2
padri fondatori della sociologia, ha formulato in Le forme elementari della vita
religiosa
4
una definizione del sacro in termini funzionali. Precisamente quando
afferma che: «una religione è un sistema solidale di credenze relative a cose sacre,
cioè separate, interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale chiamata
Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono»
5
. Egli non definisce che cosa sia il sacro, ma lo
descrive in termine relazionali come qualcosa di “separato” rispetto a qualcos’altro.
Questa formulazione risulta così particolarmente adeguata per descrivere ciò che si
intende in ebraico per sacro (kadosh), che letteralmente significa “separato”,
“distinto”.
La formazione culturale di Durkheim è poliedrica; discendente di una famiglia di
rabbanim (maestri) è cresciuto studiando la Torah e il Talmud per poi affermarsi
come scienziato sociale, ma nella presente ricerca non si suppone una generica
“essenza ebraica” della concezione della religione espressa in Le forme elementari
della vita religiosa , né si ipotizza che l’educazione ebraica ricevuta abbia agito sulle
riflessioni del sociologo come uno strato profondo cui attingere, anche solo
inconsapevolmente. Le riflessioni di Durkheim vengono adottate come strumento
concettuale per introdurre teoricamente l’analisi della “kedushà”, ovvero la sacralità
nella tradizione ebraica.
Il fenomenologo Rudolf Otto, ha elaborato nel saggio Il sacro,
6
una definizione
sostantiva di questo fenomeno, descrivendolo in termini nominali, egli tenta di
stabilire cosa esso sia.
Bisogna tener presente che l’autore era professore di teologia protestante, e che le
sue riflessioni, si devono collocare all’interno del dibattito sulle «nozioni teistiche
del divino »
7
, che si riferiscono in particolar modo alla religione cristiana.
Egli definisce il sacro, in opposizione a chi lo definisce esclusivamente in termini
razionali, come numinoso. Con tale termine egli intende sottolineare come la
4
Emile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Il sistema totemico in Australia, a cura di
Massimo Rosati, Meltemi, Roma, 2005
5
Ibidem pag. 97
6
Rudolf Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1984
7
Ibidem, pag. 15.
Con l’espressione “concezioni teistiche del divino” ci si riferisce a quella dottrina religiosa “ che
affermi l’esistenza di un Dio creatore del mondo, personale, trascendente, e provvidente”, in ,
Enciclopedia garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano, 1981, voce teismo pag. 922.
3
razionalità non possa aver accesso alla dimensione irrazionale del sacro. Il numinoso
si configura come ciò che «si sottrae alla sfera del razionale nel senso su indicato ed
è un arreton, un ineffabile in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione
concettuale»
8
. Esso si riflette in prima istanza nella coscienza dell’individuo come
“sentimento creaturale”, vale a dire, la percezione dell’ uomo di essere una creatura
finita, di avvertire la propria nullità di fronte a quello che è sentito «oggettivamente
fuori di mè»
9
: ovvero il Mysterium tremendum. L’autore analizza il numinoso
nell’Antico Testamento e rintraccia nel pathos divino quella forza attiva che
congiunge D-o all’uomo, di cui l’uomo fa esperienza; l’essere umano in tal modo
viene inteso come oggetto passivo di tale interessamento. Dopo aver esaminato i
momenti in cui il numinoso si dispiega, l’autore si interroga su quali possano essere i
mezzi di rappresentazione del sacro. Egli li suddivide in due categorie, quelli diretti e
quelli indiretti. Nei primi vi è una comunicazione non mediata tra il numinoso ed il
soggetto che ne fa esperienza; l’autore riconosce come mezzi diretti le pratiche quali
il culto e la preghiera. Otto sostiene che il sentimento religioso è razionalmente
inesprimibile e direttamente irrapresentabile. Il numinoso, si può definire utilizzando
le categorie razionali, solo attraverso la teologia negativa
10
, poiché questa si avvale
di un linguaggio che non pretende di definire razionalmente cosa il numinoso sia ma
cosa “non è”. Questa considerazione ha origine nel pensiero dell’essere divino come
infinito, che non si riduce ad alcuna delle cose finite. Infatti, nelle formulazioni della
teologia negativa, ogni sostantivo attribuito alla divinità viene preceduto dal prefisso
“non”. In tal modo si può affermare, attraverso una negazione, ciò che il divino “non
è”. Secondo il teologo tedesco, anche l’esperienza del sacro nella cultura occidentale
ha questa caratteristica , poiché esso si può esperire solo nelle tenebre e nei silenzi,
come recita una lirica del pastore pietista Gerhard Tersteegen
11
, riportata dall’ autore:
«Signore, Tu parli solamente nel silenzio più profondo a me in tenebre »
12
. I mezzi
indiretti, quali il sublime ed il terrificante, sono considerati tali in virtù del fatto che
8
Rudolf Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 17
9
Ibidem, pag. 29
10
Nell’ambito della teologia cristiana la distinzione tra teologia positiva e teologia negativa è
attribuita a Dionigi Areopagita, filosofo e teologo cristiano del V sec.
