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E ha risvegliato una profonda curiosità la sua risposta ad una domanda sulla
situazione cinematografica italiana, una frase da cui successivamente è scaturita
l’idea all’origine di questa tesi:
È una questione di padri e madri. Noi autori italiani abbiamo solo due sicurezze
alle spalle: il neorealismo che è il nostro papà e la commedia all’italiana che è la
nostra mamma. Questi due genitori ci hanno nutrito tutti e per molto tempo.
Hanno accettato ogni tipo di contaminazione, perfino il mio incrocio personale
di commedia italiana e road movie americano in Marrakech Express e Turnè.
Adesso però sono stanchi, sfiniti. Bisogna lasciarli riposare e cercare strade
nostre originali.
1
Da qui ho cominciato a leggere il cinema di Salvatores come una mescolanza di
influenze tra loro diversissime, una combinazione di diversi tipi di cinema:
utilizzando stili provenienti da altre scuole e contaminandoli tra di loro, Salvatores
ha raccontato storie – a volte nuove, come in Nirvana, a volte vecchie come il
mondo, come in Io non ho paura – con un linguaggio nuovo, soprattutto per il
panorama cinematografico italiano.
Nell’analisi delle produzioni del regista mi sono concentrato su quella che viene
definita la seconda parte della sua carriera, quella che comincia con Nirvana (1997)
e prosegue sino ad oggi, introducendola con una carrellata sulla prima parte della
filmografia, relativa ai film che vanno da Sogno di una notte d’estate fino a Sud.
Questa scelta è legata al fatto che i film che arrivano dalla metà degli anni Novanta
in poi sono decisamente più complessi ed articolati dei di quelli a cavallo degli anni
Ottanta – primi Novanta: si va dal racconto fantascientifico al viaggio introspettivo,
fino a tre pellicole (Amnèsia, Io non ho paura e Quo vadis, baby?) che mettono al
loro centro dei protagonisti che sono sempre stati fuori dal cinema di Salvatores:
rispettivamente, i ventenni, i bambini, le donne.
1
GABRIELE SALVATORES in PIERA DETASSIS, Psycho Dramma, “Ciak”, n. 10, ottobre 2000, pag. 71.
3
Il regista continua a calarsi in panni sempre più diversi dai suoi, e per raccontare
queste storie adotta un linguaggio sempre diverso, che va da quello del cinema con
la “c” maiuscola (Quo vadis, baby?) a quello più scanzonato della cultura pop
(Amnèsia).
Queste ultime cinque pellicole sono altresì legate tra di loro da un film mai
realizzato, che in qualche modo ha continuato a lavorare da dentro al cinema del
regista: Cromosoma Calcutta, l’adattamento cinematografico – mai andato in porto
– del romanzo del 1994 di Amitav Ghosh.
L’incontro del regista con questo libro ha fatto sì che i film successivi alla metà
degli anni Novanta fossero molto diversi da quelli di inizio carriera: a partire
dall’atmosfera cupa che caratterizza pellicole come Nirvana o Denti, fino
all’abbandono della narrazione lineare a favore di un’esposizione disarticolata e
spesso distribuita su molteplici piani temporali.
Ma più di tutto, Il Cromosoma Calcutta ha lasciato nel regista un pensiero proprio
delle sue pagine, vale a dire il concetto di verità che il romanzo descrive: «se vuoi
far conosce qualcosa a qualcuno non puoi raccontargliela, perché così facendo ne
modifichi l'essenza e, in un certo senso, la verità. Devi semplicemente mostrargli
degli indizi e metterlo in condizione di arrivarci da solo»
2
. Questo concetto, una
volta tradotto in linguaggio cinematografico, ha caratterizzato tantissimo i film da
Nirvana in poi, in particolare il metodo di narrazione “per far arrivare la verità” allo
spettatore.
