alcuni articoli, da parte dell’Egitto - Paesi, tutti e tre, arabo/arabizzati-
musulmani - e da parte del Pakistan - Paese non arabo/né arabizzato
ma a maggioranza musulmana -, in quanto riconosciuta in contrasto,
completamente o per molti aspetti, con l’Islam, i cui precetti religiosi
condizionano, come vedremo meglio più avanti, la prassi politico-
giuridica.
Nonostante l’ampia convergenza raggiunta in favore della
Dichiarazione (48/58 Stati) - inclusi, dunque, 4 Paesi arabo-
musulmani (Egitto, Iraq, Libano, Siria) e 4 non arabi ma a chiara
maggioranza musulmana (Iran, Pakistan, Turchia, Afghanistan) -
l’astensione dell’Arabia Saudita e l’assenza dello Yemen esprimevano
di fatto un’opposizione fondamentale ad un testo recepito sin dalle sue
origini come frutto dell’esperienza storico-politica occidentale e in
netta contraddizione con l’Islam.
Tale opposizione, in un primo momento oscurata dall’ostinato
e ben più compatto rifiuto dei Paesi socialisti, si è manifestata in tutta
la sua consistenza nella lunga fase della ratifica del Patto
internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Pdesc) e di
quello sui diritti civili e politici (Pdcp), nonché dei Protocolli
facoltativi a quest’ultimo, tutti volti a tradurre giuridicamente in forma
impegnativa i principi enunciati dalla Dichiarazione.
Era palese che la mancata unanimità nei consensi da parte
degli Stati membri pregiudicava l’effettività dell’auspicata vocazione
universale della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
E’ anche vero che non del tutto sincero appariva l’entusiasmo
manifestato da parte degli Stati sostenitori della Dichiarazione,
consapevoli del suo esclusivo valore morale, importante sì, ma non al
punto da incidere efficacemente sulla loro libera determinazione nel
trattamento da riservare agli individui in quanto tali, indigeni ovvero
stranieri.
L’iter del riconoscimento e della tutela dei diritti umani è
proseguito con un considerevole numero di dichiarazioni di principi,
di convenzioni e di atti internazionali ispirati alla Dichiarazione
Universale, per poi approdare, a distanza di 28 anni e attraverso una
8
fase sfibrante e non sempre positiva di lunghi e complessi negoziati, ai
due Patti del 1966 e al Primo Protocollo facoltativo al Patto sui diritti
civili e politici, e dopo altri 15 anni, al Secondo Protocollo facoltativo
a quest’ultimo, con le relative pressioni di assicurare universalmente
l’attuazione concreta dei principi etici in essa contenuti e la loro
trasformazione in norme atte a ingenerare diritti e obblighi da
rispettare, ossia di garantire il loro trasferimento dal piano
preminentemente morale a quello del diritto.
Ciascun Patto contemplava una diversa categoria di diritti
umani, quali le libertà civili e politiche - diritti della I generazione -
e la giustizia economica, sociale e culturale - diritti della II
generazione - .
L’aver tenuto distinti in due strumenti internazionali i diritti
economici e socio-culturali da un lato e quelli civili e politici dall’altro
lato sarebbe stato manifestazione delle divergenze esistenti, nel merito
e al di fuori della vocazione universale dei diritti umani, tra i due
blocchi di Stati contrapposti nel contesto internazionale, dominato
all’epoca dalla logica della guerra fredda, e rappresentati
rispettivamente dai Paesi orientali e dai Paesi occidentali, ovvero dagli
Stati in via di sviluppo e dagli Stati industrializzati ad economia
avanzata, al punto che il prevalere dell’una o dell’altra sfera della
dignità umana veniva ad avere il significato della vittoria dell’uno o
dell’altro blocco
3
.
Nella Conferenza regionale sui diritti dell’uomo organizzata
dagli Stati asiatici nel marzo 1993, in vista di quella generale di
Vienna, fu riaffermato il carattere occidentale dei diritti umani
espressi nelle Dichiarazioni internazionali e, nella convinzione che
l’Occidente, inducendo tali Stati ad applicare al loro interno i diritti in
questione, avrebbe tentato, in sostanza, di imporre loro il proprio
modello politico, sociale, culturale ed economico, rallentandone fra
l’altro lo sviluppo, tramite l’imposizione di standard di diritti
implicanti costi maggiori, e avrebbe mantenuto, quindi, il proprio
predominio in ambito internazionale, furono considerati una nuova
3
S. BARBIROTTI, Sistema arabo-islamico e diritti umani, “Rivista internazionale dei
diritti dell’uomo”, 2001, p. 417.
