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culturale esercitata sulla scienza politica ed economica europea
da quella statunitense che, data la modesta rilevanza politica
delle organizzazioni imprenditoriali nel contesto nordamericano,
non si è mai attentamente occupata del fenomeno. Il lavoro qui
svolto cerca di dare un contributo per capire attraverso quali
equilibri politici e quali rapporti con le forze sociali si sono
formati di volta in volta nella Confindustria, negli anni della
ricostruzione, le decisioni di politica economica. Si avverte
insomma il bisogno sia di precisare in quale modo si formò quella
che potrebbe chiamarsi l’ideologia economica della
Confindustria, sia di individuare attraverso quali strumenti essa
diventò operante proposta di politica economica. Quindi si è in
primo luogo reso necessario concentrarsi sul cospicuo materiale
esistente e non ancora esplorato della Archivio Confindustria
(che in parte ho riportato in un capitolo ad esso dedicato) con
particolare attenzione agli scritti e le interviste di Angelo Costa,
presidente dal 1945 al 1955, tenendo conto della sede e delle
occasioni in cui si espresse, ma anche su gli Atti della
Commissione economica del Ministero per la Costituente e gli
articoli di alcuni quotidiani come “ Il Globo ”, “ Il Sole ”, “ 24
Ore ” anche se questi ultimi devono essere interpretati non
proprio come fonte autentica per la loro scarsa reperibilità ed in
virtù anche della non chiarita percezione del filtro che,
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nonostante il legame, mediava la loro linea con quella della
Confindustria.
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Introduzione
E’ nel periodo della Ricostruzione che sono state gettate le
fondamenta dell’evoluzione economica dell’intero dopoguerra e
che sono state prese alcune delle scelte politiche ed economiche di
maggiore importanza.
Sul piano politico, per il proseguo della lettura vanno
ricordati, la scissione socialista e la esclusione delle sinistre dal
governo del 1947; l’entrata in vigore della Costituzione
l’11/1/1948; il successo elettorale democristiano del 18 aprile
1948; la rottura dell’unità sindacale del 1948-’49; l’adesione
italiana al Fondo Monetario Internazionale, al GATT, al piano
Marshall, all OECE (1948) ed alla NATO (1949).
Tutto ciò ha comportato da una parte il rafforzamento
dell’egemonia democristiana e l’indebolimento delle sinistre nel
sistema politico e sociale nazionale, dall’altra il sempre più
stretto inserimento nell’area occidentale, e quindi nella sfera
d’influenza americana, nell’ambito dei rapporti internazionali.
Questi eventi hanno avuto importanti conseguenze sul piano
economico e su quello dello stesso sviluppo del pensiero
economico in Italia.
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L’inserimento nell’area occidentale si è accompagnato ad una
scelta liberista nei rapporti economici internazionali, scelta che il
governo americano, il Fondo Monetario ed il GATT sostenevano
con vigore, ma che veniva anche favorita in Italia da importanti
esponenti politici e da diversi autorevoli economisti.
Ricordiamo tra questi ultimi Einaudi, Papi, Corbino e De
Maria; fra i primi De Gasperi e lo stesso Einaudi. In parte come
reazione alla politica economica corporativa ed autarchica seguita
per buona parte dal regime fascista, accompagnata da un
intervento statale nell’economia insistito e soffocante, molti
economisti sostenevano con vigore il ritorno ad una politica
liberista sia sul piano interno che su quello internazionale.