C’è un ultimo elemento che lega i cinque film che verranno trattati in questa Tesi: i
titoli. I primi sette film, quelli che arrivano fino al 1993, hanno spesso e volentieri
connotazioni di tipo spaziale: Marrakech Express, Mediterraneo, Sud, Puerto
Escondido. Nirvana è in qualche modo la negazione di tutto ciò che è stato: il
nirvana è il non-luogo per eccellenza, è lo spazio infinito dove non esiste nulla. In
2
GABRIELE SALVATORES in MARCELLA PERUGGINI, Per Salvatores "dobbiamo vigilare meglio sui
nostri figli", www.35mm.it.
4
questo senso è chiaro che – per un motivo ancora – questo può essere considerato il
film della svolta.
Dopo questo titolo, ne arrivano due molto fisici: si tratta di Denti e Amnèsia, due
termini che riportano alla corporeità e alla fisicità dell’uomo: non a caso il primo
film è un “viaggio solitario”, il secondo si misura con una sorta di amnesia tra padri
e figli. Infine si arriva alle ultime due opere: Io non ho paura e Quo vadis, baby?.
Per la prima volta, il titolo della pellicola è una frase, correttamente composta di
soggetto, predicato e complemento. Per la prima volta i titoli non sono evocativi,
ma sono narrativi, raccontano già qualcosa. Salvatores li ha scelti per due film
molto particolari per la sua carriera: due thriller che hanno per protagonisti quanto
di più lontano c’è da lui come uomo: un bambino e una donna.
Di questi cinque film ho cercato di individuare le caratteristiche tipiche
del genere o del tipo di linguaggio a cui fa riferimento e le pagine che
seguono hanno l’obbiettivo di indagare in queste digressioni, vedendo
che cosa rimane del vecchio cinema del regista e cosa di nuovo viene
innestato ogni volta, ad ogni nuovo film.
3
3
Se poi aggiungiamo che Nirvana è ambientato nel 2005, anno in cui Salvatores termina e fa uscire Quo
Vadis, Baby? in cui Andrea Berti pronuncia la frase: “siamo messi peggio dei replicanti di Blade Runner!”,
film a cui più di tutti è stato paragonato Nirvana… il cerchio si chiude!
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1.
1983 - 1993:
da Sogno di una notte d’estate fino a Sud
Il cinema di Gabriele Salvatores parla spesso di sconfinamenti: di personaggi che
hanno un loro equilibrio, che finiscono in un ambiente che non è il loro che in
qualche modo li cambia.
È quello che è successo alla vita professionale dello stesso regista: affermato
registra teatrale per tutti gli anni Settanta con il Teatro dell’Elfo di cui è tra i
fondatori nel 1972, nel 1983 riceve dalla Rai la proposta di portare sul grande
schermo Sogno di una notte d’estate, lo spettacolo teatrale che la compagnia stava
replicando con un enorme successo ormai da tre anni.
Succede così che il primo film è di fatto una scuola di cinema per Salvatores, il
quale al tempo non aveva idea di che cosa fosse una produzione e non conosceva la
differenza tra un 50 e un 25 mm
1
, ma che aveva sempre desiderato di approdare
prima o poi sul grande schermo.
1
Cfr. GABRIELE SALVATORES in LUCA MALAVASI, Gabriele Salvatores, Il Castoro, Milano, 2005,
pag. 5.
6
Sogno di una notte d’estate diventa così anche il primo déplacement del regista.
Perché non è più teatro, ma non è ancora cinema: probabilmente teatro
cinematografico, come l’Elfo stava già facendo da parecchi anni. Per questo
motivo, Sogno non rappresenta tanto il debutto di Salvatores al cinema quanto,
piuttosto, un suo sconfinamento momentaneo (e naturale, visti i precedenti della
compagnia) nel cinema.
La trama è “liberamente tratta” da Shakespeare, ma la genialità della regia è di
contaminare di gusto contemporaneo la tradizione del teatro classico, che diventa
così un capriccio, come è stato definito da Alberto Farassino; un “Rocky
Shakespeare Picture Show”.
La matrice di base che già c’era nell’opera teatrale, è quello di un musical vero e
proprio, in parte recitato e in parte cantato e ballato; ma riletto in chiave di opera
rock, con coreografie alla Hair, sguardi in macchina, controluce alla Alan Parker e
un diffuso ed esibito gusto pop
2
.