9
espressione dell’imperialismo occidentale (politicizzazione dei diritti
umani).
Da ciò l’evoluzione subita nel tempo dai diritti umani, nel loro
complesso, conseguenza da un lato dell’approfondimento del valore di
quelli di più antica origine e tradizione e dell’aggiunta di sempre
nuovi principi - l’uno e l’altra sulla base delle specificità culturali e
degli ordinamenti e sistemi politico-giuridici asiatici (del Sud-Est
asiatico), differenti da quelli occidentali, non congrui con la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e strutturati secondo una
diversa gerarchia etica e una diversa visione del rapporto tra individuo
e comunità e tra diritti individuali e doveri verso la comunità -, effetto
dall’altro lato della giusta dimensione di universalità dei diritti
dell’uomo e della legittima aspirazione di vedere progressivamente
migliorate le condizioni di vita dell’intera umanità.
A Vienna, poi, una posizione assai vicina a quella dei Paesi del
Sud-est asiatico fu adottata anche dal ministro degli Affari Esteri
dell’Arabia Saudita, il quale, puntando sul concetto di specificità
culturale, affermò che per i musulmani i diritti umani possono essere
desunti soltanto dalla shari’a.
Ed è per i suddetti motivi che la dinamica evolutiva dei diritti
umani si è arricchita della lenta maturazione, con la decisa
opposizione – anche se non sempre manifesta – dei Paesi occidentali,
di un nuovo diritto umano, privilegiato dai Paesi del Terzo Mondo,
compresi gli Stati musulmani arabi/arabizzati e africani, rispetto ai
diritti politici, civili e sociali e inteso a fronteggiare le loro aspirazioni,
il diritto allo sviluppo della società (diritti della III generazione), che
ha acquistato nel tempo una sua posizione nella comunità
internazionale e che oggi, pur con le dovute differenze, è quanto meno
riconosciuto da tutti gli Stati, anche se, finora, ha avuto scarsa
attuazione sul piano pratico.
Essa passa, poi, nel modificato scenario mondiale del post-
1989, attraverso la Conferenza mondiale sui diritti dell’uomo
organizzata dalle Nazioni Unite a Vienna nel giugno 1993 che, nel
ribadire nel documento conclusivo il valore universale dei diritti
10
previsti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e dalle
successive Convenzioni internazionali, riconosceva, con l’unanime
consenso dei partecipanti, che tutti i diritti umani sono uguali,
indivisibili e interdipendenti e ricomponeva la controversa questione
della prevalenza di alcuni su altri.
Nel contesto, poi, dell’evoluzione nel tempo della coscienza
della comunità internazionale, è iniziato, dapprima timidamente e poi
con sempre maggiore intensità, il cammino verso il riconoscimento,
nel quadro dell’insieme dei diritti umani fondamentali universalmente
riconosciuti e tutelati dal diritto internazionale, di una IV generazione
di diritti umani
4
, tra cui il diritto alla democrazia.
I primi tentativi d’ingresso della democrazia nel campo dei
diritti umani risalgono ai primi ed incerti passi che l’Ufficio delle
Nazioni Unite muoveva, non più tardi di 15 anni fa, per fornire ai
nuovi Stati, nati dal frazionamento di Paesi unitari, l’assistenza di
volontari per il monitoraggio dello svolgimento delle operazioni
elettorali, oggetto di aspre critiche in quanto considerata responsabile
della violazione della sovranità dei singoli popoli; giudizio questo, in
verità, manifestamente errato, in quanto la succitata supervisione
elettorale avveniva ed avviene a richiesta e con espressa
autorizzazione dello Stato in questione.
Il dibattito politico si è andato poi sviluppando rapidamente
nelle varie sedi internazionali e, quasi in risposta alle iniziative dei
Paesi in via di sviluppo, tendenti a sollecitare una più rapida
evoluzione ed attuazione dei diritti economici, gli Stati occidentali
hanno spinto per vedere affermare universalmente il sistema politico
di tipo democratico in quanto, in base alla loro cultura, democrazia e
diritti umani erano da considerarsi sinonimi, essendo incorporati nella
prima i valori espressi dai secondi, e la democrazia era da ritenersi il
presupposto per l’attuazione e il godimento dei diritti umani
fondamentali internazionalmente protetti, il cui pieno rispetto non
sarebbe stato assicurato in sua assenza: democrazia, quindi, come
4
L. CITARELLA, Art. cit., p. 9.
11
principale indicatore con il quale misurare la performance degli Stati
altri nella sfera dei diritti umani
5
.
