5
Soprattutto in Francia, ultima residenza kusturicana, non sono
mancate le condanne da parte di certi intellettuali che si sono
pronunciati con tutta una serie di colorati epiteti (“propaganda
filoserba”, “liquidazione del comunismo terrorista serbo”,
“sete di vendetta”
6
) e parossistiche osservazioni (a proposito di
investimenti serbi in Underground colpevoli di aver violato
l’embargo economico) fino ad inscenare una grottesca diatriba
che si è protratta per diverse settimane sulle pagine di “Le
Monde” nei confronti di un film che non era neanche stato
visto
7
.
Al punto che, nel contesto internazionale, l’immagine e
l’opera del regista slavo, sono spesso risultate ambigue e
contraddittorie. Ma, prendendo a prestito il celebre assioma
godardiano, ovvero sia, se è vero che “il cinema è cinema”,
vengono spontaneamente a perdere di peso tutte le
argomentazioni e le accuse continuamente sollevate nei
confronti dell’iperbolico e debordante cinema di Kusturica, al
pari delle ancora più inverosimili accuse da taluni sollevate
circa una sua opinabile presa di posizione sul recente conflitto
balcanico.
Deduzioni, ipotesi poco coerenti, ma soprattutto insistenze
poco congrue nei confronti di un “autore”, personalità, per
legittimo statuto destinato all’esser soggettivo e arbitrario; il
6
Nel 1993 Kusturica sfida a duello Vojislav Seselj, il leader dell'ultra nazionalista
Partito Radicale all'interno del governo di Milošević. Gli dice di presentarsi nel primo
pomeriggio nel cuore di Belgrado, con un'arma di sua scelta. Seselj rifiuta, dicendo che
non vuole essere accusato dell'omicidio di un artista. Due anni dopo, nel 1995, stende a
pugni Nebojsa Pajkic, leader dell'altrettanto agghiacciante New Serbian Right
movement. La moglie di Pajkic picchia Kusturica con la borsetta, un regalo del suo
"amico" Radovan Karadzič, leader dei serbi di Bosnia, ora ricercato per crimini di
guerra. Ma gli scontri non si limitano ai politici, molti diverbi si sono anche verificati
con amici, collaboratori artistici e intellettuali.
7
Per un dettagliato resoconto delle polemiche sollevate da Underground si rimanda alla
premessa pubblicata nella monografia del Castoro Cinema e alla lettera La mia
impostura. L’ironica autodifesa del regista di fronte all’accusa di essere filo-serbo,
scritta dallo stesso Kusturica, pubblicata su “Le Monde” del 26 ottobre 1996, ora in
appendice a Bertellini Giorgio (a cura di), Emir Kusturica, Script/Leuto, Dino Audino,
Roma, 1995.
6
cinema, ogni cinema, deve inequivocabilmente schierarsi,
estrapolare sensi, proporre poetiche.
Ecco così che, all’interno di un profilmico sovrafrequentato di
animali, persone e oggetti, improvvisamente due giovani corpi
iniziano letteralmente a levarsi in volo. Attorno alcuni tacchini
e delle oche corrono nel fango, un’improbabile orchestra di
campagna anima un banchetto di nozze, dei grossi maiali
mangiano delle automobili, mentre dei personaggi più o meno
strampalati si dedicano ad ipnotizzare conigli o a suicidarsi
senza riuscire mai nell’impresa. Tocchi comici e surreali
vengono continuamente contrapposti a un rigoroso impianto
epico che costituisce la vera struttura dominante di ogni film.
Cielo, terra, acqua.
Se il cinema di Kusturica risulta disarmonico, accumulativo,
incongruente ed eccessivo persino nei tempi di lavorazione, è
la prova evidente di un “eversivo” progetto autoriale, di una
certa volontà di scardinare gli stereotipi di genere e di certi
standard produttivi. Dal magma primigenio di variegate e
quanto mai discordanti simbologie - la slava, la zingara e
l’americana stessa -, cariche di storia, cultura e suggestioni
diverse, il regista attinge e rielabora la propria stralunata
polisemia.