Molte degli aspetti che il regista riprenderà in seguito si possono già intravedere in
questo film: dal lavoro cooperativo che vede tutto, o quasi, il cast dell’Elfo a
garantire continuità con il precedente teatrale e che ritornerà per i film successivi,
fino alla struttura narrativa basata su un percorso di andata e ritorno (verso la
dimensione notturna, anche questa ritornerà nella seconda parte della carriera del
regista).
Il film è presentato nella sezione De Sica della Mostra del Cinema di Venezia del
1983, dove ottiene un discreto successo di critica e vince il premio per il “Film
cooperativo”, ma si rivela un flop al botteghino.
Negli anni successivi Salvatores ritorna a lavorare con la sua compagnia,
proseguendo sulla strada della contaminazione tra classico e contemporaneo,
soprattutto accentuando un dialogo sempre più fitto tra la scrittura teatrale e
scrittura cinematografica. Nello spettacolo Sognando una sirena con i tacchi a
2
Cfr. GIANNI CANOVA (a cura di), Nirvana. Sulle tracce del cinema di Gabriele Salvatores, Zelig Editore,
Milano, 1996, pag. 75.
7
spillo (1984) l’allestimento diventa uno spettacolo multimediale in cui vengono
mescolati musica, teatro e cinema, mentre in Amanti (1985) il regista opera un
esperimento di montaggio che riprenderà poi con Amnèsia: quattro storie si
svolgono simultaneamente, ma vengono raccontate rappresentandole una alla volta.
Nel 1986 la compagnia mette in scena Comedians, riprendendo il testo del 1975 di
Trevor Griffith. È da qui che nasce Kamikazen, il primo “vero” film di Salvatores
che uscirà l’anno successivo, nel 1987.
Del film precedente rimane l’ambientazione notturna, volendo, un’ambientazione di
nuovo shakespeariana anche per l’osservanza delle unità di luogo, tempo e azione;
per il tema del teatro nel teatro e per la presenza di un finale solenne e centripeto.
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Seguendo le 24 ore di un gruppo di comici – in questo caso la coralità si esprime
con una spietata concorrenza per il raggiungimento del successo televisivo –
Salvatores offre un quadro della Milano (e dell’Italia) edonista dei tardi anni
Ottanta, tra cabaret e televisione commerciale: una sorta di piccolo “manifesto”
della sua posizione a riguardo di una delle figure per eccellenza della tradizione
teatrale e cinematografica italiana: il comico.
La sceneggiatura permette al regista di passare in rassegna alcuni luoghi topici della
commedia all’italiana, per poi distanziarsene con forza per dirigersi verso un
atteggiamento di malinconico pessimismo. Il suicidio del comico che reciterà Paolo
Rossi al termine del film rappresenta la presa di distanza dalla logica che domina il
commercio della risata (Drive-In ne è preso ad esempio) e della comicità ridotta a
puro intrattenimento, ma può anche essere la genesi di un film come Nirvana e della
tematica del rifiuto del gioco.
Due anni dopo, Salvatores è alle prese per la prima volta con una sceneggiatura
originale, scritta da Umberto Contarello, Enzo Monteleone e Carlo Mazzacurati
(che avrebbe dovuto dirigere il film in un primo momento) finalista al Premio
Solinas del 1987.
3
Cfr. LUCA MALAVASI, Gabriele Salvatores, cit., pag. 40.
8
Quello che nasce come un film su commissione, una logica non molto frequente per
il cinema italiano, diventa il film di Salvatores, quello “portato” più a lungo, «quasi
un “baedeker” del salvatorismo, un bignamino estetico-ideologico»
4
: Marrakech
Express (1989) inquadra la pop culture degli uomini trentenni degli anni Ottanta, i
loro miti (l’hascisc, il calcio, Kerouac e Cat Stevens) e i loro sogni infranti, la
voglia di viaggi e avventure assieme all’incapacità di staccarsi realmente da casa.
A metà tra road movie e commedia Salvatores porta sullo schermo il walkabout (il
viaggio nel deserto che per gli aborigeni australiani è il rito d’accesso alla maturità)
nel Sahara di un gruppo di ex amici, un gruppo in cui la donna è fin dall’inizio
un’intrusa; un viaggio iniziatici di un gruppo di uomini che impara nuovamente a
conoscersi.
