5
In una società massmediatica come l’attuale, la percezione che abbiamo della
realtà è sfacciatamente influenzata dai mezzi della comunicazione. Il medium,
in quanto estensione dell’uomo, accelerazione e ampliamento delle sue
funzioni, «ha il potere di imporre agli incauti i propri presupposti»
2
, di far
cadere le masse «nell’intorpidimento, o effetto narcotico, della nuova
tecnologia, la quale tende a cullare l’attenzione mentre a sua volta la nuova
forma chiude violentemente le porte del giudizio e della percezione»
3
.
L’uomo, sovraccaricato dagli stimoli prodotti dai media, sembra richiedere a
livello fisiologico tale operazione anestetizzante: gli strumenti del comunicare,
in virtù della capacità di narcotizzare il pensiero, esercitano su di lui una
grande forza manipolatrice, diventano macchine per attivare coscienze e
costruire opinioni.
In una sì fatta situazione, il cinema (più tardi il video) ha saputo sfruttare le
sue potenzialità persuasive: incanto di forme in movimento ha contribuito a
formare e modificare, nel corso del tempo, la nostra percezione del mondo. Ha
influenzato quindi anche il nostro rapporto con la diversità, contribuendo a
costruire, attraverso le sue storie, l’immaginario sociale sull’handicap.
Sono numerosi i film che hanno raccontato, sotto molti profili, le tematiche
connesse al problema, sia alla disabilità fisica, genetica, o acquisita
(quest’ultima per esempio legata alla guerra), sia al disagio mentale. Film che,
alternando momenti di denuncia e satira puerile, di affermazione e
frustrazione, di retorica e impegno civile, hanno spesso offerto un’immagine
distorta della diversità, svelando in verità una serie di deficit a livello di
pregiudizi nello sguardo “normodotato” dei registi che gli hanno realizzati.
Sono molti i lavori in cui il problema della disabilità è rivisitato come
ingrediente dello spettacolo, asservito ai meccanismi commerciali della grande
industria cinematografica e falsato in questo modo nel suo autentico
significato. Le tematiche legate alla disabilità sono abusate, ora per ricavarne
2
M. McLuhan, Understanding Media, McGraw-Hill, New York, 1964, trad. it.: Gli strumenti del
comunicare, Net, Milano, 2002, pp. 23-24
3
Ibidem, p. 73
6
melodrammatiche morali paternalistiche, ora, associate a sentimenti di terrore,
per provocare paura e panico.
Come denuncia il giornalista Giuseppe Iannicelli, «i protagonisti disabili non
esistono. Essi svaniscono nella loro menomazione e nell’oggetto del film.»
4
:
diventano bersaglio di “piagnucolosa” compassione, o simulacro del male. «In
questo contesto lo spazio destinato all’handicap è assolutamente marginale e la
raffigurazione del corpo e della mente menomati assumono caratteristiche di
un giudizio che da estetico si fa etico»
5
.
Solo a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando il cinema, sulla scia della
contestazione del ’68, presta sempre più attenzione ai grandi temi di denuncia
sociale, i “diversi” iniziano a parlare: parallelamente al lungo cammino per la
conquista dei più elementari diritti civili, fino a quel momento loro negati,
cominciano a trovare una collocazione attiva anche nella rappresentazione
cinematografica. Escono dalla condizione di passività, strappano il diritto alla
parola e all’immagine che vogliono essere loro a controllare: la diversità
dichiara la propria bellezza e pretende che la definizione di sé si discosti dal
ritratto proditorio eseguito dai “normali”.
Parlare di diversità, partendo dai diversi, questo è l’obiettivo che molti autori
si impongono, per costringere a guardare gli “altri” con occhi più attenti e
rispettosi.
A questo punto però il rischio che si corre è un altro, quello dell’integrazione a
tutti i costi: o “negando” la diversità e affermando una falsa uguaglianza che
livella le alterità e porta ad una normalizzazione alienante, oppure
idealizzandola a tal punto da perdere il contatto con la realtà.