In quest’analisi prenderemo allora a prestito il pensiero di
Deleuze, sintetizzato nella famosa epigrafe “non c’è logos, non
ci sono che geroglifici”
8
, per analizzare anche la produzione
del regista, che identicamente sembra aver “rimpiazzato Dio
con l’umanesimo”; l’ideale estetico con l’ideale morale e della
conoscenza”
9
.
Proveremo a ripercorrerne l’inesauribile geroglifico che ha
come suo punto di forza il continuo rilancio iconografico e
narrativo, nei rimandi autoreferenziali ed inesauribili in quanto
8
Deleuze Gilles, Guattari Félix, Rizoma. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Ed.
Castelvecchi, Roma, 1997.
9
Ibidem.
7
a letture possibili. Ne ammireremo il singolare modo di fare
cinema, un cinema viscerale che ostenta personaggi,
sentimenti, musiche e scenografie assolutamente eccessivi e
strabordanti.
Ne leggeremo l’originale articolazione figurativa costruita
attraverso il rimando a fonti iconografiche “alte”: ritroveremo
gli accenni pagani e lirici di Bruegel espressi attraverso una
sentito simbolismo rurale, una picaresca e stralunata
mostruosità di personaggi così vicina a Bosch o, ma anche il
tocco mitico e leggero tipico delle trasfigurazioni e delle
“spose volanti” di Chagall.
Ritroveremo i tratti di questo cinema nello spirito e nelle
forme della grande letteratura sudamericana del “realismo-
magico”, della narrativa accumulativa delle grandi saghe
generazionali, Marquéz soprattutto.
Scopriremo poi come tutto quest’universo iconografico
mutuato da contesti artistici e figurativi plurimi, è soprattutto
rielaborato secondo una personale cifra poetica, debitrice a sua
volta di riconoscibili suggestioni e fonti filmiche. Tarkovskij,
Fellini, Vigo, Forman o persino Hitchcock, Scorsese e Flaherty
- registi tutti esplicitamente citati all’interno di costrutti e tropi
figurativi ben identificabili, referenti diretti, quindi
riconoscibili di una certa “concezione” del fare cinema
10
.
Oltre alle prevedibili avversioni ed antagonismi di certa critica
rispetto a tale esuberante cinematografia, da taluni additata
come ridondante e “fluttuante”, quindi poco “contegnosa” e
leggibile, ancor più ridicole si sono rivelate certe
“puntualizzazioni politiche”.
Per esempio l’accusa toccata al nostro di essere “filoserbo e
10
Ma poliedriche ed innumerevoli sono le influenze figurative e narrative, in ordine
sparso: Charlie Chaplin, Max Sennet, Fëdor Dostoevskij, Orson Welles, Luigi
Pirandello, i fumetti di Alan Ford o Magnus, Jíri Menzel, Nikolaj Vasil’evič Gogol,
Luchino Visconti, Bohumil Hrabal, Zivijin Pavlovi¢, lo scrittore russo Isaac Babel, Van
Gogh, Aleksandar Dovčenko.
8
anti-Nato”, è toccata anche al tedesco Peter Handke, autore di
Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e
Drina. Ovvero giustizia per la Serbia, che gli valse
contrastanti critiche e l’appellativo di “terrorista” per aver
messo in luce il modo in cui “i media occidentali presentavano
le vittime dell’una o dell’altra parte”
11
durante il conflitto
balcanico.
Handke, già autore di diversi soggetti e sceneggiature
cinematografiche (Wim Wenders
12
soprattutto), nonché regista
egli stesso de La donna mancina
13
, prende le difese di
Kusturica e con metodo sottile smonta una alla volta le
grottesche critiche sollevate da certo ambiente filosofico
francese (Alain Finkielkraut, André Glucksmann) per
esprimersi entusiasta nei confronti del nostro “talento onirico”
e, soprattutto, di Underground dove la “violenza narrativa” si
coniuga grandiosamente ad “un palpabile pezzo di mondo e
anche di storia”
14
. Underground che
nasce, è fatto, consiste ed è mosso [...], solo da un tormento
e dolore e grande amore; e persino le sue volgarità e
fragorosità sono parte di questo - e tutto insieme alla fine
produce la lungimiranza, talvolta persino come
chiaroveggenza, di quest’altra storia jugoslava o la
favolosità naturale
15
.