11
Gerhard Tersteegen (1797-1769)
12
Rudolf Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 77
4
questi mezzi hanno la capacità di evocare il sentimento del numinoso, ma non di
rappresentarlo direttamente.
La difficoltà di definire e delimitare la divinità è centrale nella riflessione sulla
interdizione di rappresentare il sacro nell’ebraismo. Nel capitolo terzo, si esamina - a
partire da un' analisi etimologica del termine kadosh, "sacro" - come questo viene
concepito nella cultura ebraica.
Spesso ai fini di tale analisi, si è deciso di adottare alcune formulazioni del filosofo
ebreo A. J. Heschel. Quella che egli propone, nel saggio Il messaggio dei profeti
13
ed in particolar modo in Dio alla ricerca dell’uomo
14
, è una riflessione sul e
dell’ebraismo attraverso le categorie concettuali proprie dell’ebraismo stesso.
L’autore, infatti chiarisce con l’espressione “filosofia dell’ebraismo”, che il termine
“ebraismo”, possa essere usato sia come oggetto che come soggetto. Nella prima
accezione (ebraismo come oggetto) la “filosofia dell’ebraismo” è una critica
dell’ebraismo attraverso categorie esterne al pensiero ebraico e dunque in tal senso,
«l’ebraismo è inteso come tema od oggetto del nostro esame»
15
. Nella seconda
accezione (ebraismo come soggetto), invece, il termine “ebraismo” «viene
considerato come una sorgente di idee che cerchiamo di comprendere»
16
.
Una filosofia dell’ebraismo, secondo l’autore, è una filosofia che si occupa nello
stesso tempo di idee ed eventi. Egli ribadisce la centralità degli eventi se si vuole
comprendere l’ebraismo, poiché «L’esodo dall’Egitto, o la rivelazione sul
Sinai…sono un evento, non un’idea; un avvenimento, non un principio»
17
e cercare
di distillare dal Pentateuco solo una serie di principi, sarebbe come «cercare di
ridurre una persona viva ad un diagramma»
18
.L’ebraismo è costellato di eventi
significativi per il popolo ebraico, quali quelli sopra citati. Questi, nel pensiero
biblico, secondo l’autore, hanno dato origine ad un particolare tipo di pensiero
ovvero il “pensiero situazionale”, che Heschel, definisce in rapporto a quello
“concettuale”. Il primo è un atto del ragionamento, il secondo comporta piuttosto una
esperienza interiore. Il “pensiero concettuale” si può qualificare come adeguato
13
A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti. Edizioni Borla, Torino, 1954
14
A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Edizioni Borla, Torino,1969
15
Ibidem, pag. 40
16
Ibidem, pag. 38
17
Ibidem pag. 38
18
Ibidem pag. 38
5
«quando siamo impegnati nello sforzo di accrescere la nostra conoscenza del
mondo»
19
, mentre il “pensiero situazionale” si può definire come necessario in
quanto «siamo impegnati nello sforzo di comprendere problemi nella risoluzione dei
quali mettiamo in gioco la nostra stessa esistenza »
20
. Queste due tipologie di
pensiero poggiano su due tipi di atteggiamenti diversi, in quanto, quello proprio del
pensatore concettuale è il distacco: «il soggetto, infatti, si trova di fronte ad un
oggetto indipendente»
21
, mentre quello del pensatore situazionale è di
partecipazione: «il soggetto, infatti, si rende conto di essere coinvolto in una
situazione che è necessario comprendere»
22
. Come sostiene Averincev, il pensiero
ebraico, a differenza di quello greco che si caratterizza come «pensiero sul mondo»
23
è un « pensiero nel mondo »
24
, poiché l’uomo biblico non avverte la solitudine
interiore in quanto « in un modo o nell’altro avverte la presenza di Dio»
25
.