Nella lunga e non sempre lineare - per tensioni e contrasti -
evoluzione della complessa dialettica fra Stati, l’idea di un legame
quasi indissolubile fra democrazia e diritti umani, fondata sulla
convinzione di una forte interdipendenza reciproca, presentata e fatta
avanzare nel tempo nelle diverse sedi internazionali, è approdata ed è
stata formalizzata, per la prima volta, in una Risoluzione adottata
nell’aprile del 1999 (Ris. 57/99) dalla Commissione per i diritti umani
delle Nazioni Unite.
La stessa Risoluzione annunciava solennemente il diritto alla
democrazia, da affiancare agli altri diritti umani e di cui tentava di
fornire un quadro descrittivo, anche se non arrivava a darne
un’univoca accezione, a dettarne cioè una definizione.
Fra le tante espressioni che essa contiene, nel tentativo operato
dalla comunità internazionale di fornire una definizione che potesse
accogliere il consenso unanime dei suoi membri, si legge «la
democrazia è basata sulla volontà liberamente espressa dei popoli di
determinare il loro sistema politico, economico, sociale e culturale e la
loro piena partecipazione in tutti gli aspetti della loro vita». Ma subito
dopo essa si affretta a riconoscere che, nel mondo, esiste una vasta
gamma, di diversa natura, di democrazie.
Nella parte dispositiva sono elencati gli aspetti essenziali del
diritto alla democrazia, ovvero, come recita in modo ingannevole il
testo, del «diritto ad un sistema di governo democratico». Fra questi
aspetti, alcuni sono conferme di diritti umani già pienamente
riconosciuti ed affermati, altri sono nuove enunciazioni: diritto al
suffragio universale su base di eguaglianza; sistemi di votazioni libere,
di elezioni periodiche e libere; diritto di tutti i cittadini all’elettorato
passivo; diritto dei cittadini di scegliere liberamente attraverso mezzi
costituzionali democratici il loro sistema di governo.
La Risoluzione rappresenta, dunque, una pietra miliare sulla
lunga strada dei diritti umani, relativamente, in particolare, al loro
5
S. BARBIROTTI, Art. cit., p. 416.
12
rapporto con la democrazia e allo sviluppo del nuovo diritto alla
stessa, e indica la volontà di superare le divergenze attraverso un
bilanciamento fra le opposte aspirazioni e tendenze dei singoli Stati,
attraverso cioè un equilibrio fra diritto allo sviluppo e diritto alla
democrazia.
E’ lecito però sollevare più di qualche dubbio sulla possibilità
che il collegamento democrazia/diritti umani e il diritto alla
democrazia possano riuscire, in quanto comune sentire di tutti gli
Stati, a consolidarsi in breve tempo e ad acquistare, insieme, ad
esempio, al diritto alla pace e al diritto all’alimentazione, una loro
effettiva valenza universale, ribadita, per tutti i diritti previsti dalla
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dalle
successive Convenzioni internazionali, dal Segretario Generale
dell’ONU, Kofi Annan, alla riunione dell’Organizzazione della
Conferenza Islamica (OCI) di Teheran del novembre 1997.
Si dovrà, pertanto, portare avanti un dialogo costruttivo, che
consenta alle diverse civiltà di conoscersi e di confrontarsi e che,
attraverso uno sforzo di comprensione delle reciproche ragioni e di
tolleranza, possa sfociare in un risultato comune da tutte condiviso.
Il terreno ideale per questo dialogo è rappresentato dall’antico
mare Mediterraneo per la sua peculiarità di limitata area geografica,
sulla quale gravano Paesi che, pur avendo antichi legami e comuni
interessi, sono rappresentativi di una vasta gamma di concezioni
politiche, economiche, sociali, culturali, e che è sede delle tre grandi
religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam).
In questo contesto l’Islam non potrà non continuare a
rappresentare l’interlocutore privilegiato dei Paesi occidentali.
Il rapporto dell’Occidente con l’Islam è stato caratterizzato,
soprattutto negli ultimi decenni, da numerosi tentativi di dialogo,
rimasti purtroppo incompleti sia a causa del sospetto e della diffidenza
con cui viene guardato il mondo musulmano per le rivalità e le
contrapposizioni esistenti nel corso dei secoli nei pregnanti aspetti
religiosi, politici ed economici e per la reazione emotiva agli
13
avvenimenti più recenti sia per la difficoltà di comprendere la realtà
islamica da parte degli occidentali/cristiani
6
.