11
Handke Peter, Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina.
Ovvero giustizia per la Serbia, Einaudi, Torino, 1996, p. 3.
12
Sceneggiature per: American LP, La paura del portiere prima del calcio di rigore,
Falso movimento, Il cielo sopra Berlino.
13
Film del 1977, di ambientazione tedesca, da un suo omonimo romanzo.
14
Handke Peter, op. cit., p. 12.
15
Ivi, p. 13.
9
Analoghe polemiche si sono ripetute per Handke in occasione
della messa in scena nell’estate del 1999 de Il viaggio in
piroga ovvero il dramma del film sulla guerra
16
, pièce
dall’impostazione sintomaticamente cinematografica e
ricalcante quella di una qualsiasi opera kusturiciana nei temi e
nella struttura.
Paradossalmente, esiste una certa familiarità di contenuti tra i
due autori, soprattutto riguardo la prima filmografia di
Kusturica, quella più tipicamente caratterizzata dalla messa in
scena di particolari periodi storici, vissuti dalla Jugoslavia
socialista prima di avviarsi alla disgregazione etnica. Saranno
questi temi e contenuti che il regista affronterà in un primo
momento secondo estetiche realistiche, per poi quasi
esclusivamente andare a trattare in modo onirico e metaforico.
Anzi, sembrerebbe proprio che con il graduale peggioramento
della situazione balcanica il regista abbia abbandonato le
esplicite caratterizzazioni storiche dei suoi primi film per,
successivamente, abbracciare una dimensione più lirica e
16
È costruita come un processo, con una serie di testimonianze a carico dove, ad
ascoltare gli esperti della teoria e della realtà slava non sono dei giudici ma due registi,
uno americano e uno spagnolo che dieci anni dopo l’attuale guerra vogliono farci un
film; ma come nel Teatro di guerra di Mario Martone la compagnia teatrale che si
prepara a recitare a Sarajevo non ci andrà mai, nella pièce di Handke il film non verrà
mai girato. Per i due cineasti è difficile orientarsi nell’elenco ingarbugliatissimo degli
interventi: storici, cronisti, guide turistiche, “un camminatore del bosco” (alter-ego dello
scrittore tedesco secondo una sua stessa definizione); i personaggi non faticano ad
ammettere le violenze compiute anche da loro stessi e gli eccessi che hanno
contraddistinto “uno Stato bastardo” unito solo da compromessi e maschere, hanno da
comunicare una miscellanea di episodi che in qualche modo li giustifica, a cominciare
della mitologia dalla “città bianca”, baluardo contro le invasioni, senza mai nominare né
Serbia, né Kosovo, né Miloševič, nonostante il discorso generalizzato si avvalga di
concrete esemplificazioni personali. A partire dal suicidio in scena di un folle in nome
dell’anomalia jugoslava, cresce la reazione autoctona all’Occidente, bersaglio non solo i
bombardamenti, ma il consumismo e la dittatura dei media. Il “viaggio in piroga”
diventa la chiave dell’utopia; alla fine la zattera della folla se ne va attraverso la natura,
ma è il momento per i registi di rifiutare non senza isterie una realtà che altri non
riescono a decifrare. Non resta all’animatore locale della situazione che la risposta
tipica dei suoi connazionali: “Nema problema”, nessun problema. Ma aggiunge, con la
stessa disincantata amarezza che pervade anche il tragico e simile epilogo di
Underground: “Nema Jugoslavia”. (Cfr: Quadri Franco, Sulla piroga con Handke, in
“La Repubblica”, 22 giugno 1999).
10
apparentemente disincantata. Si spiega in quest’ottica il
sintomatico interesse nei confronti delle culture zingare,
società “devianti” rispetto alle occidentali in cui comunque
convivono, dando adito a rivisitamenti plurisemantici e
inconsapevoli post-modernismi.