Alla luce di tali considerazioni si può comprendere come, nel terzo capitolo, una
volta definito il sacro in termini funzionali, si analizzi l’evento della rivelazione sul
monte Sinai, del Sacro Assoluto, ovvero di D-o. A tale analisi segue una riflessione
sui contenuti veicolati durante tale manifestazione, vale a dire, i dieci comandamenti.
In particolar modo si analizza il secondo comandamento, a partire dal testo in
ebraico, come viene espresso nell’Esodo (20, 3-5). Esso, infatti, è la prima fonte
biblica su cui l’esegesi rabbinica si è esercitata al fine di indagare il rapporto tra
immagine ed ebraismo. In particolare si approfondisce la spiegazione dei termini
tmunà (immagine) e pesel (scultura), in quanto il commento che i maestri hanno
fornito di questi termini in ebraico, ha dato adito a diverse interpretazioni su quale sia
l’oggetto del divieto.
Da questi versi, ( Esodo 20, 3-5) e da molti altri contenuti nella Torah, si sarebbe
indotti a pensare che il divieto di rappresentazione sia assoluto, ovvero che questo
riguardi la divinità, l’uomo e tutto il creato.
19
A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Edizioni Borla, Torino, 1969, pag. 21
20
ibidem
21
ibidem
22
ibidem
23
Sergej Averincev, Atene e Gerusalemme, in Lettera internazionale, numero 33/34 del 1992, pag. 15
24
ibidem
25
ibidem
6
Francesca Calabi e Stefano Levi della Torre
26
hanno rilevato come l’interdizione
dell’immagine, di fatto, non sembri assoluta, poiché nella Torah molti sono i
riferimenti alle immagini.
Nel terzo capitolo si analizza, a partire dal secondo comandamento, come la
rappresentazione di immagini sia stata oggetto di argomentazione nella Mishnà,
primo commento orale messo per iscritto nel II sec. e.v. In appendice viene trattato il
contesto scocio-culturale in cui è stata elaborata la Mishnà.
Il rapporto con l’immagine, nella Mishnà è stato affrontato, nel trattato (masechet)
intitolato Avodà Zarà, (culto straniero), all’interno del capitolo (perek) III. Le
riflessioni dei maestri sulle immagini, in particolar modo in questo periodo, sono
strettamente collegate alle riflessioni sull’idolatria e specialmente ai riti e culti propri
della cultura greca e romana
27
.
In appendice
28
, si riportano i versi selezionati dalla Torah ( Il Pentateuco) da Vittorio
Castiglioni, primo esegeta italiano che si è confrontato con la traduzione in italiano
del trattato Avodà Zarà. Il criterio guida nella selezione dei versi citati è che «risulta
che la proibizione delle immagini, era a solo fine preventivo contro l’idolatria, che in
quel tempo si identificava con l’arte figurativa»
29
. Nella presente ricerca non
vengono esaminati in modo approfondito tutti i versi citati dal Castiglioni, ma,
questo elenco, consente di mettere in luce come la sua tesi venga condivisa da molti
autori quali J.F. Frey
30
, E. Bickeramn e A. Luzzato
31
.
Successivamente le sentenze espresse dai dottori della Mishnà sono state
commentate dagli amoraim, i maestri del Talmud in diversi trattati. Le opinioni dei
talmudisti in merito all’idolatria sono state affrontate dal filosofo Maimonide
32
, cui
26
Stefano Levi Della Torre (Torino, 1942), pittore e saggista.
27
I paragrafi (mishnaiot) presi in esame sono stati studiati sul testo originale ebraico.
28
Vedi Appendice n. 3
29
Vittorio Castiglioni, Traduzione italiana di Mishnaiot, Ordine terzo e quarto,Roma,1962, pag. 256
30
J.B-Frey, La question des images chez les Juifs, Biblica 15,1934; Bickerman,Symolysm in the Dura
Europos Synagogue in Studied in Jewish and Christian History, part III, Leiden 1986; citati in
Francesca Calabi, Simbolo dell’assenza: Le immagini nel giudaismo, Quaderni di storia, Dedalo,
1995, pag. 6
31
A. Luzzato, L’aniconismo ebraico fra immagine e simbolo in, L’arte e la Bibbia. Immagine come
esegesi biblica, a c.di T. Verdon, Settimello, 1992.
32
Maimonide (1135-1204) vedi appendice glossario maestri per approfondimenti.