Assai più debole era l’influenza degli economisti d’ispirazione
keynesiana sebbene la disoccupazione e la sottoccupazione
fossero assai elevate. Questo non perché le opere di Keynes non
fossero conosciute e vivacemente discusse, ma perché esse
contrastavano sia con il pensiero economico neoclassico, allora
largamente dominante, sia con il quadro politico e sociale entro il
quale gli economisti italiani si trovavano ad operare. Fu così che
sebbene la Teoria generale di Keynes fosse stata tradotta in Italia
già nel 1946 ed alcuni economisti, come Sylos Labini, fossero
assai attivi nella diffusione delle idee keynesiane, gli economisti
più autorevoli, come Einaudi, erano contrari alla loro applicazione
in Italia. In effetti nella sua opera di governo, Einaudi mostrò di
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essere assai più preoccupato dell’inflazione che della
disoccupazione, come la sua severa stretta creditizia del 1947
mise ben in evidenza. Ma pressoché tutta l’opera del governo
italiano fu nel periodo 1947-’48 impostata in complesso su linee
anti-keynesiane. Le idee keynesiane erano invece penetrate con
sufficiente profondità negli ambienti della sinistra italiana. Non è
un caso, infatti, se il Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel
1949-’50, pur mantenendo alcuni connotati marxiani, conteneva al
suo interno anche la proposta di una tregua salariale in cambio di
un aumento dell’occupazione ottenibile attraverso una massiccia
campagna di lavori pubblici.
Un ruolo fondamentale nella Ricostruzione fu dunque quello
svolto dagli USA e dalla loro propensione a favore della
liberalizzazione delle relazioni economiche internazionali. Gli
accordi di Bretton Woods, che sanzionarono la nascita del FMI,
fondarono un sistema internazionale basato sul dollaro come
moneta chiave e su di un sistema di cambi fissi.
Il cambio fisso oro/dollaro e la convertibilità del dollaro in
oro garantivano i possessori di dollari. Il piano Marshall fu
un’importante componente di questa strategia.
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I paesi alleati, impegnati nella ricostruzione dei loro apparati
produttivi, non avevano la possibilità di comprare macchinari e gli
impianti americani come anche alcuni beni di consumo essenziali
per la sopravvivenza della popolazione perché disponevano di
assai poca valuta estera. Il piano Marshall diede loro la possibilità
di pagare le importazioni e di accelerare la ripresa economica, e
diede nel contempo la possibilità all’industria USA di mezzi di
produzione di evitare le crisi rovinose che quasi sempre si
accompagnano al processo di riconversione produttiva. Fu quindi
per gli Stati Uniti un atto sì di indubbia, generosità ma anche di
tornaconto economico e politico. Esso contribuì notevolmente ad
accelerare il processo di ricostruzione dell’Europa, ma anche
accrebbe la già notevolissima influenza americana sull’Europa
occidentale.
In Italia, in particolare, dal 1943 all’inizio dell’ERP, erano
giunti aiuti internazionali (soprattutto americani) per un
ammontare totale di 1893 milioni di dollari (1516 milioni di aiuti
gratuiti, 377 di crediti agevolati). Erano stati inoltre condonati al
nostro paese 339 milioni di dollari di riparazioni di guerra.
Circa il 20% degli aiuti ERP furono utilizzati in Italia per
l’acquisto di macchine e attrezzature industriali. Tali acquisti,
avvenuti soprattutto nel 1950-’51 riguardavano in prevalenza
dapprima le industrie siderurgica ed elettrica, poi l’industria
meccanica. La parte restante degli aiuti fu destinata in larga
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misura a importazioni di cereali, di materie prime, a finanziare il
tesoro ed a ricostruire le riserve della Banca centrale.
L’Italia non era allora un paese economicamente avanzato , ma
un paese a livello intermedio di sviluppo, con oltre il 44% della
forza lavoro occupata nell’agricoltura ad un reddito pro-capite
ancora pari nel 1950 soltanto ad 1/4 di quello degli USA secondo
le stime di Gilbert basate sul potere d’acquisto reale delle valute.
Il nostro paese si trovava quindi a costituire l’anello più debole
dei paesi industriale più ricchi, e non più, come aveva tentato di
essere fino al 1913, e con minore fortuna nel periodo fra le due
guerre mondiali, un paese cerniera fra i paesi a maggior livello
industriale e tecnologico dell’aria nord-occidentale ed i paesi a
livello intermedio e basso dell’Europa centro-orientale e del Sud.