Si manifesta, dunque, nel cinema, ma più in generale nel rapporto con
l’handicap, il rischio che l’integrazione sia sostituita da un sentimento di
«integrismo, o integralismo - individuato da Andrea Canevaro, pedagogista
che da anni si occupa di disabilità - come desiderio di portare ad unità
4
G. Iannicelli, Cinema ed handicap: schermi di solidarietà, in G. Iannicelli (a cura di), Cinema ed
handicap: schermi di solidarietà, Cinecircoli Giovanili Socioculturali, Roma, 2002, p. 6
5
P. D’Antonio, Corpi desideranti, corpi perturbanti, ibidem, p. 24
7
armonica ciò che invece si presenta come dissociazione»
6
. Questo
atteggiamento nasconde una nuova volontà sopraffattrice «che vuole imporre
una visione unica, un pensiero unico, un umanesimo ed un’omogeneità senza
scalfitture»
7
, cela la volontà di annullare la diversità, che, in quanto elemento
irregolare, crea disordine.
Da costruire è, al contrario, un’integrazione che si basa sulla curiosità verso
l’altro da sé, nei tratti del quale rintracciare un valore da aggiungere alla
propria esperienza. Dobbiamo capire e coltivare le differenze, senza avere
pretesa di cancellarle, perché è nella pluralità la vera essenza del mondo.
Prestare attenzione a chi si sceglie di rappresentare questo è l’atteggiamento
che un regista deve assumere dinnanzi alla situazione indagata.
Frequentemente però accostandosi a temi e circostanze marginali, chi
racconta, più che concedere la parola ai protagonisti, allestisce la messa in
scena dei luoghi comuni e dei pregiudizi che guidano il suo sguardo innanzi a
tali problematiche, filtra la realtà da rappresentare attraverso gesti rassicuranti,
manie personali, per tentare di occultare, o esorcizzare, le paure nei confronti
di elementi che destabilizzano le sue convinzioni.
Jean Breschand evidenzia invece come nel cinema, soprattutto in quel cinema
che fa del rapporto diretto con la realtà la sua caratteristica principale, l’azione
di chi sta dietro l’apparecchio di registrazione debba acquisire un significato
preciso: «Filmare non significa sorvegliare ciò che accade nell’oculare della
cinepresa. Significa, al contrario, essere presenti a ciò che si riprende, essere
sensibili alla presenza della persona ripresa, essere ricettivi in maniera
istintiva, animale, alla sua respirazione. L’altro non è dietro un vetro, è nello
stesso spazio, durante lo stesso tempo del cineasta»
8
, quest’ultimo deve quindi
«partire direttamente dalla vita delle persone ordinarie senza applicare uno
6
A. Canevaro, Handicap, le storie e la storia, in A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile
storia degli handicappati, Carocci, Roma, 2005, pp. 12-13
7
Ibidem, p. 13
8
J. Breschand, Le documentaire. L’autre face du cinéma, Cahiers du Cinéma, Paris, 2002, trad. it.: Il
documentario. L’altra faccia del cinema, Lindau, Torino, 2005, pp. 76-77
8
schema che permetterebbe di farne una presunta narrazione di adattamento per
il cinema»
9
.
Partire dalla vita delle persone comuni, dalla loro realtà, sfruttare la capacità
intrinseca del cinema di stringere un legame stretto con il mondo, per far
emergere un’immagine più vera dei tempi che viviamo.
Questo atteggiamento, per lo più estraneo alla logica del circuito ufficiale, è
praticato nell’ambito di un cinema che potremmo definire “indipendente”. Un
«cinema dei margini»
10
, come lo chiama Goffredo Fofi che, pur limitato nei
mezzi, grazie anche alle possibilità offerte dal video, l’uso del quale ha
permesso di abbassare sensibilmente i costi di produzione, ha potuto coltivare
la libertà di esprimere gli aspetti più contraddittori della società
contemporanea, sapendo mediare il dato documentaristico con quello narrativo
ed estetico e dando vita a nuovi ibridi, stimolanti e produttivi.
