“autolegittimazione”, l’attività medica richiede per la sua
validità e concreta liceità, la manifestazione del consenso del
paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del
trattamento medico-chirurgico.
Di conseguenza possiamo dire che, il consenso in questione
afferisce alla libertà di autodeterminazione del soggetto e alla
libertà morale, profili della libertà personale proclamata
inviolabile dalla Costituzione.
Quindi anche se non si condivide la concezione che vede nel
consenso del paziente il fondamento di giustificazione
dell’attività sanitaria, deve convenirsi che tale consenso sia
comunque un presupposto dell’intervento del medico.
D’altra parte, negare rilevanza alla volontà del paziente
significherebbe riconoscere al medico, un potere quasi
dispotico sul malato, che si verrebbe a trovare in posizione di
assoluta soggezione ed esposto all’arbitrio del sanitario. È per
5
questo che in dottrina non si parla di un “diritto di curare”,
bensì di “potestà” e di “facoltà” di curare, esercitabili a
seguito della richiesta del paziente.
Perché d’altra parte, la volontà del paziente possa integrare
un valido presupposto dell’esercizio dell’attività medica,
occorre che essa sia correttamente formata e sia validamente
espressa. Al riguardo rilevano i requisiti dell’età del soggetto,
dell’assenza di vizi di formazione della volontà, e
dell’informazione preventiva del paziente. Spetta pertanto al
medico fornirgli le indicazioni utili ad orientarsi ed
autodeterminarsi.
Mancando però una disciplina specifica della tematica del
consenso che orienti ed indirizzi nella risoluzione delle molte
questioni, le interpretazioni proponibili alla luce delle
categorie generali del sistema possono essere diverse.
6
In molti paesi, leggi speciali e norme specifiche, inserite nel
codice penale, direttamente riconoscono e disciplinano
l’esercizio dell’attività medica sotto ogni suo profilo, sicchè è
la norma che, prevedendo il problema, ne detta la soluzione.
Nel nostro, invece, occorre ritrovare le linee di condotta
“legali” dell’attività del medico risalendo alle indicazioni
generali fornite dall’ordinamento, e da ciò scaturisce, il
margine di opinabilità delle soluzioni che vengono proposte.
Suscita per il vero perplessità, a riguardo, il fatto che il nostro
legislatore, pur straordinariamente fecondo, non trovi tempo e
modo di occuparsi di aspetti di così fondamentale
importanza, che investono essenzialmente l’ambito di
rilevanza della volontà del paziente a fronte della posizione
che l’ordinamento riserva al medico.
Da parte nostra affidiamo a questo lavoro valutazioni che allo
stato ci sembrano le più adeguate alle varie questioni,
7
accompagnandole con l’auspicio che il consenso del paziente
acquisisca finalmente l’essenza che più le conviene: non di
fatto burocratico, ma di espressione di un rapporto medico-
paziente vivo ed intenso, in cui il sanitario raccolga da parte
sua una adesione effettiva e partecipata, e non solo cartacea,
alla terapia, frutto di una vicinanza reale e di un colloquio
fiduciario.
Così connotandosi, il consenso del paziente recupererebbe la
sua dimensione più autentica: quella di vincolo di solidarietà
sociale e di suggello di “alleanza terapeutica” tra il malato e il
suo medico.
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CAPITOLO I
IL FONDAMENTO DI LICEITÁ DEL
TRATTAMENTO MEDICO-CHIRURGICO
1.1 Definizione di trattamento sanitario
Preliminare all’indagine sulla liceità del trattamento sanitario
risulterà sicuramente un’analisi sulla definizione di
quest’ultimo.
In effetti, nella letteratura medico-legale, varie sono le
definizioni di trattamento medico chirurgico, ed in questo
elaborato si dovrà darne conto così da poter ricavare un
ambito possibilmente definito della responsabilità del
suddetto professionista.
9
La meno lata, e anche più antica, definizione sembra essere
quella del Grispigni
1
che è del 1914: “una modificazione
dell’organismo altrui compiuta secondo le norme della
scienza, per migliorare la salute fisica e psichica delle
persone”.
Da questa definizione, però, rimanevano fuori alcune attività
mediche effettuate non sull’uomo, ma indirizzate lo stesso
alla tutela della salute, della persona: le attività diagnostiche.
Così interveniva il Crespi
2
, in termini di maggiore latitudine,
definendo trattamento sanitario “qualsiasi azione posta in
essere da parte di un medico nell’esercizio della sua attività
professionale, diretta al fine di favorire le condizioni di vita
di un essere vivente”. Si rileva così che anche gli atti
diagnostici rientrano nell’ambito degli atti terapeutici perché
1
Così il Grispigni F., La responsabilità penale per il trattamento medico-chirurgico arbitrario, p.
673 e segg., 1994, nello stesso senso l’INTRONA f., La Responsabità professionale nell’esercizio
delle arti sanitarie, Cedam, Padova 1995.
2
In tal senso il CRESPI A., La responsabilità penale del trattamento medico-chirurgico con esito
infausto; Prilla, Palermo 1995, p. 6.
10
si inseriscono in un complesso di attività finalizzate a giovare
alla salute del paziente.