7
dedica una intera sezione nel Libro della conoscenza
33
. Le opinioni di Maimonide e
quelle di molti altri maestri del passato sono state raccolte da Aharon ha-Levi, autore
spagnolo del XIII sec e.v. nel Sefer ha- hinuch ( Il libro dell’educazione).
Seguendo le fonti presenti nel Sefer ha-hinuch ed altre fonti che non sono presenti in
questa opera, nel terzo capitolo si analizza il secondo comandamento ed il verso
dell’Esodo 20,23. Da tali discussioni risulta che le immagini di Dio in qualsiasi
forma esse siano, sono proibite. Per quanto concerne le immagini del creato e del
mondo, c’è una discussione sul tipo di strumento utilizzato per produrre una
determinata immagine ed il tipo di immagine che viene riprodotta. Infatti, i maestri
distinguono tra immagini piane, quali l’illustrazione; le immagini a rilievo, come
quelle ottenute con la tecnica del basso rilievo; e quelle incise a incavo. Il criterio di
tale differenziazione verte sul risultato che si ottiene utilizzando una determinata
tecnica, ovvero se l’immagine che ne risulta è a rilievo o meno, e sul referente,
ovvero l’oggetto della raffigurazione. Si possono individuare le seguenti tipologie di
referenti affrontati nelle discussioni dei maestri.
1) le immagini del creato, come le piante e tutto ciò che appartiene al mondo.
2) le immagini che rappresentano l’essere umano.
3) quattro animali che sono l’aquila, il bue, il leone e l’uomo.
4) la rappresentazione degli angeli che sono al servizio divino.
5) gli oggetti del santuario.
Dai dibattiti dei rabbanim (maestri) emerge come non si tratti tanto di un divieto,
quanto di sfumature dell’interdetto: così sembra che lo scopo finale a cui è destinata
l’immagine, piana o in rilievo che sia, definisca il divieto o la liceità della
rappresentazione , questo almeno per quanto concerne il primo punto. I punti 3, 4, 5,
vengono esaminati all’interno del capitolo terzo.
Quando invece si tratta di rappresentare l’essere umano in tre dimensioni, come ad
esempio nella scultura, l’interpretazione dell’interdizione verte su più aspetti.
L’uomo nella Torah viene presentato come l’unica creatura a immagine e
somiglianza divina.
33
Moise Maimonide, Le livre de la connassance, traduit de l’hébreu et annoté par Valentin
Nikiprowetzky et Andrè Zaoui, Quadriage, Paris, 1961
8
Su cosa debba intendersi per somiglianza (dmut) divina vi è una disquisizione che
verte sul significato da attribuire a questo termine. Il filosofo Maimonide nella Guida
dei Perlessi, per somiglianza intende, la “somiglianza concettuale” tra D-o e l’uomo.
Egli afferma:« a causa dell’intelletto divino a lui congiunto, si dice che egli è “ad
immagine di D-o e a sua somiglianza”- e questo non significa che D-o è un corpo
dotato di una figura»
34
. Ci suggerisce come il concetto di somiglianza non verta su
caratteristiche antropomorfe della divinità, poiché questa è incorporea e intangibile.
L’elemento di similarità è rintracciabile in un aspetto immateriale dell’essere umano,
ovvero la sua intelligenza. Il divieto di rappresentare l’essere umano in modo
completo secondo alcuni rabbanim è correlato all’aspetto della somiglianza:
nonostante l’uomo e D-o siano radicalmente diversi, non è consentito riprodurre
l’uomo, perché, come visto, viene considerata una creatura unica, e in quanto tale
non deve essere riprodotta. Per le altre interpretazioni del concetto di somiglianza, e
i motivi che sono alla base dell’interdizione di rappresentare l’essere umano nella sua
completezza, si rimanda al capitolo terzo.