Matti da slegare, A proposito di sentimenti, Amleto…frammenti e Miserere
(Cantus), i film che ho scelto come oggetto della mia ricerca, praticano lo
stesso sguardo sincero e libero da tabù nei confronti della diversità che si
trovano a raccontare, pur percorrendo strade estetiche e narrative molto
diverse: si va da una pellicola di cinema militante anni Settanta, come Matti da
slegare, ad un videoclip artistico, ricco di contaminazioni e suggestioni, qual è
Miserere (Cantus). Per perseguire questa sincerità gli autori hanno sentito
l’esigenza di attivarsi, prima di iniziare le riprese, anche a livello umano nei
confronti di situazioni fino a quel momento loro estranee, di intraprendere un
processo di conoscenza concreta che permettesse di tratteggiare un ritratto più
genuino ed onesto dei protagonisti da rappresentare.
Dedicando un capitolo a ciascun titolo, ho cercato volta in volta di far
emergere l’approccio con cui i registi si sono relazionati alla disabilità.
9
Ibidem, p. 80
10
G. Fofi, Per un cinema impietoso, in AA.VV., Lo sguardo degli altri. Cinema e handicap, catalogo
dell’omonima rassegna cinematografica, LEDHA, Milano, 1987, p. 14
9
Sono partita dall’analisi di Matti da slegare e A proposito di sentimenti i due
lavori che, accomunati da una struttura più documentaristica, mantengono
un’aderenza maggiore alle esperienze individuali delle persone che si
concedono all’obiettivo, presentando, tuttavia, evidenti differenze legate anche
alla loro collocazione storica.
Matti da slegare, film documento sulla riforma psichiatrica nella Provincia di
Parma, girato nel 1975, accanto a scelte innovative, come quella di far parlare
i “pazzi” e relegare gli interventi delle istituzioni ad un ruolo del tutto
marginale, mantiene alcune delle ingenuità del cinema politico di quel
periodo. Il piano estetico è sottomesso a quello narrativo: la forma viene
sacrificata in virtù della piena chiarezza espositiva, per raggiungere la quale si
ricorre ad elementi tipici del reportage televisivo, quali la voce iniziale dello
speaker che anticipa l’argomento affrontato, la suddivisione della materia
filmata in capitoletti introdotti da un titolo, le didascalie che presentano i
personaggi chiamati a parlare, la voce off degli autori che continuamente
intervengono nel dialogo con i protagonisti. Tale impostazione conferisce alle
immagini un andamento preciso e lineare, per certi versi didascalico.
A proposito di sentimenti, girato alla fine degli anni Novanta, racconta invece
la sfera sentimentale di un gruppo di ragazzi Down. Come il precedente, parte
dalla testimonianza diretta dei giovani, ma accanto all’attenzione per il dato
reale, è praticata una ricerca linguistica avanzata: contenuto e forma
acquistano la stessa importanza al fine di una comunicazione intensa con gli
spettatori. L’autore, Daniele Segre, non si limita a registrare la realtà nel suo
divenire, ma mediante l’artificio del cinema (attraverso una messa in scena
ben organizzata, l’uso attento delle luci, l’eliminazione degli interventi diretti
degli intervistatori) cerca di svincolare la narrazione dalla situazione
contingente, per conferirle un respiro più ampio e condiviso.
In virtù delle loro caratteristiche intrinseche le due opere hanno richiesto un
approccio analitico diverso. Per quanto riguarda Matti da slegare mi sono
attenuta molto al film: prima ho tratteggiato brevemente la situazione della
10
psichiatria in Italia nel secondo dopo guerra, poi, seguendo la pellicola passo
passo, mi sono soffermata sulle vicende dei personaggi, cercando di
individuare alcuni espedienti utilizzati dagli autori (si tratta di un progetto
collettivo) per vivificare la forza della loro comunicazione.
Per quanto riguarda A proposito di sentimenti ho messo l’opera in relazione
con l’intera filmografia di Daniele Segre, con il suo particolare metodo di
rapportarsi alle realtà più umili e marginali, alla concretezza delle storie di
tutti i giorni, per trasmettere i disagi della società contemporanea.
Amleto…frammenti di Bruno Bigoni e Miserere (Cantus) di Antonello
Matarazzo, diversamente, valicano l’esperienza documentaria verso linguaggi
più astratti e simbolici. Nel video di Bigoni la complessità della natura umana,
è espressa attraverso il confronto di un gruppo di ragazzi disabili con alcuni
brani dell’Amleto shakespeariano, mentre nell’opera di Matarazzo i
protagonisti invalidi, costretti sulla sedia a rotelle, diventano metafora
dell’impotenza del genere umano condannato ad una ciclicità senza senso, né
uscita.