Ed infatti il Cattaneo
3
puntualizza che “ vanno compresi nel
generico concetto di trattamento medico chirurgico tanto le
operazioni chirurgiche, quanto i rimedi di medicina interna ed
anche le cure psichiche”. Vi rientrano anche gli interventi
diagnostici, quelli diretti cioè ad accertare quale sia la
malattia di cui soffre il paziente…
Si può dire poi che il fine di giovare alla salute è presente
anche nell’azione del medico diretta a diminuire la sofferenza
fisica, nonché in quella diretta a rinforzare l’organismo.
Restano invece al di fuori di questo concetto le altre attività,
non per questo necessariamente illecite, per le quali occorre
fare un discorso a parte… Inoltre restano fuori tutte le attività
non obiettivamente dirette ad un miglioramento della salute,
oppure eseguite in modo contrario ai dati della scienza,
3
Così il CATTANEO G., La responsabilità del professionista, Milano 1958, p. 226.
11
oppure non consentite dal paziente né giustificate
dall’urgenza e dallo stato di incoscienza di quest’ultimo”.
Ancora altri autori
4
propongono una definizione assai più
ampia che arriva a contemplare tutti gli elementi dell’insieme
considerato come trattamento medico chirurgico e si tratta di
tutte quelle azioni od omissioni che il medico pone in essere,
secondo i dettami della scienza, sulla persona del paziente,
come:
a) visita medica (ossia l’esame del corpo del paziente);
b) attività preparatorie a fine diagnostico (indagini
radiologiche, prelievi di sangue, ecc.), a fine operatorio o al
fine di preparare l’esecuzione di altri interventi;
c) profilassi (con vaccini, sieri, ecc.);
d) trattamenti antidolorifici (operazioni, cure fisiche, ecc.);
4
Così Albamonte A., Calcagno C., Cuttica F., Ledda F., Cittadino, Salute e Ambiente, Istituto
Internazionale della Medicina, Roma 1980, p. 63 e segg.
12
g) interventi a favore di terzi (sperimentazione sulla persona
umana, inseminazione artificiale, ecc.)
5
.
In effetti la definizione è piuttosto ampia. Tuttavia, per
quanto ampia, proprio perché arriva ad abbracciare tutti i casi
di contatto diretto e immediato tra medico e paziente, risulta
essere la più adeguata a soddisfare la questione della liceità
del trattamento medico chirurgico, poiché non v’è dubbio che
tale problema si ponga ogni qualvolta si verifichi
un’ingerenza del medico, inerente alla sua professione, nella
sfera dei cd. beni personali del soggetto, come la libertà
psichica e l’integrità fisica, espressamente e particolarmente
protetti dal nostro ordinamento.
Sebbene così lata questa definizione non deve portare a
confondere il trattamento medico con il più generale concetto
di “atto medico” in cui rientrano tutte quelle prestazioni di
5
In tal senso il Riz R., Il trattamento medico e le cause di giustificazione, Padova 1975, p. 27 e
segg., il quale esclude dal concetto di trattamento medico-chirurgico solo gli interventi su persona
non vivente (ad es. necroscopia).
13
carattere esecutivo e materiale nonché gli atti medici formali,
come pareri, prescrizioni, ecc
6
.
1.2 Fondamento della liceità penale del
trattamento medico-chirurgo
Se dunque, come poc’anzi affermato, si considera valida la
definizione di trattamento sanitario nel suo senso più ampio,
perché omnicomprensiva di tutte le possibili ingerenze
dell’intervento medico nei beni personalissimi del soggetto,
verrebbe spontaneo pensare che tali ingerenze arrivino, per
loro natura, a configurare necessariamente condotte
penalmente rilevanti.
Viene sottolineato come la questione della liceità penale si
evidenzi in modo particolare proprio in relazione all’attività
chirurgica, per i connotati stessi che questa
contraddistinguono, e rilevi, nella prassi, in rapporto ad essa,
6
Per un’ampia accezione del concetto di trattamento medico-chirurgico si veda anche
BILANCETTI M., La responsabilità civile e penale del medico, Cedam 1998.
14
non tanto quando l’intervento operatorio abbia avuto esito
fausto, quanto, al contrario, allorché l’esito sia stato infausto,
conseguendone la morte o dei postumi permanenti per il
paziente.
La giurisprudenza affermava, che nessuna questione sorge
per le operazioni chirurgiche che abbiano avuto esito
favorevole, laddove il problema della giustificazione sorge
solo nei confronti delle operazioni che, pur perfette da un
punto di vista chirurgico, abbiano avuto esito negativo
7
.
Va peraltro registrata una autorevole interpretazione
giurisprudenziale di segno diverso, in base alla quale non
potrebbe in realtà affermarsi la assoluta irrilevanza penale del
trattamento medico-chirurgo neppure in caso di una
esecuzione secondo le “leges artis” e quando esso abbia avuto
esito fausto, risultando benefico e vantaggioso per la salute
del paziente.
7
Così la Corte d’Appello di Firenze, sentenza del 27 ottobre 1970, Ingiulla, in “Giur. Merito”,
1971, p. 323.
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