Ai fini della nostra analisi, mutueremo la nozione di
“umanesimo” dal regista russo Andrej Tarkovskij
17
, referente
cinematografico prediletto da Emir Kusturica, in quanto regista
che nella propria opera è riuscito a mettere a punto la
personale concezione di rifondazione dell’essenza umana in
lotta contro la crescente razionalizzazione e tecnologizzazione,
che piegano l’uomo a logiche d’efficienza. Secondo questa
dichiarata prospettiva umanistica, il compito principale
dell’arte secondo il regista russo è la
conoscenza del mondo, [poiché l’arte] possiede un’infinita
quantità di aspetti e di legami che uniscono l’uomo alla sua
vivente attività, e non disdegna, per procedere con successo sul
cammino della conoscenza, neppure il più modesto tentativo di
concepire, in ultima analisi, una raffigurazione la più piena
possibile del significato della vita umana
18
.
Ci si riferirà comunque all’umanesimo pensandolo e
contrapponendolo al dominio monoassolutista della ragione,
ambito di pensiero che trova invece “spiegazione in
un’accentuata consapevolezza della posizione privilegiata
dell’uomo nel mondo della natura e, conseguentemente, in una
ricerca della misura più alta della capacità e della dignità
dell’uomo”
19
. Come indica anche Emmanuel Levinas in
L’umanesimo dell’altro uomo:
17
Per approfondimenti si rinvia all’ultimo capitolo dell’elaborato e, in special modo, al
paragrafo 8.6. Umanesimo.
18
Tarkovskij Andrej, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p. 16.
19
Alla voce “Umanesimo”, in AA.VV., Grande dizionario enciclopedico, Utet, Torino,
1991, 4° ed. , XX vol., p. 511.
11
la crisi dell’umanesimo nella nostra epoca nasce, forse,
dall’esperienza dell’inefficienza umana che la stessa abbondanza
dei mezzi per agire e la vastità delle nostre ambizioni non fanno
che mettere in risalto. Nel mondo in cui le cose sono tutte in
ordine, in cui gli occhi, la mano e il piede sanno come trovarle, in
cui la scienza prolunga la topografia della percezione e della
prassi, anche se ne trasfigura il senso, nei luoghi in cui trovano
posto città e campagne, che gli uomini abitano pur disponendosi,
per diversi gruppi, in mezzo agli enti, in tutta questa realtà “alla
diritta” il consenso delle grandi imprese mancate – in cui politica
e tecnica riescono giusto alla negazione dei progetti che le
ispirano – rivela l’inconsistenza dell’uomo, zimbello delle sue
opere. I morti insepolti delle guerre e nei campi di sterminio
avvalorano l’idea di una morte senza avvenire, rendono
tragicomica la cura di sé e illusoria la pretesa dell’animal
rationale in un posto privilegiato nel cosmo, la sua capacità di
dominare e di integrare nell’autocoscienza la totalità dell’essere.
Ma l’autocoscienza stessa si disintegra.
20
Il concetto stesso di “umanesimo” è stato appropriato da molte
filosofie, presentatesi di volta in volta come le genuine
rappresentanti delle esigenze dell’umanità; a partire
dall’ultimo dopoguerra si sono per esempio avvicendati
sostenitori di un umanesimo marxista, cristiano, esistenzialista
che hanno rinnovato e reso ancora attuale una querelle che
affonda le sue radici nella cultura moderna. Se il tema
dell’umanesimo è stato oggetto di dispute da parte di chi
mirava ad attribuirgli qualificazioni e caratterizzazioni
strettamente legati ad una Weltanschauung, per la nostra
particolare analisi sul cinema di Emir Kusturica lo
accosteremo invece - spesso mettendolo a diretto confronto –
alla nozione di “nomadismo”, in quanto ambito sincretico ed
aperto, che diversamente procede all’accentuazione ed alla
valorizzazione delle differenze umane.
Mutueremo allora la nozione di “nomadismo” da Gilles
Deleuze, intendendolo come predisposizione al movimento,
20
Levinas Emmanuel, L’umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova, 1985.