Tre i principali ostacoli alla conoscenza delle dinamiche della
comunità musulmana:
1. la vastità di un’analisi che dovrebbe spaziare su 14 secoli di storia,
dall’origine dell’Islam ad oggi, e che dovrebbe abbracciare l’area
geografica nella quale lo stesso ha trovato espansione, compresa tra
l’Atlantico e la Cina;
2. l’approssimazione di una valutazione condotta con una mentalità di
tipo occidentale, europeo;
3. l’incertezza dell’essenza dell’Islam, in considerazione della
contemporaneità della sua unicità teologica (l’Islam è la fede del
mondo musulmano) e della sua molteplicità sotto il profilo storico-
geografico (l’Islam si è diffuso nei secoli in diverse aree del mondo), e
nelle sue espressioni politico-istituzionale e socio-culturale.
Sotto quest’ultimo aspetto, l’Islam è:
9 Regime, da quello tradizionale dell’Arabia Saudita a quello
rivoluzionario dell’Iran khomeinista;
9 Tradizione autentica dell’Arabia Saudita, ma anche tradizione
moderata e tollerante, che sostiene che si debba mettere il Corano
alla base della società musulmana, senza rigorismi e in versione
moderna
7
(e che va da quella meno dogmatica della comunità africana
- circostanza confermata dalla convivenza di cristiani, pagani e
musulmani all’interno di uno stesso nucleo familiare e dalla diffusione
di esperienze ascetiche che altrove verrebbero condannate o a
malapena tollerate - a quella aperta alla modernità del Libano), e
inoltre mentalità ispirata all’ortodossia più intransigente,
all’interpretazione più rigorosa della Legge coranica, che alimenta,
soprattutto tra le giovani generazioni, i gruppi politici anti-sistema,
peraltro non univoci nel pensiero e nei comportamenti e dagli
occidentali definiti radicali, fondamentalisti, integralisti. Questi, tra
6
G. PAOLUCCI et C. EID (a cura di), Cento domande sull’Islam. Intervista a Samir
Khalil Samir, Genova, Marietti 1820, 2002, p. 9.
7
Ivi, p. 59
14
cui il Gia algerino, il gruppo di Abu Sayyaf delle Filippine, di Tanzim
al-Jihad e di al-Takfir wa-l-higra dell’Egitto, considerano la modernità
sinonimo di secolarizzazione, ateismo, immoralità, paganesimo,
ostilità dell’Occidente, e così via; ritengono che aderire alla modernità
significhi mettere a rischio o perdere l’identità musulmana; credono
che la Legge coranica vada comunque imposta, anche facendo ricorso
alla violenza; teorizzano il terrorismo; strumentalizzano la religione
islamica e diventano protagonisti di azioni violente condotte in nome
dell’Islam (guerra di religione) contro i Paesi occidentali, a cominciare
dagli Stati Uniti, sostenitori dei governi musulmani più o meno
moderati (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Pakistan, ecc.)
8
;
9 Associativismo nelle realtà civili per la difesa dei diritti umani
universalmente riconosciuti e tutelati da un lato e culla delle
Dichiarazioni universali islamiche dei diritti dell’uomo dall’altro lato
9
.
E’ anche vero che il succitato pluralismo è, in ogni caso, tenuto
a bada dall’egemonia dei Paesi islamici più ricchi, in particolare
dell’Arabia Saudita, che attraverso i loro finanziamenti influenzano
idee e comportamenti di milioni di fedeli e contribuiscono a un
processo di unificazione.
Il primo ostacolo è in realtà l’unico da poter superare, facendo
esclusivo riferimento al mondo arabo-islamico, i cui confini «non
coincidono esattamente con quelli di un popolo, di una nazione, di una
razza o di una religione»
10
, e che è da intendere come l’insieme di
Paesi arabi o arabizzati che, partendo dall’Arabia Saudita, gravano
lungo una prima direttrice verso il Nord Africa (Siria, Libano, Iraq,
Palestina, Egitto, fino al Marocco) e lungo una seconda direttrice
verso l’Oceano Indiano e l’Estremo Oriente (Indonesia, ecc.), e nei
quali la civiltà musulmana è nata e si è sviluppata (Paesi islamici:
Penisola arabica e precisamente le due città principali La Mecca e
Medina) ed ha iniziato la sua espansione (Paesi islamizzati); tutto ciò
al di fuori dell’incertezza se di fede islamica siano le loro popolazioni
8
Ivi, p. 60.
