5
accettando di essere sempre una forma di conoscenza imperfetta, oppure, se si istituisce
il parallelismo “mente”-corpo non si assume la veste conoscitiva monista e si crea
l’aspetto critico di riconoscere il passaggio dal piano biologico a quello “psichico”. Lo
psicologo quindi, non può prescindere dalla scelta teorica di riferimento.
Come specifica Berretta però, oggi “concepire la realtà, il mondo vivente, come oggetto,
è una scelta storicamente declinata”
4
. Ciò implica che la scienza non sia più considerata
come portatrice di risposte, bensì di teorie, epistemologicamente rigorose, utilizzabili
per interpretare la realtà. Essa dunque è da considerarsi come esistente, ma non
direttamente conoscibile: “la realtà è accessibile allo scienziato solo se vista riflessa e
utilmente deformata[…], ovvero nella sua teoria”
5
. Ciò che lo scienziato fa è formulare
ipotesi interpretative, ovvero, creare delle mappe per percorrere la realtà, ma non la può
percorrere di per sé. Come sostenuto da Turchi “La mappa non è da confondersi con il
territorio, ma non solo: sottratte le mappe conoscitive della ragione non rimane alcun
territorio”
6
. Il processo conoscitivo, nel “realismo ipotetico”, non è quello per
osservazione di tipo “baconiano”, bensì quello proposto da Popper
7
. Secondo tale
pensatore, la scienza segue uno schema tetradico, dove c’è un problema di partenza
(P1), per la cui soluzione viene proposta una teoria provvisoria (TT), dopo la quale,
attraverso controlli critici, viene messo in atto un processo di eliminazione degli errori
(EE). Questo processo di conoscenza si “conclude” con la formulazione di nuovi
problemi da risolvere (P2). Si può perciò considerare come il processo scientifico non
possa raggiungere una conclusione , dal momento che, se la realtà non è conoscibile, le
ipotesi producibili, sono potenzialmente infinite.
4
Ibidem. Pgg. 19.
5
Ibidem. Pgg 35.
6
G.P. Turchi, A. Perno “Modello medico e psicopatologia come interrogativo” Domenghini editore 2004.
Pgg. 68.
7
Karl R. Popper “La conoscenza e il problema corpo mente” il Mulino 1994. Pgg. 21-25.
6
In questo livello di realismo si può inscrivere, a pieno credito, la psicologia, la quale,
movendosi, per essere scientifica tramite teorie, utilizza costrutti che hanno una validità
solo all’interno di una teoria che li definisca.
L’ultimo livello di realismo ovvero quello “concettuale” infine, nega l’esistenza di una
realtà esterna all’osservatore e considera ciò che conosciamo come costruito. Tale piano
epistemologico infatti, si basa sul “principio di indeterminatezza” di Heisenberg.
Quest’ultimo, nel 1932, ha teorizzato che la realtà è indeterminata, quindi, di una
particella, in un dato momento, noi possiamo conoscere, o la massa, o la traccia, ma non
entrambe: “quanto più accuratamente misuro una quantità, tanto meno accuratamente
posso misurare le quantità ad essa collegate”
8
. In ambito psicologico, ciò significa che,
come sostenuto da Salvini “la realtà non è separabile dai discorsi che, descrivendola
vanno a crearla”
9
. Il mondo degli eventi psicologici non si può slegare da un agire
comunicativo dotato di senso, in cui le teorie, mentre vorrebbero spiegare la realtà, ne
generano un’altra differente, della quale esse stesse fanno parte.
8
www.thymos.com/science/quantum.html
9
Alessandro Salvini “Psicologia clinica” upsel domenghini editore. 2004. Pgg. 32.
7
INTRODUZIONE
Questo lavoro, che si inscrive in un livello di realismo concettuale si propone di
condurre una riflessione epistemologica rispetto alla “doppia diagnosi”. Si è infatti
iniziato a parlare di “doppia diagnosi” a partire dagli anni ottanta, proponendola come
una soluzione ai limiti diagnostici precedenti. Tale riflessione è strutturata in tre parti
distinte, in cui le prime due serviranno come base per la terza.