12
richiamo alla molteplicità, al fuori e al relativismo.
Interpreteremo secondo un’ottica assimilabile a quella
deleuziana della “molteplicità” e “metamorfosi” anche molte
delle caratteristiche sottese al cinema di Kusturica,
continuamente vivificato e suggestionato da presenze animali,
elementi primordiali (acqua e fuoco), inferenze magiche; tutto
un mondo ed una schiera di percezioni contemporaneamente
primigenee e surreali
21
.
Vedremo poi che proprio nel momento del tragico fallimento
della dottrina socialista in Jugoslavia, Kusturica inizierà a
prediligere, nelle forme e nei temi, la liberazione
dell’irrazionalità e del carattere più istintuale degli individui, i
quali - sembra suggerire - possano vivere senza troppe
interferenze da parte del sistema ideologico malato (nel caso
capitalista) e fallimentare (nel caso comunista).
Gli zingari, d’altro canto, hanno conservato da più di mille
anni la loro identità pur non avendo scuole, libri, istituzioni.
Sono in un certo senso, come spesso ama sottolineare l’autore,
“i nostri rappresentanti in Paradiso, la loro personalità è in
armonia con la natura”. Rappresentano in quest’ottica una
sorta di alternativa alla società reale, nel suo essere mondo
“alla rovescia”, popolo impossibile, solare e primigenio che
non soggiace ad alcun tipo di sovrastruttura o di istituzione pur
vivendoci ossimoricamente ed inesorabilmente dentro. Gli
zingari si configurano come l’unico popolo radicato a quella
sorta di “dimensione istintuale e umana” che Kusturica sembra
invocare.
Attaccati tenacemente alle proprie tradizioni ed estranei ai
21“Un recupero della dimensione della animalità nel senso che essa individua un
concatenamento aperto, un nesso mobile, elastico, tra l’“animale” e l’ambiente, che
rimanda ulteriormente a delle intensità pre-individuali, a dei flussi di energia che
sfuggono a qualsiasi tipo di codificazione, che dispiegano su forme e su piani molteplici
il divenire animale [qui in un’accezione estesa, n.d.r.], il divenire-altro, il divenire come
espressione del mutante complessivo” (Fadini Ubaldo, Deleuze Nomade, introduzione a
Deleuze Gilles, Divenire molteplice, Ed. Ombre Corte, Verona, 1996, p. XXII).
13
controsensi del pensiero ideologico e assolutista, traghettano
metaforicamente il regista all’interno dei propri schemi
culturali, gli zingari diventano modelli di riferimento credibili
proprio in quanto palesemente eccessivi e kitsch. Ma,
ugualmente, il “nomadismo” è sottile e concettuale metafora di
cui si serve Kusturica per tentare di attraversare un pluralità di
sistemi e di culture senza mai attecchire in alcuna.
Indeterminazione, nomadismo e caos sono gli elementi
costitutivi del suo cinema ma, in senso assoluto, sono anche i
concetti che meglio possono esprimere la propria “umanistica”
trasversalità.
In sintesi, la progressiva aderenza del regista alle iconografie
e “poetiche” di questa cultura “altra” (nel suo costituirsi
sistema alternativo ed antagonista a quello occidentale) ed il
conseguente suo appropriarsi di un’impronta sempre meno
realista, sembrerebbe rappresentare la personale reazione
all’abbrutimento della Storia, alla crisi degenerativa delle
ideologie iniziata sul finire degli anni ottanta (e quindi con Il
tempo dei gitani), all’inarrestabile tracollo del mito socialista
sul cui sfondo Kusturica aveva tratteggiato i propri personaggi.