Se ciò costituiva un potente stimolo al processo di
modernizzazione del sistema produttivo italiano, costretto a
competere, con un grado di protezionismo via via decrescente, con
sistemi produttivi più ricchi ed agguerriti, esso ne limitava anche
la libertà d’azione soprattutto nel campo delle scelte tecnologiche
e nella specializzazione produttiva.
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La Ricostruzione cominciava dunque con la consapevolezza
della catastrofe economica dell’Italia con la quale le forze
politiche erano chiamate a confrontarsi. Ma la constatazione della
drammatica situazione in termini quantitativi non era tutto.
Bisognava stabilire con quali mezzi di intervento, e soprattutto
con quali idee si doveva fronteggiarla.
Dal rapporto del ministero del Lavoro, dell’Industria e del
Commercio i partiti si fecero consapevoli che la calamità da
combattere più urgentemente erano la fame e la disoccupazione.
Di fronte alla situazione dei prezzi, in continua ascesa, la cosa
più urgente da fare era mantenere costanti i salari. E poiché questi
dipendevano dai prezzi dei generi alimentari che erano scarsi,
tutta la politica economica doveva, in un certo modo, mutare il
suo obiettivo: facilitare l’incremento dell’offerta di quei prodotti.
Ciò conduceva direttamente alle condizioni dell’offerta e, detto in
modo meno tecnico, agli umori stessi degli imprenditori che, come
è noto, non vedevano di buon occhio allora, come prima e come
dopo, la riforma dell’impresa in senso partecipazionistico.
A determinare l’atteggiamento degli imprenditori concorsero
fattori diversi, ma comunque convergenti. Oltre alla miopia
derivante dai loro immediati interessi, essi parvero sottovalutare
quanto il partecipazionismo poteva offrire in termini di
incremento di produttività, indotta da un maggiore spontaneo
impegno del lavoratore solidale nello sforzo produttivistico. Ma la
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loro avversione fu dettata anche da un dato di fatto indipendente
dalla loro volontà e cioè dalla effettiva impreparazione delle
maestranze a giocare nell’impresa un ruolo che non avevano mai
interpretato. Bisogna riconoscere tuttavia che l’argomento che
l’imprenditoria italiana usò con una maggiore frequenza per
esprimere la propria ostilità al partecipazionismo fu quello
dell’unità del comando dell’impresa. Essa non doveva essere
insidiata e nessun imprenditore, si diceva, avrebbe sostenuto lo
sforzo ricostruttivo, che pure il paese gli chiedeva, se quello
stesso comando fosse stato sbriciolato o distribuito, anche solo in
parte, ai lavoratori.
Il governo in particolare la Democrazia Cristiana ebbe
all’inizio un atteggiamento di resistenza verso i consigli di
gestione, per lo meno nella versione alla quale si riferivano le
sinistre. Ma successivamente assunse una posizione intermedia.
“La Direzione centrale propone che, con accordi fra le parti, si
promuova l’ammissione dei lavoratori alla comproprietà
dell’impresa: propone la costituzione di consigli di gestione che
più propriamente dovrebbero essere denominati consigli di
efficienza”
1
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Direzione centrale della DC, Mozione “per la lotta contro il mercato nero”, 17/10/1945.
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La parola “efficienza” al posto della parola “gestione” e
soprattutto quell’inciso “con accordi fra le parti” dovrebbero
chiarire l’atteggiamento di questo partito. Nell’immediato né i
consigli di gestione né quelli di efficienza furono attuati. Ma
quella posizione intermedia, che in fondo lasciava aperta la porta
ad una loro possibile realizzazione, fu una posizione che lasciò
sopravvivere i germi di un partecipazionismo che fu accolto
successivamente dalla Costituzione, che impresse il suo segno
sulla iniziale riforma degli istituti di previdenza, su leggi come
quella del “Piano Case” e, più vicino a noi, persino sull’intesa fra
governo, imprenditori e sindacati del gennaio ’83.