Nella prima parte, si presenta su base bibliografica, la storia del rapporto tra psichiatria
e “tossicodipendenza”, ponendo l’attenzione sul ventesimo secolo, dove si è passati da
un periodo di netta separazione fra servizi psichiatrici e servizi per le
“tossicodipendenze” , fino al “ritorno di fiamma” degli ultimi vent’anni
1
. Da questo
punto si procede alla presentazione delle forme di “doppia diagnosi” individuate da
First e Gladis (1993), descrivendo le caratteristiche che le contraddistinguono
2
.
La seconda parte è anch’essa bibliografica, e presenta le considerazioni critiche riguardo
la “diagnosi” psichiatrica prima, e quelle riguardo alla diagnosi di “dipendenza da
sostanze”, in seguito. Rispetto a quest’ultimo punto si presentano anche i cenni storici e
i modelli sociali relativi alla “tossicodipendenza”.
La terza parte, invece, si basa sulle due precedenti. In questa si cerca di proporre delle
riflessioni critiche riguardanti la “doppia diagnosi”, rilevando come non sia un nuovo
strumento diagnostico, bensì la riproposizione di un errore di fondamento, ovvero
quello della diagnosi psichiatrica stessa.
1
Paolo Rigliano “Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia” Raffaello cortina editore.
2004. Pgg. 41-47
2
Paolo Rigliano “Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia” Raffaello cortina editore.
2004. Pgg. 52-57.
8
PRIMA SEZIONE: cenni storici, nascita e descrizione della
“doppia diagnosi”
1: “Doppia diagnosi”: cenni storici e nascita
Storicamente, la psichiatria si è interessata alle “tossicodipendenze” da quando l’utilizzo
di sostanze ha iniziato ad avere una certa rilevanza sociale. Questo momento può essere
individuato fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, ovvero quando il consumo
di sostanze stupefacenti, non era più solo appannaggio delle classi più elevate, ma era
diventata un’“abitudine comune”
1
. Per tutto il diciannovesimo secolo l’uso di sostanze
“risultava come un passatempo degli ambienti letterari ed artistici”
2
ed era giustificato
da ragioni filosofiche. Verso la fine del 1800 però, il consumo, soprattutto degli
oppiacei, si espanse a macchia d’olio, divenendo un “problema” sociale. Secondo
quanto riportato da Roberta Milanese
3
per esempio, un largo consumo di morfina, si
ebbe durante il conflitto franco-prussiano del 1870, tanto che la “morfinomania” venne
ribattezzata “la malattia del soldato”.
In particolar modo la visione predominante per un buon periodo è stata quella definibile
“moralista”, in cui il “tossicodipendente” era visto come rispondente ai suoi soli
desideri. Allo stesso modo, uno dei padri della psichiatria, Pinel
4
, considerava il “folle”
come vittima delle sue “passioni”, proponendo come metodo di “cura” il cosiddetto
“trattamento morale”. Secondo questa impostazione i “pazienti”, in base alla loro
presunta “patologia”, subivano un trattamento diverso (ad esempio “i cupi malinconici
1
G.P.Turchi “”Tossicodipendenza”. Generare il cambiamento tra mutamento di paradigma ed effetti
paradigmatici”. Domeneghini editore 2002. Pgg. 172.
2
Ibidem. Pgg. 171.
3
Salvini A., Testoni I., Zamperini A. “Droghe. Tossicofilie e tossicodipendenza” Utet libreria. 2002. Pgg.
60.
4
Alfredo Civita “introduzione alla cura e all’epistemologia della psichiatria” Guerini Studio. Pgg 59-65.