In Amleto...frammenti si parte dal testo per esprimere, attraverso le parole del
principe di Danimarca, dell’amata Ofelia e dell’odiata madre, dinamiche
interne ai giovani, sentimenti, ansie e paure, che condividono con i personaggi
della tragedia. La rappresentazione è vissuta nella sua funzione “terapeutica”,
come possibilità per esprimere parti di sé nascoste, altrimenti difficili da
comunicare.
In Miserere infine la realtà soggettiva viene definitivamente abbandonata,
metaforizzata, per approdare ad un discorso profondo circa il significo ultimo
della vita, nel tentativo di cercare una risposta ai suoi dolorosi quesiti.
L’angoscia esistenziale dell’uomo viene trasmessa attraverso un tessuto visivo
affascinante, ricco di rimandi e citazioni, di echi della grande tradizione
artistica occidentale mescolati al folklore delle usanze popolari: la pittura di
Magritte e Bacon accanto ai riti penitenziali del cattolicesimo meridionale.
11
Un ultimo appunto, prima di passare all’analisi dei quattro film, desidero farlo
circa il materiale bibliografico.
Gli scritti su Matti da slegare sono numerosi, ma parte della critica, soprattutto
quella più vicina all’uscita del film, risente, proprio come la pellicola, del
clima “politico” degli anni Settanta: vi si presta pochissima attenzione
all’estetica della rappresentazione, soffermandosi quasi esclusivamente sul
messaggio. Gli interventi più tardi e ponderati invece commettono spesso un
altro errore: non tengono conto della collettività che ha portato alla
realizzazione del film, girato a più mani da Agosti, Bellocchio, Petraglia e
Rulli, e attribuiscono il merito registico quasi esclusivamente ai primi due,
tralasciando l’importante contributo dei futuri sceneggiatori Rulli e Petraglia.
Su A proposito di sentimenti non ci sono materiali rilevanti, più che altro brevi
presentazioni on-line relative alle proiezioni in giro per l’Italia, organizzate
soprattutto nell’ambito del settore sociale. Tuttavia la letteratura sull’autore
Daniele Segre è corposa e la visione di altre sue opere mi ha permesso di
inserire il video sui ragazzi Down nell’ambito delle esigenze che stanno alla
base di tutto il cinema del regista piemontese, trovando punti di contatto con
molti altri lavori. Per avere informazioni specifiche sul titolo in questione ho
inoltre preso contatto con Anna Contardi, coordinatrice nazionale dei progetti
dell’Associazione Italiana Persone Down, la quale ha seguito Segre durante le
riprese, facendo da intermediaria tra le sue esigenze e quelle degli interpreti.
Il video Amleto…frammenti sembra essere passato del tutto inosservato alla
critica, se si escludono pochi articoli usciti in concomitanza con la
presentazione del film al festival di Venezia, e le schede contenute nei
cataloghi delle rassegne che ha girato, non ci sono interventi che lo
riguardano. Poche sono anche le notizie sull’autore, perciò ho ritenuto utile
incontrare direttamente il regista Bruno Bigoni che, mostrandomi grande
disponibilità, si è rivelato prezioso nel raccontarmi le dinamiche che hanno
concorso all’ideazione del film. Ho giudicato interessante intervistare anche
uno dei membri dello “staff tecnico” che ha “guidato” l’autore nel suo
12
rapporto con i disabili: il colloquio con la sociologa Lara Gastaldi, oltre a
farmi conoscere l’esperienza da un punto di vista diverso, mi ha fornito notizie
più precise circa il gruppo che ha preso parte al progetto.
Su Miserere (Cantus) e il suo autore Antonello Matarazzo, pittore e
videomaker, il materiale è ricco, recensioni, cataloghi di mostre, articoli e
numerose interviste, tutto diligentemente raccolto sul sito personale
11
. Manca,
tuttavia, uno studio organico sul percorso artistico, sia pittorico, che
audiovisivo, dell’artista avellinese e, dal momento che alcuni punti del suo
programma, della concezione che ha dell’arte, mi rimanevano oscuri, ho
deciso, pure in questo caso, di rivolgermi all’autore.
