Napoli, 1934
6
quello di “prestare assistenza alle famiglie di coloro che
sono detenuti con ogni forma di soccorso ed
eccezionalmente anche con sussidi in denaro”. Il detenuto
veniva spogliato, di fatto, non solo dei propri affetti ma
anche della responsabilità di assicurarne, per quanto
possibile, la sussistenza.
Nello specifico all’art. 14 il Consiglio tra le altre cose
doveva:
- Assumere informazioni accurate sulle condizioni di
famiglia dei detenuti, specialmente nei riguardi delle
condizioni economiche e della vita morale.
- Adoperarsi per dar lavoro ai componenti delle famiglie
dei detenuti, tramite un sistema di raccomandazioni presso
officine ed aziende
- Segnalare ai comitati dell’Opera nazionale per la
protezione della maternità e infanzia, le madri allattanti
incinte o bisognose di soccorso a causa della carcerazione
di un congiunto
- Assegnare alle famiglie estremamente bisognose sussidi
in denaro.
Tra le facoltà del detenuto vi era anche la possibilità di
intrattenere una corrispondenza epistolare con soggetti
esterni all’istituto di pena.
La regola generale prevedeva secondo l’art. 104 la
possibilità di inviare posta una sola volta alla settimana. Vi
erano poi restrizioni per gli ergastolani la cui frequenza di
spedizione era dimezzata rispetto al normale mentre per gli
imputati, i condannati all’arresto, i condannati per delitti
colposi, o quelli a cui la multa era stata convertita nella
7
pena reclusiva, potevano inviare la propria corrispondenza
anche due volte a settimana.
Altra forte limitazione era data dalla necessità del visto del
direttore ed eventualmente dell’Autorità giudiziaria, se si
fosse trattato di imputati, prima che la corrispondenza
potesse essere spedita (art. 103). Il controllo poteva essere
affidato anche al cappellano. Stesso identico discorso vale
per la corrispondenza diretta al detenuto, passibile
anch’essa di censura.
Secondo l’art. 105 poi, per “consolidare” i rapporti col
mondo esterno poteva essere rilasciata autorizzazione al
detenuto di inviare una sua foto all’esterno del carcere a
sue spese.
A fronte di una disciplina così limitante e disumanizzante
la cosa che più ci ha stupito è stato ritrovare su un manuale
di diritto penitenziario del 1934 una sezione intera dedicata
al problema se fosse giusto o meno ammettere la possibilità
per il detenuto di tenere relazioni intime con il proprio
partner. La tesi sostenuta era, come si può facilmente
immaginare, assolutamente contraria, ma il solo fatto di
sentire il bisogno di parlarne e prendere posizione
sull’argomento significava che almeno il problema era stato
posto. La nostra sorpresa risiede quindi non tanto nella dura
requisitoria di quel periodo storico contro una tale ipotesi,
ma nel polverone mediatico che recentemente ha sollevato
la proposta (di cui si parlerà nei prossimi capitoli) di aprire
il carcere ai rapporti intimi tra i detenuti e i propri partner.
Si era parlato allora di “carceri a luci rosse” e di proposta
scandalosa. E’ ben chiaro quanti pochi passi in avanti,
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verso un sistema più rispondente ai bisogni dell’essere
umano siano stati fatti in tre quarti di secolo, almeno
rispetto a questo tema.
Per cassare tale proposta, il regime fascista si rifaceva al
diritto\ dovere dello stato di punire il reo e non cedere al
pietismo, si vedeva come ineluttabile la restrizione assoluta
di una proposta del genere poiché l’Autorità non poteva
farsi carico di consentire e regolare, le viste intime ai
detenuti, “determinando” - così si legge - “in quegli esseri
anormali, indisciplina, disordini, scherni, ilarità!”.
5
Non erano poi ritenuti ne veritieri ne affidabili quei pareri
medici che sostenevano che l’astinenza sessuale imposta
provocasse anormalità nell’organismo e degenerazione
materiale e morale. Si tendevano quindi ad escludere
ragioni fisiologico-patologiche che potessero non
giustificare il divieto.
Il lavoro veniva visto poi come potente controstimolo
sessuale, soprattutto quello all’aria aperta ed anche se
l’effetto contrario o rieducativo non fosse stato raggiunto i
giuristi del regime ci ricordano come “quei medesimi
uomini cui la vita del carcere, da quasi sempre un contegno
dimesso e quasi sempre ipocrita davanti al confessore o al
direttore del penitenziario, ha pure dietro di sé delle
grassazioni, dei falsi degli omicidi.
Questo, più che altri forse, dimentichiamo noi popoli latini,
che allo slancio del sentimento subitaneo dando tutte le
forze del nostro cielo e del nostro cuore, mentre innanzi al
5
M.D’ANIELLO, Appunti di diritto penitenziario, Ed. La Toga, Napoli, 1934
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volgare omicida, nella flagranza del delitto, ci sentiamo
spinti a trucidarlo per giustizia immediata, dopo qualche
tempo invece, frapposti i tortuosi indugi della procedura,
gli concediamo tutta la nostra riflessiva compassione, e di
lui prendiamo esagerata cura nel carcere, come di
sventurato innocente e non ci si affaccia alla mente, che là
in una soffitta, forse ridotti alla miseria, piangono e
soffrono i figli, la moglie o la madre dell’ucciso!”.
6
Oltre che come forma punitiva l’astinenza aveva la
funzione di non facilitare un ritorno al pervertimento e alla
degenerazione morale. A fronte di questo quindi il Thot
scriveva: “Lasciamo i detenuti in pace!”.
7
Frase che, a mio
parere, letta nel contesto attuale, sembra più esprimere il
concetto opposto ovvero: “i detenuti ci lascino in pace”,
una sorta insomma, di invito a chiudere le celle e buttare la
chiave.
6
FERRI, studi sulla criminalità, Torino, 1926
7
Il problema sessuale nelle carceri, riv. Di diritto penitenziario, 1931
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