9
saranno messi in un sito piacevole…” Pinel 1987, pag 118
5
) e dovevano stare a regole
ferree, così da “contrapporre al disordine interno dei malati l’ordine esterno
rappresentato da un sistema di vita costruttivo ed ineccepibile”
6
. Allo stesso modo uno
studio di Kaneklin et al. del 1987 pone luce su come determinate comunità terapeutiche
mirino alla trasmissione di modelli comportamentali adeguati, cercando di salvare il
“tossicodipendente” dal “mostro” della “droga”
7
.
Questa considerazione “moralista” è stata integrata con la considerazione patologica
della “tossicodipendenza”, creando così il parallelismo: drogarsi è immorale, chi si
droga è malato. Nel 1903 per esempio, nell’ambito delle riunioni dell’ “Associazione
medica Americana e dell’Associazione dei farmacisti” si dichiarò che la morfina, se non
somministrata da terapeuti avesse un “potere diabolico”
8
.
È appunto la produzione di discorsi relativi alla “tossicofilia” in chiave
“psicopatologica”, che ha consentito di ipotizzare vari tipi di correlazione fra la stessa e
altri “disturbi psichici”.
Già nell’ottocento si era cercato di trovare un collegamento lineare, ovvero causalistico
fra “psicopatologia” e utilizzo di sostanze stupefacenti, così si riteneva che “l’incontro
tra un tossico esogeno e una costituzione debole avrebbe prodotto le cosiddette psicosi
esogene”
9
. Questo punto di vista potrebbe ricordare quello proposto oggi secondo cui la
“depressione maggiore” sarebbe collegata, in maniera lineare, all’utilizzo di eroina
10
.
Questa considerazione è durata per anni, quantomeno fino alla prima parte del
ventesimo secolo.
5
ibidem. Pgg. Pgg 67.
6
ibidem. Pgg. 68.
7
Turchi G.P. “ “TOSSICODIPENDENZA” Generare il cambiamento tra mutamento di paradigma ed
effetti pragmatici.” Domenghini editore. 2002. Pgg 201.
8
ibidem. Pgg. 173.
9
Paolo Rigliano “Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia” Raffaello cortina editore
2004. Pgg. 41.
10
ibidem. Pgg. 72-74.
10
Considerando il periodo corrispondente a questo secolo si può notare come, fino agli
anni ottanta, 1982 per essere precisi
11
, ci fosse una netta scissione fra psichiatria e
servizi per le “tossicodipendenze”. Questa avvenne perché si considerava assoluta la
necessità di “non medicalizzare” e soprattutto di “non psichiatrizzare” la “dipendenza”,
in modo tale da evitare che i “pazienti”, sentendosi “malati di dipendenza”, “provassero
ancora più fatica” a cambiare i loro “comportamenti”, esperendo gli stessi come
immodificabili, perché parte costituente di “sé”. La psichiatria aveva quindi smesso di
occuparsi delle “tossicodipendenze”, per le quali invece, erano nati servizi appositi.
Questa scissione, quantomeno in Italia, secondo Rigliano
12
, era presente ad ogni livello
lavorativo:
- a livello clinico gli psichiatri avevano abbandonato i pazienti consumatori di
sostanze;
- a livello socioculturale si era venuta a creare una netta contrapposizione della
visione riduzionistica biologistica psichiatrica, contro una concezione
“psicosociale”. Secondo la prima, come visto sopra, la “tossicodipendenza” era
considerata come una forma di “psicopatologia”, mentre la seconda prendeva
come proprio argomento cardine, per spiegare il “fenomeno della
“tossicodipendenza”, la “devianza sociale”. Ciò implica che la
“tossicodipendenza” era da rileggersi all’interno di una determinata cultura che
la definisse;
11
Nel 1982 ci fu negli Stati Uniti la conferenza “Alcolismo e psichiatria clinica”, considerata come giro
di boa per il passaggio dalla scissione alla collaborazione tra psichiatria e servizi per le
tossicodipendenze.
12
Paolo Rigliano “Doppia diagnosi. Tra tossicodipendenza e psicopatologia” Raffaello cortina editore
2004. Pgg. 42.