Per l’analisi di Matti da slegare mi sono inoltre servita della sceneggiatura
desunta, pubblicata dagli stessi registi. Dal momento che si è rilevata uno
strumento di lavoro utile, ho deciso di ricavare da ciascuno dei restanti film
(dei quali non esisteva un testo già stampato), una descrizione analitica per
grandi quadri, che ha agevolato molto il mio percorso critico.
11
www.antonellomatarazzo.it
13
Capitolo primo
Matti da slegare
di S. Agosti, M. Bellocchio, S. Petraglia, S. Rulli
Nessuno o tutti - o tutti o niente.
Non si può salvarsi da sé.
O i fucili - o le catene.
Nessuno o tutti o tutto o niente.
(Bertolt Brecht)
I.1. Introduzione
Per comprendere appieno Matti da slegare è necessario calarlo nel conteso
storico nel quale fu realizzato.
È il 1973 quando l’assessore alla sanità della Provincia di Parma commissiona,
all’emergente Marco Bellocchio, un film sulla nuova politica psichiatrica del
capoluogo emiliano.
I primi anni Settanta sono per l’Italia (e non solo) un periodo di ampia
mobilitazione sociale e politica: la protesta studentesca del 1968, contro la
mediocrità dell’insegnamento e l’autoritarismo imperante nella scuola,
rapidamente valica le università. Congiungendosi alle manifestazioni della
classe operaia contro le precarie condizioni di lavoro nelle fabbriche, che
raggiungono il momento di più alta conflittualità nell’”autunno caldo” del
1969, la lotta entra in una fase più articolata. Le richieste di cambiamento
14
vanno ad investire molteplici ambiti della vita pubblica: si reclamano riforme
in campo scolastico e sanitario, si mette in discussione la tradizionale
concezione della famiglia, l’autorità dell’antiquata classe dirigente. Il
movimento studentesco e quello dei lavoratori, seppur tra contraddizioni e
polemiche, sono uniti nel pretendere radicali trasformazioni che spazzino via
gli aspetti più obsoleti della società e, sebbene ben presto la loro capacità di
incidere sulla realtà contemporanea diminuisca, arginata dalle bombe stragiste
e dalla vacuità rivoluzionaria delle Brigate Rosse, è innegabile il contributo di
operai e studenti nel concretizzarsi di alcune di quelle istanze che hanno reso
la giovane repubblica italiana più giusta e meno conformista
12
.
Il cinema (e con ritardo il video), diviene uno strumento essenziale di
mobilitazione politica e sociale: definitivamente riconosciuta la malia delle
immagini in movimento, si utilizza il mezzo cinematografico per sconvolgere
le coscienze e reclutarle ad una causa comune. Grazie anche alla diffusione di
apparecchiature più leggere e maneggevoli, cresce in modo esponenziale la
documentazione dei frenetici avvenimenti di quell’epoca: registi e intellettuali
scendono nelle piazze, affiancano i cortei che invadono le strade delle
principali città, entrano nelle fabbriche occupate, intervistano gli operai in
sciopero. Il cinema affianca stampa e radio nella costruzione di una rete di
controinformazione alternativa a quella ufficiale, attraverso la quale dare
visibilità ai cambiamenti in atto. Insieme a volantinaggi e a comizi, si
organizzano sempre più spesso proiezioni clandestine di film che smascherano
i maggiori deficit della democrazia italiana
13
.
12
Le molteplici spinte ad una modernizzazione complessiva del paese portarono anche a rilevanti
risultati sul terreno legislativo: dalla riforma delle pensioni del 1969, alla legge sul divorzio dell’anno
successivo, sancita nel 1974 dal referendum popolare. Fu introdotto inoltre un nuovo diritto di
famiglia (1975) che affermava la parità tra i coniugi, abrogava la separazione per colpa, introduceva la
comunione dei beni e superava la distinzione tra figli legittimi e figli naturali. Nel 1978, infine, veniva
disciplinata l’interruzione volontaria della gravidanza e cancellata, così, la piaga dell’aborto
clandestino. Per un approfondimento sulla situazione italiana nel secondo dopoguerra rimando a G.
Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma, 2003
13
R. Nepoti, Storia del documentario, Patron, Bologna, 1988 e Il documentarismo militante, in G.
Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. 1965/1969 vol. XI, Edizioni di Bianco e Nero, Roma -
Marsilio, Venezia, 2004. Per l’utilizzo del video come strumento di controinformazione e
15
Matti da slegare, nello specifico, denuncia uno degli aspetti più criminosi
della società di quegli anni: la gestione della salute mentale e della disabilità
fisica.
La psichiatria italiana nel secondo dopoguerra, contrariamente a quella di altri
paesi europei come la Francia e l’Inghilterra, langue in una vergognosa
stagnazione. Simbolo di questa delittuosa arretratezza è il manicomio nel
quale trovano ricovero non solo le persone affette da turbe psichiche, i “matti”
per antonomasia, ma anche i portatori di handicap fisici e mentali, gli
alcolizzati, o semplicemente i ragazzi “difficili” rifiutati dalle famiglie che non
sanno come gestirli.
Recita un proverbio eschimese «Tutto ciò che è insolito ci fa paura: per questo
abbiamo le nostre usanze»: l’ospedale psichiatrico è la primitiva risposta alla
paura del diverso, il malato, incomprensibile nella sua irrazionalità, è
considerato un individuo pericoloso, al pari di un assassino deve essere
imprigionato e isolato dalla parte sana della società. «Pericoloso a sé e agli
altri e di pubblico scandalo» è la motivazione con la quale in Italia si varca la
soglia dell’istituto, la cui funzione, insita in questa stessa dichiarazione, non è
quella di curare la patologia, ma di tutelare il sano di fronte alla diversità. Il
ricoverato, prima che un malato, è un individuo da controllare e contenere,
l’approccio che medici e infermieri usano nei suoi confronti non è curativo,
mirato alla risoluzione delle turbe che lo affliggono, ma repressivo. Le sbarre,
le camicie di forza, le scariche elettriche, l’autoritarismo più o meno violento
con cui è gestita la realtà manicomiale, sono i mezzi tecnici necessari per
sorvegliare il diverso e renderlo innocuo
14
.
Solo nel 1961, con la nomina di Franco Basaglia a direttore dell’ospedale
psichiatrico di Gorizia, le cose cominciano a mutare: il medico veneziano,
documentazione militante rinvio a S. Fadda, Definizione Zero. Origini della videoarte fra politica e
comunicazione, Costa & Nolan, Genova, 1999
14
Le cause che hanno portato nella società occidentale alla pratica dell’internamento psichiatrico sono
ripercorse in M. Foucault, Histoire de la folie à l’àge classique, Gallimard, Paris, 1961, trad. it.:
Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1996
16
presa piena coscienza della crudeltà della prassi istituzionale, spenderà tutto il
suo agire professionale nel tentativo di capovolgere radicalmente la situazione
psichiatrica italiana. Davanti alla condizione di vita dei “reclusi” la collisione
tra Basaglia e i metodi della psichiatria tradizionale, contro la quale aveva già
espresso i primi segni di insofferenza durante il periodo universitario, esplode:
il giovane dottore condanna l’aspetto diagnostico della pratica asilare che
porta il medico ad interessarsi della malattia e dei sintomi che la rivelano,
senza tenere in considerazione il malato e la sua individualità. Basaglia è al
contrario convinto della necessità di ricollocare la persona al centro dell’intero
sistema ospedaliero, ascoltarla cercando di comprendere la natura profonda del
suo disagio
15
.
Primo passo da compiere è la trasformazione del manicomio. La struttura-
lager diviene, su modello della Therapeutic Community di Maxwell Jones
16
,
una realtà più partecipata, dove il malato è chiamato ad un ruolo attivo: abolita
ogni forma di violenza, si cerca di riattivare la socialità dei pazienti, attraverso
l’apertura dei reparti, la creazione di spazi e attività di aggregazione,
l’organizzazione di assemblee.