Per comodità, nella nostra analisi sarà quindi opportuno
delineare due principali linee tematico-stilistiche all’interno
della produzione cinematografica di Kusturica. Una prima
linea relativa alla produzione giovanile (Caffè Titanic, i
mediometraggi televisivi, Ti ricordi di Dolly Bell?, Papà è in
viaggio d'affari), che designeremo del “realismo-sociale”, che
risente della influenza di certa arte realista-socialista (per
quanto Kusturica abbia sempre fuggito il naturalismo e non
abbia mai piegato la propria arte alla ricostruzione edificante
della realtà) e, secondo a questa, il filone del “realismo-
magico”, di tono epico e fantastico (Il tempo dei gitani,
Arizona dream, Underground e Gatto nero, gatto bianco,
Super8 stories by Emir Kusturica), secondo la definizione
applicata a certa letteratura latino-americana (Garbriel-Garcia
Marquez, José Amado, Carlos Fuentes...), di cui il regista è
14
profondo conoscitore ed ammiratore:
I miei scrittori preferiti sono Carlos Guentes, Gabriel Garcia
Marquez e altri romanzieri dell’America latina. Mi ritrovo
molto nei loro problemi, nel loro modo di dipingere l’amore,
nella loro forza e nel legame con il sogno. Il loro interesse è
diretto verso la povertà. Ma né io né loro utilizziamo la
povertà per insistere narcisisticamente sugli aspetti più
miserabili della vita o per dire che bisogna aiutare questa
gente ed essere caritatevoli nei loro confronti. Vogliamo
invece mostrare come esista una cultura della povertà e come
anche la vita dei poveri sia culturalmente strutturata.
22
Il suo cinema ha comunque sempre mediato fra una
dimensione realistica -giovanile, politica e storica- e una
fantastica -ludica e magica-, senza mai divenire puramente
surreale o parodistico. Il realismo magico è espediente
privilegiato attraverso cui esprimere la propria fantasmagorica
visione della storia e degli uomini, strumento originale
23
per
esprimere in modo fantastico elementi di vita intima
profondamente e sinceramente emotivi, altrimenti non
connotabili attraverso registri tradizionali.
Attraverso metafore di forte impatto visivo, come per esempio
la frequente messa in scena della levitazione dei corpi, il
regista sceglie di tratteggiare in maniera lirica e assolutamente
onirica certi particolari stati d’animo altrimenti
irrapresentabili:
credo che alcune cose debbano allontanarsi dalla legge di
gravità terrestre. L’amore non deve essere sottomesso ad
22
Vincenti Enrico (a cura di), Emir Kusturica si racconta, in AA.VV., Emir Kusturica,
Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p. 9.
23
Il realismo magico dopo Il tempo dei gitani diventa l’unica alternativa registica
possibile, come dichiara consapevolmente: “Ho capito che per tutta la vita non avevo
fatto altro che tentare disperatamente di conciliare la libertà di movimento del
neorealismo con la potenza evocativa dell’inquadratura del realismo poetico.
Tecnicamente è una cosa impossibile: sono incompatibili”. (Kusturica Emir e Grünberg
Serge, C’era una volta…Underground. Film book, Il Castoro, Milano, 1995, p. 31)
15
una cosa così stupida come la gravità. Il cinema deve
sollevarci, strapparci dalla pesantezza della terra. Come
filmare un colpo di fulmine tra due persone? Bisogna
sollevarle. Questo è cinema! Credo che l’amore si possa
mostrare meglio facendo levitare due persone che non
facendogli dire delle banalità come “ti amo”. La levitazione
è una bellissima metafora della spiritualità, dell’arte e del
modo in cui bisogna trattare il proprio pubblico. Il pubblico
deve essere sollevato da terra con tutti mezzi: energia,
effetti visivi, emozioni... Bisogna soffiare la vita dentro un
film!
24
Fondendo realtà e apparenza, noncurante delle critiche
sollevate, Kusturica procede all’unione intima di conscio e
inconscio, attraverso sprazzi onirici ed altamente evocatori,
con intrusioni nel magico come parte integrante della realtà,
mediante un profilmico a volte quasi barocco nell’enorme
accumulo di segni e gretta materialità, cercando a proprio
modo di ricreare l’atmosfera fiabesca e simbolica, a tratti
allucinata, si diceva, di Marquéz.