Con questo film si assesta una squadra che graviterà attorno al regista per lungo
tempo: dal cast di attori come Diego Abatantuono, Giuseppe Cederna, Gigio
Alberti, Fabrizio Bentivoglio, fino al resto della troupe che vede Nino Baragli – già
collaboratore di Pasolini – al montaggio, Italo Petriccione che debutta alla direzione
della fotografia e Maurizio Totti alla produzione.
Quasi contemporaneamente a Marrakech Express, o meglio durante le pause della
sua lavorazione, Salvatores gira Turnè (1990), una sorta di “gemello” del film
precedente. Le due pellicole sono legate in rapporto ai personaggi (“squadra che
vince non si cambia”), alla forma del racconto – di nuovo una commedia on the
road, che qui però acquisisce i tratti del melodramma – e alla presenza del gruppo,
qui nella forma di un triangolo amoroso, che quindi permette anche di dare un
maggior risalto alla figura femminile.
Ritorna il teatro, mezzo che il regista usa per duplicare e amplificare le situazioni
esistenziali/sentimentali dei protagonisti tramite la messa in scena de Il giardino dei
ciliegi di Čhecov: “Ha quasi quarant’anni e fa ancora lo studente”; la battuta
4
GIANNI CANOVA (a cura di), Nirvana. Sulle tracce del cinema di Gabriele Salvatores, cit., pag. 79.
9
pronunciata più volte da Lopachin/Dario/Abatantuono, suona molto come
un’autoanalisi collettiva.
Attraverso questa rappresentazione nella rappresentazione, Salvatores anticipa
anche uno dei temi che svilupperà qualche anno dopo: il confronto tra reale e
virtuale che sarà al centro di Nirvana.
Turnè si apre con colori morbidi, toni delicati ed echi cinefili (Jules e Jim,
soprattutto), per poi incupirsi e farsi livido, fino alla sequenza ambientata in auto di
notte, con lo scontro col treno evitato per un soffio. E alla fine, come unica via
d’uscita allo spaesamento, sceglie la sospensione, “Qui ci vuole un attimo di sosta”
come dice Vittoria alla radio
5
. Benché il finale sia apparentemente lieto (con il
ritrovarsi di Dario e Federico), la pellicola ha uno degli epiloghi più amari del primo
cinema di Salvatores: questa sosta diventa l’acquisizione di una mancanza, una
certificata impossibilità di proseguire oltre.
A ridosso di Turnè, Salvatores comincia a lavorare a Mediterraneo, terza pellicola
consecutiva prodotta da Minervini e film che varrà al regista il premio Oscar come
Miglior Film Straniero del 1991.
Si tratta di nuovo di una scampagnata maschile, una cameratesca vacanza
generazionale (otto soldati che Montini descrive “più o meno in quell’età in cui non
hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il modo”) in cui il gruppo
(che in Marrakech doveva ri-costituirsi) deve costituirsi ex novo, come il paese
dall’altra parte del mare lacerato dalla guerra.
Mediterraneo mette sullo schermo delle dinamiche di gruppo in un contesto diverso
da quello abituale, e lo fa con un progressivo svuotamento delle caratteristiche
tipiche del war movie: l’allontanamento del conflitto e delle armi, lo sgretolamento
delle gerarchie militari, la chiave comica con cui vengono smontati gli episodi
bellici (l’uccisione dell’asina, l’aggressione da parte di un “plotone” di galline, la
5
Ivi, pag. 81.
10
gag delle parole d’ordine) e più di tutto, nell’inversione del logico epilogo della
guerra: non la morte, ma la rinascita, con l’amore tra Farina e Vassilissa.
Attraverso questa storia – e all’epilogo, ambientato nel presente, vale a dire il futuro
dei protagonisti – Salvatores racconta i sogni di una generazione che ha combattuto
per la liberazione dell’Italia e che ha avuto (o creduto di avere) la possibilità di
ricostruirla da zero. Ma è una generazione che al suo rientro si scontra con
l’impossibilità di cambiare il vecchio, concetto che è racchiuso nella frase che Lo
Russo/Abatantuono pronuncia al suo ritorno sull’isola: “Non ci hanno lasciato
cambiare niente. Allora ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a
considerarmi vostro complice.”