Tuttavia, mentre la nuova politica istituzionale fa di Gorizia il punto di
riferimento per le esperienze di trasformazione ospedaliera che, di lì a poco, si
diffondono in tutta Italia
17
, Basaglia auspica il rapido superamento anche di
questo momento riabilitativo. A suo avviso la Comunità Terapeutica non può
che essere l’inizio di un processo più ampio che, rovesciando la
contraddizione psichiatrica al di fuori delle mura del manicomio, vada ad
15
F. Basaglia (a cura di), Che cos’è la psichiatria?, Einaudi, Torino, 1973 e M. Colucci e P. Di
Vittorio, Franco Basaglia, Mondadori, Milano, 2001
16
Sviluppatasi in Inghilterra agli inizi degli anni Quaranta, la Comunità Terapeutica, pur non potendo
essere ricondotta ad un modello unico, presenta principi di base imprescindibili, quali la
conservazione dell’individualità del paziente, che mirano ad una maggiore partecipazione democratica
della vita istituzionale sia da parte dei degenti, che del personale medico.
17
Alcuni dei principali tentativi di riforma della prassi psichiatrica italiana, compreso quello di
Gorizia, sono documentati in G. Bartolomei e G. P. Lombardo (a cura di), Nuova psichiatria. Storia e
metodo, Carecas, Roma, 1977. Altri contributi sono raccolti in E. Venturini (a cura di), Il giardino dei
gelsi, Einaudi, Torino, 1979
17
investire la società intera del problema, ponendola dinnanzi alla necessità di
un reinserimento sociale dei ricoverati
18
.
Per essere davvero efficiente l’impegno contro l’istituto tutelare deve aprirsi
all’esterno, instaurare con il territorio un dialogo e una collaborazione proficua
che preparino il terreno alla dimissione dei “matti” e al loro conseguente
reinserimento nella collettività. Approfittando del generale fermento politico, i
medici e gli infermieri che, già da diversi anni, stavano tentando all’interno
delle loro strutture lavorative esperimenti di rinnovamento, fondano nel 1973
Psichiatria Democratica con lo scopo di inserire le problematiche della salute
mentale nella prospettiva più ampia della lotta di classe.
L’intensa attività di divulgazione svolta dal movimento in tutto il paese palesa,
agli occhi dell’opinione pubblica, l’orrore dei manicomi, dai cittadini arrivano
appelli numerosi per porre fine a tanta aberrazione. La pressione di queste
richieste porta il parlamento ad approvare, nel 1978, quasi all’unanimità, la
legge n. 180 di riforma psichiatrica, conosciuta anche come legge Basaglia.
Nonostante rinvii e ritardi nell’applicazione, la nuova normativa riuscirà ad
abbattere definitivamente le mura del manicomio, favorendo il recupero e il
reinserimento dei disturbati psichici.
Dopo questa ampia parentesi, che è servita a chiarire la contingenza storico-
politica che ha determinato la realizzazione di un film come Matti da slegare,
segue un’attenta analisi della pellicola, dalla quale emerge la sua completa
aderenza alle tesi basagliane.
18
«La Comunità Terapeutica ha avuto e ha tuttora il compito di demistificare l’ideologia del
manicomio tradizionale, sotto la quale si maschera la realtà custodialistica-carceraria-difensiva
dell’istituzione psichiatrica, evidenziando il suo significato politico implicito della sua funzionalità al
sistema. Ma dopo questa azione di denuncia e di demistificazione essa potrebbe rischiare di riproporsi
come la giustificazione, a un livello diverso, dello stesso meccanismo imposto dalla medesima
struttura sociale: rischia cioè di agire come copertura ideologica del controllo delle devianze, la cui
natura resta sempre fissata da una scienza che si rivela strettamente legata ai valori della classe
dominante e che continuerebbe a fare, anche della Comunità Terapeutica, l’uso politico ad essa più
confacente.» F. Basaglia, La comunità Terapeutica e le istituzioni psichiatriche, relazione per il
Convegno La società e le malattie mentali tenutosi a Roma nel 1968; già negli atti del Convegno, è
raccolto in F. Ongaro (a cura di), Franco Basaglia. Scritti 1968-1980: dall’apertura del manicomio
alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica vol. II, Einaudi, Torino, 1982, p. 6