9
S. BARBIROTTI, Op. cit., p 420.
10
P. G. DONINI, I Paesi Arabi, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 15.
15
o le maggioranze delle loro popolazioni o se queste adottino un
sistema di governo retto dalla Legge Islamica.
Ed è proprio in quella parte del mondo arabo-islamico che
insiste nel bacino del Mediterraneo – Paesi rivieraschi e Paesi ad essi
limitrofi - e che corrisponde in definitiva alla gran parte degli Stati
attualmente membri della Lega degli Stati Arabi (LSA) e al contempo
dell’OCI, che ha il suo epicentro il dibattito sui diritti umani, in cui
entrambe le organizzazioni internazionali arabo-islamiche, così come
altri organismi privati, sono inevitabilmente coinvolte da poco più di
trent’anni, dando il loro contributo alla codificazione in materia, ossia
dotando il mondo arabo-musulmano di una sua specifica e autonoma
definizione di diritti umani, alla luce delle evidenti divergenze con la
concezione onusiana.
L’ideale irrinunciabile dell’intero mondo arabo-musulmano,
pur caratterizzato dall’attaccamento dei singoli Stati alla propria
sovranità nazionale così tardivamente e faticosamente raggiunta che
emerge nella resistenza istintiva da essi mostrata di fronte a
qualsivoglia sacrificio richiesto per una seppur fondamentale forma di
sovranazionalità – come dimostra la mancata entrata in vigore della
Carta araba dei diritti dell’uomo -, è l’Unità, a cui è improntato il
messaggio di Maometto - sigillo dei profeti -, colui cioè che trasmette
all’umanità l’ultimo messaggio di Dio e corregge e completa tutte le
rivelazioni precedenti portandole a compimento. Essa è rappresentata:
1. dal dogma dell’Unicità di Dio («non c’è Dio al di fuori di Dio»),
proclamato da Maometto e dalla professione di fede (Shahada) in un
unico Dio, Allah, e nel suo Profeta, in evidente rottura con le
concezioni politeiste dell’epoca pre-islamica;
2. dalla circostanza che tutti i fedeli si ritrovano insieme nello stesso
istante a compiere gli stessi gesti, semplici ma fortemente unificanti
(preghiera rituale, offerta dell’elemosina rituale, digiuno nel mese di
Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca), cioè dal sincronismo collettivo
che, mentre dà alla religione una peculiarità normativa (osservanza
16
delle prescrizioni) e un carattere comunitario, mette in risalto e
rinsalda l’unità dei musulmani
11
;
3. dalla concezione del mondo che integra la dimensione religiosa e il
momento politico-sociale e che si traduce nell’unicità della comunità
religiosa e civile, rappresentata dall’indivisibile Umma Islamiyya,
consacrata ed enfatizzata dal Corano - la parola comunicata da Dio al
suo ultimo messaggero -, nella quale si riconoscono 1 miliardo e 200
milioni di persone e che, pur composita e articolata, presenta tratti
comuni sia dal punto di vista rituale sia nell’approccio alla realtà e nei
modelli di comportamento che propone
12
;
4. da un’unica legge, la shari’a, inspirata al Libro Sacro dell’Islam e
basata su un’infinità di detti del Profeta, molto difficili da
memorizzare e i cui detentori sono i dottori della legge con quasi
assoluta autorità sui fedeli.
L’Islam è, dunque, contemporaneamente, una religione, un
progetto politico, un programma di società civile, un ordinamento
giuridico
13
.
Ciò significa che la Legge divina islamica non si limita a
regolamentare i comportamenti religiosi del musulmano, ma, ispirata
ai principi di equità, solidarietà e giustizia, raggiunge la sua vita in
tutta la sua interezza, si irradia cioè in tutti gli aspetti della sua
esistenza, ne ispira il pensiero e ne condiziona il comportamento,
fornendogli le norme da seguire nel suo vivere civile e nei suoi
rapporti sociali
14
.
In questo senso, per chi, come la stragrande maggioranza degli
occidentali, concepisce la religione come qualcosa che appartiene alla
dimensione spirituale dell’esistenza, l’Islam con il suo progetto
globale che è insieme religioso, sociale e politico appare un fenomeno
nuovo e per certi versi incomprensibile
15
.
11
G. PAOLUCCI et C. EID, Op. cit., pp. 22-23.
12
Ivi, p. 10.
13
S. BARBIROTTI, Art. cit., p. 422.
14
Ibidem.
15
G. PAOLUCCI et C. EID, Op. cit., p. 8.
17