Nadine Shenkar, nel testo L’Arte e la Cabbalà
35
ci mostra come «Nonostante il
secondo comandamento, gli artisti ebrei si sono espressi nel corso dei secoli in tutte
le forme d’arte. E, tuttavia, risulta netta la loro reticenza riguardo le arti plastiche, e
alla scultura in particolare. Infatti l’ambiente in cui vivevano ha svolto un ruolo
interessante: quanto più i cananei, i gerci o i romani assegnavano ai loro idoli uno
statuto determinante, tanto più gli ebrei reagivano decisamente allontanandosi
dall’arte figurativa e dalla statuaria»
36
.Uno dei motivi di tale diffidenza, secondo
l’autrice è da rintracciare nel fatto che la scultura, nella cultura ebraica, viene
percepita come un forma d’arte non adatta a veicolare la fluidità del pensiero ebraico;
la scultura infatti è caratterizzata da una forma definita e statica. L’aspetto della
fluidità del pensiero ebraico è particolarmente evidente se si analizza questo aspetto
del linguaggio biblico: il tempo presente nel Pentateuco non esiste, ci sono solo
passato e futuro e attraverso il prefisso ( la vav inversiva), si può cambiare il passato
in futuro, ed il futuro in passato; un' ambiguità lessicale che nelle traduzioni della
34
Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di muro Zonta. Edizioni Utet, Torino 2003, pag. 91
35
Nadine Shenkar, L’arte ebraica e la cabbalà, Edizioni Spirali, Milano 2000
36
Ibidem, pag. 16
9
Torah in altre lingue, si perde. La statua, ai profeti appariva come una “cosa morta”,
come descritto da Isaia: “Ognuno lo invoca ma non risponde; non libera nessuno
dalla sua angoscia”
37
. L’idolo nelle fattezza della scultura è incapace di rispondere
alle preghiere dell’uomo. La Torah, al contrario, si configura come un testo che, se
interrogato, fornisce sempre, nuove risposte a nuove domande, come sottolinea Rav
Ouaknin
38
in tutta la trattazione dei dieci comandamenti.
Nel quarto capitolo, si renderà conto della proliferazione di immagini contenute nella
Torah, ed in particolar modo si analizzerà la prima opera artistica del popolo ebraico,
il Mishkan, ovvero “Tenda della Radunanza”o Tabernacolo. Il Mishkan si può
considerare come un “tempio portatile” costruito su ordine di D-o, simbolo della
presenza divina nel deserto. Attraverso un' analisi testuale che paragona la creazione
del mondo da parte di D-o con la creazione del Mishkan per mano umana, si
sottolineano le analogie tra le due creazioni, tanto che il tabernacolo si può
considerare come il prodotto in cui viene attuata la imitatio dei: l’uomo costruttore e
creatore viene paragonato al D-o creatore del mondo. Si analizza inoltre, il Santuario
di Gerusalemme, ovvero il beth ha-miqdash concepito da re Davide ed edificato dal
figlio Salomone. Distrutto una prima volta nel 586 a.e.v dal re babilonese
Nabucodonosor, fu ricostruito grazie alle concessioni del persiano Ciro il grande nel
539 e.v. L’importanza del Tempio per Israele non stava tanto nel suo aspetto reale
quanto nella sua funzione altamente simbolica, concepita già da Davide che volle il
Tempio appunto come segno tangibile dell' unificazione di un popolo nella fede per
un D-o unico. Proprio tale funzione simbolica, fortemente sentita, spiegherebbe il
profondo smarrimento provato dal popolo ebraico per la sua definitiva distruzione,
avvenuta sotto l’imperatore romano Tito nel 70 e.v. La Torah narra come il Tempio di
Salomone fosse riccamente decorato. Gli stessi cherubini che sormontavano l’arca nel
Mishkan li ritroviamo nel Tempio
39
insieme a fiori, palme
40
, melograni
41
; essi sono
intagliati nelle pareti del Tempio
42
che entrano fin “Santo dei santi” (Kodesh ha-
37
(Isaia 46,7).
38
C.f.r Marc-Alain Ouaknin, Le Dieci Parole, Il decalogo riletto e commentato dai Maestri ebrei
antichi e moderni, Paoline, Milano, 2001.
39
(I Re 6, 23-32).
40
(IICronache 3,5).
41
(II Cronache 3,16).
42
(II Cronache 3,7).
10
kodashim), il luogo più sacro di tutto il tempio, sotto forma di due grandi statue le cui
ali si dispiegano al di sopra dell’Arca
43
. Come interpretare la presenza delle immagini
nel Tempio o in altri luoghi destinati al culto?
Se nella Torah vi sono moltissimi riferimenti alle immagini inerenti al Tabernacolo
ed al Tempio di Gerusalemme, in epoca greco-romana sembra che si accentui il rigore
aniconico. La diffidenza nei confronti delle immagini, come sottolinea Stefano Levi
Torre, “ sembra accentuarsi nei periodi in cui gli ebrei sono sottoposti a uno scontro
diretto, politico e militare, con altre culture”
44
, come nei periodi della dominazione
ellenistica nell’epoca dei maccabei (II sec.a.e.v) e quello della conquista romana (I
sec. a.e.v. e II sec e.v).