Questa frase (assieme all’epigrafe iniziale e alla dedica finale) ha contribuito a
creare il mito di Salvatores come il regista della fuga, a definire Mediterraneo come
l’epilogo della trilogia della fuga: probabilmente più che alla fuga, questo film fa
riferimento alla sconfitta.
Quanto al legame con i due film precedenti, è forse più corretto dire che le tre
pellicole sfregano letteralmente l’una contro l’altra, anche a causa dell’assenza di
grossi intervalli tra le loro riprese. I tre film si passano attori, sceneggiatori, tecnici,
«restano impigliati l’uno nell’altro, ma non sono una trilogia, […] non producono
un discorso coerentemente unitario e progressivo, né sono la diversa declinazione di
uno stesso tema, la triplice scrittura di uno stesso argomento»
6
.
La consegna dell’Oscar per Mediterraneo avviene mentre la troupe (grossomodo
sempre la stessa) si trova sulle Ande, nel bel mezzo delle riprese del film
successivo, Puerto Escondido (1992).
Centrato ancora una volta su uno spostamento, il film ne dà questa volta un diverso
significato: non è più il movimento figurato di un analogo processo interno ai
protagonisti, ma un luogo altro dove il protagonista (ancora Diego Abatantuono) si
muove goffamente, completamente estraneo. La riflessione del regista si fa politica:
6
LUCA MALAVASI, Gabriele Salvatores, cit., pag. 77.
11
“Che danno ci farà un sistema che ci stordisce di bisogni artificiali per farci
dimenticare i bisogni reali? Come si possono misurare le mutilazioni dell’anima
umana?” recita l’epigrafe del film, presa a prestito da Eduardo Galeano.
Il dubbio si fa più generale, sul “sistema”, sui “danni”, su come misurarli e su come
raccontarli. Perché Puerto Escondido è anche il film più duramente attraversato
dall’opposizione, dalla contrapposizione in maniera dicotomica del “qui” e “là”, dei
bisogni reali e di quelli artificiali.
Milano e il Messico sono raffigurati come due mondi lontanissimi, ma per quasi
tutto il film, il protagonista fa ancora parte del primo mondo. Non ha caso, «il
viaggio iniziatico non ha luogo e la “rieducazione” dell’italiano-medio (tutto Rolex,
abiti griffati e luoghi comuni) inizia – forse – solo alla fine, quando il personaggio
di Abatantuono, ferito, chiede di poter vedere dal letto dove giace un pezzo di
cielo»
7
.
Il vero film dopo Oscar arriva nel 1993 e nasce da una precisa volontà del regista di
spezzare con il cinema precedente. Non un film internazionale, ma fortemente
italiano; non più viaggi, ma stanzialità; non più grandi spazi aperti, ma soltanto un
seggio elettorale e la piazza antistante, un ambiente quasi claustrofobico.
Attraverso Sud, Salvatores realizza un western all’italiana, chiaro fin dall’incipit in
cui tre diversi episodi convergono verso il centro del seggio elettorale attraverso
«una successione consapevolmente leoniana di campi lunghi e stretti»
8
. Il piccolo
paese in cui si svolge la vicenda sembra «una ghost town da western, dove non
esistono mezze misure e ci si sfida in piazza per la vita o la morte»
9
, poi c’è il
fortino, c’è l’assedio, tutti elementi da film americano sugli indiani.
C’è anche una citazione esplicita al primo western della storia del cinema: La
grande rapina al treno (The Great Train Robbery, Edwin S. Porter, 1903) da cui
Salvatores prende a prestito l’inquadratura in cui il bandito spara “in faccia” al
7
GIANNI CANOVA (a cura di), Nirvana. Sulle tracce del cinema di Gabriele Salvatores, cit., pag. 85.
8
LUCA MALAVASI, Gabriele Salvatores, cit., pag. 97.
9
Ibidem.