Le sequenze oniriche, spesso inserite d’improvviso nel
contesto narrativo, ma anche vere e proprie essenze costitutive
dei film, servono a Kusturica per ricreare straordinarie (in
quanto “non ordinarie”), particolarissime sensazioni.
Fantastico è soprattutto lo stato d’animo da sottolineare,
amplificare; fantastico è l’empatico percepire la vita e il
destino umano come qualcosa di estremamente grandioso,
vitale, “umanistico”, secondo la trattazione che qui cercheremo
di sviluppare.
Così Kusturica si rivela uno dei pochissimi registi capaci di
filmare il sogno
25
, al pari di Buñuel, il sogno è profondamente
integrato alla continuità narrativa, a volte assume
caratteristiche sfumate tanto da non distinguersi dal contenuto
24
Crespi Alberto, Intervista: Emir Kusturica; in “Cineforum”, n.285, giugno 1989.
25
Sulle avversioni ed intrinseche difficoltà nel filmare atmosfere oniriche si rimanda alle
consolidate trattazioni delle teoriche cinematografiche, in particolar modo a Christian
Metz.
16
realistico per poter offrire allo spettatore l’opportunità di
interrogarsi su quella che, con un tocco di superficialità, viene
comunemente pensata realtà.
Per esempio i sogni oceanici de Il tempo dei gitani (il
matrimonio sul fiume), quelli di Arizona dream (l’incipit tra le
lande ghiacciate e gli eschimesi; il pesce nel mare) e quelli di
Underground (la fuga sott’acqua, la deriva dell’isola sul finale,
la sposa che nuota nel pozzo), ma anche gli onirici rimandi ai
quadri di Chagall o del doganiere Rosseau, o quelli
“filologicamente didascalici” a L’Atlante di Vigo o a Nanook
of the North presentano tutta una serie di connotazioni e
richiami figurativi in linea con la credenza della potenza
poetica del sogno.
Ma, il volersi affidare a questa dimensione onirico-fantastica
potrebbe anche esser letto come una sorta di disincanto dalla
realtà, come naturale e progressivo esito della crisi vissuta
dallo slavo Kusturica che ha storicamente vissuto l’acuirsi di
quei nazionalismi e estremismi che mal si coniugano con una
concezione profondamente affascinata e rispettosa nei
confronti dell’uomo.
Come del resto emerge dal modo con cui tratteggia i propri
personaggi, a volte quasi eroici nel loro continuare a sognare,
agitarsi o suonare, Kusturica si sforza di non giudicare né
criticare quello stesso essere umano di cui grottescamente può
evidenziarne i punti deboli o l’ingenuità che lo condanna,
come nel caso eclatante di Underground a vivere sottoterra,
completamente ignaro di quanto stia accadendo.
Ugualmente, questa sorta di sospensione morale e la
mancanza di intenti ideologici o moraleggianti non va
interpretata come un atteggiamento acritico o superficiale
dell’autore, come di primo acchito a taluni potrebbe apparire,
ma piuttosto come concreto senso di rispetto per l’Uomo e di
grande disponibilità, un relativismo ideologico che assume i
tratti di umanesimo (anarchico). Considerare questo significa
anche comprendere il personale percorso anagrafico di chi,
17
all’interno di un conflitto etnico, ha in verità rifiutato di
schierarsi, rigettando le eredità delle lotte fra clan, le
ripartizioni sul basi etniche o confessionali, per aggrapparsi
invece ad una personale utopia. Utopia nel senso stretto della
parola: luogo che non esiste, come quello percorso e
incessantemente battuto da un popolo che non è popolo, senza
nazione, senza scrittura, senza istituzioni ma con l’energia
disperata dell’appartenenza al vivere.
Dopo che l’isola di Underground staccatasi dalla terraferma
nella sequenza conclusiva del film è andata alla deriva, in
Gatto nero, gatto bianco, sopravvive, lontano da tutti, in
un’impossibile zona franca sulle rive del Danubio, una
strampalata per quanto metaforica comunità, ravvivata dalla
sua orchestra zingara, infinitamente triste e infinitamente viva.
Sopravvivono a questo punto solo i contrari, la forza, la libertà
del sogno.