Le immagini, secondo Fiorella Bassan
45
, riemergono come motivo ornamentale nelle
catacombe e nelle sinagoghe a partire dalla fine del II sec. ev, come testimoniano i
ritrovamenti archeologici della sinagoga di Beth Alfa e di Dura Europos e le
catacombe di Beth Shearim. Se l’arte figurativa ebbe un periodo fiorente in epoca
talmudica, ovvero dal III al V secolo, la reticenza nei confronti delle immagini
riemerse, come sostiene Stemberger, quando la cultura ebraica entrò in contatto con
quella araba «L’orientamento avverso all’arte figurativa da parte dei rabbini fu poi
rafforzato dall’ostilità delle immagini presente nell’Islam, ostilità che essa ha le
stesse origini ebraiche»
46
.
A partire dal IX secolo e fino al XIII, le immagini riaffiorano per illustrare i
manoscritti miniati, attraverso l’utilizzo della micrografia, ovvero l’uso delle lettere
per la raffigurazione. Tale tecnica veniva utilizzata per la decorazione masoretica,
ovvero per i commenti alla Torah ai margini del testo. Una volta descritte le tipologie
di immagini presenti nei vari periodi storici, si prendono in considerazione le
spiegazioni fornite da diversi studiosi raccolte da Francesca Calabi
47
, in Simbolo
Dell’assenza: le immagini nel giudaismo.
Si potrebbe sostenere che l’interpretazione del divieto di rappresentazione sia
correlato ai vari contesti sociali con cui la cultura ebraica si è confrontata e che le
43
(II cronache 3.10-13 ;I Re 8, 6-8)
44
Stefano Levi Della Torre, Non ti farai alcuna immagine, La Rassegna Mensile di Israel, UCEI,
Roma, n.2 maggio-agosto 1998 pag. 19
45
C.f.r Fiorella Bassan, Iconografia ebraica in Torah e filosofia, Giuntina, Firenze, 1992, pag. 127
46
Gunter Stemberger, Il giudaismo classico , Roma, Città Nuova, 1991, pag. 197
47
Francesca Calabi, docente di storia della filosofia tardo-antica presso l’Università di Pavia.
11
immagini presenti nei luoghi di culto stiano ad indicare, come suggerisce la Shenkar
che “l’oggetto non esiste in sé, non ha nessuna ragion d’essere se non è il veicolo
dello spirituale e del sacro”
48
.
La stessa azione, ad esempio la scultura di due angeli (i cherubini) compiuta in base
ai precetti prescritti da D-o, viene considerata permessa, anzi sacra. Ma la
riproduzione fedele degli oggetti contenuti nel santuario di Gerusalemme, compresi i
cherubini, è considerata proibita, perché, con la distruzione del Tempio nel 70 e.v
decade la sua funzione, ovvero di essere simbolo della presenza divina, e gli arredi
così non sarebbero altro che sculture.
Difatti, l’autrice nota come in ebraico, la parola emunah (fede) e la parola omanut
(arte) hanno in comune la stessa radice, (alef, mem, nun). Il significato generico della
radice è innalzare, essere portato, essere vero, essere fedele, avere fiducia, stringere
un’alleanza.
49
La normativa ebraica (alachà), parla appunto di hiddur
mitvà
50
(eseguire un precetto in un modo estetico), ovvero di abbellimento del
precetto. Secondo tale concetto l’arte non ha fini propri ma è intimamente correlata
all’esecuzione di un precetto prescritto (una mitzvà), come via d’accesso alla
dimensione del sacro (kadosh).
Dagli studi condotti in merito al divieto di rappresentazione nell’ebraismo, si è giunti
a constatare come sia particolarmente problematico il rapporto tra cultura ebraica e la
scultura. In prima istanza, poiché le sculture erano oggetto di idolatria delle
popolazioni con cui gli ebrei erano entrati in contatto. Si avanza l’ipotesi che tale
divieto verta sul processo creativo adottato nella scultura; nelle conclusioni si
chiarirà tale congettura.
48
Nadine Shenkar, L’arte ebraica e la cabbalà, Edizioni Spirali, Milano 2000, pag. 24
49
Ibidem pag. 95
50
David Cassuto, omanut bealacha, Bar- Ylan University Press, Gerusalemme, 1984 ( edizione in
lingua ebraica)