Nicola Rivella – Tesi di Laurea specialistica su
Evoluzione o involuzione del concetto d’inerenza nel reddito d’impresa
Introduzione 2
Da tutto ciò, nasce l’intenzione di prendere in considerazione uno dei principali
requisiti che deve essere rispettato, generalmente, affinché un costo possa sancire
una riduzione della base imponibile di un’impresa: l’inerenza.
Si tratta di uno dei principi essenziali e di una condizione imprescindibile ai fini
della determinazione del reddito d’impresa e del complessivo sistema di
individuazione dello stesso.
Data la sua indiscutibile rilevanza, il significato della regola in questione è stato
oggetto di studio da parte di numerosi ed illustri autori della Dottrina italiana, ed
ha assunto caratteri talvolta completamente diversi, in relazione alle differenti
convinzioni di chi lo ha indagato.
Ciò nonostante, il principio d’inerenza viene unanimemente e pacificamente
ritenuto una delle condizioni decisive e necessarie per conseguire la deduzione
fiscale di un elemento negativo di reddito.
Dal punto di vista tecnico, tuttavia, da più parti si è messa in evidenza la
preoccupazione per il rischio che l’osservanza di tale regola generale poteva e può
talvolta originare e cioè l’inquinamento fiscale del bilancio d’esercizio e la
violazione della neutralità dell’imposizione fiscale.
“È d’altronde evidente, in mancanza di una direttiva oggettiva sull’imputabilità
dei componenti di reddito, la vanificazione di tutte le altre norme sull’imposizione
del reddito d’impresa, ben potendosi ottenere una compressione del prelievo
fiscale escludendo dall’imponibile componenti positivi di reddito, pur rientranti
nell’esercizio dell’impresa, oppure facendo concorrere in deduzione componenti
negativi afferenti la sfera personale dell’imprenditore o comunque non legati ad
alcun vincolo causale con l’esercizio dell’impresa. Come pure, lo spostamento di
componenti reddituali nell’ambito di soggetti facenti parte di gruppi d’imprese,
seppur civilisticamente non sanzionabile, agli effetti tributari comporterebbe la
misurazione della capacità contributiva di soggetti giuridicamente autonomi in
maniera diversa da quella effettiva, dando luogo ad una tassazione sperequata,
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Introduzione 3
suscettibile di turbare il mercato in cui opera l’impresa o comunque di influenzare
negativamente il principio di neutralità dell’imposizione fiscale”
1
.
L’obiettivo delle norme che verranno trattate è dunque di delineare il peso che il
principio d’inerenza ha nei confronti dell’ impresa-contribuente, tenendo sempre
presente che il lavoro in questione ha il solo scopo di illustrare i criteri generali
che permetteranno di avere una visione d’insieme dell’argomento in questione
senza pretendere di fornire un quadro completo ed esaustivo degli innumerevoli
problemi che presenta un materia così ampia.
Fatta questa premessa va specificato che l’interesse di questo elaborato per il
principio d’inerenza non si arresta solo alla semplice analisi della sua “ conditio
sine qua non” di deducibilità di una spesa (costo) ma piuttosto ne vuole anche
sottolineare la sua evoluzione o involuzione avvenuta con le varie riforme
tributarie.
Punto di arrivo di questa evoluzione o involuzione a tappe è il nuovo articolo 109
del TUIR, che rappresenta una delle principali innovazioni introdotte dalla recente
Riforma Fiscale.
A tal proposito, senza voler anticipare successive conclusioni, sembra possibile
dire che la riforma Tremonti, in controtendenza con le precedenti riforme fiscali,
ha optato per una più limitata accezione nei confronti dei principi di competenza,
certezza ed oggettiva determinabilità e soprattutto verso il principio di inerenza
(inteso questo nella duplice accezione di regola che subordina la deducibilità dei
costi al loro riferirsi all’attività d’impresa e di regola che disciplina la deducibilità
dei costi con riferimento all’impresa che produce sia componenti di reddito tassati
che componenti di reddito esenti).
Diventa, quindi, non secondario, alla luce di quanto appena affermato, interrogarsi
sulla sorte dei c.d. principi generali di determinazione del reddito d’impresa.
1
G.TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Giuffrè – Milano, 1991, cit., p. 247 ss.
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Introduzione 4
Paragrafo 2 – Schema del lavoro
Il saggio è suddiviso in due capitoli ed il filo espositivo seguito è stato quello di
partire analizzando e dando un significato al concetto di inerenza, prima in modo
generale (capitolo primo), per poi “scendere” via via sempre più nel particolare, in
modo da capire meglio quale sia il peso del principio d’inerenza sulla
determinazione del reddito d’impresa (capitolo secondo).
Il primo capitolo si dedica: al delicato e fondamentale passaggio dal bilancio
civilistico a quello fiscale; all’individuazione della ratio del principio di inerenza;
alla possibilità che l’Amministrazione Finanziaria possa sindacare le operazioni
imprenditoriale sulla base del principio di inerenza o sulla base della loro presunta
“manifesta antieconomicità” ed infine si chiude con un’analisi dell’evoluzione
storico-interpretativa del principio in esame, a partire dalla sua nascita (1877) fino
ad oggi.
Il secondo capitolo si occupa: del rapporto tra il principio di inerenza e la parziale
deducibilità dei costi in presenza di proventi non tassati, perché esenti o esclusi
dal reddito e del rapporto che lo stesso ha con gli interessi passivi, per poi
terminare, infine, con il suo impatto sulla deducibilità delle spese di
rappresentanza e di pubblicità.
In una frase si può riassumere il tutto dicendo che nel primo capitolo si è prestata
maggior attenzione alla prima parte dell’art. 109, comma 5, del T.U.I.R., mentre
nel secondo si è posto l’accento sulla seconda parte dello stesso articolo.
Tale spaccatura va considerata come ideale visto che in realtà i concetti espressi
nel corso del lavoro sono tutti indissolubilmente legati e concatenati tra loro.
È chiaro che l’impostazione scelta nel trattare l’argomento in discussione era solo
una delle tante possibili, e vuole semplicemente mettere in luce alcuni aspetti
ritenuti interessanti dallo scrivente.
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Introduzione 5
Paragrafo 3 – Alcuni spunti di riflessione sul principio di inerenza
Occuparsi dello “stato di salute” del principio d’inerenza come regola di
deducibilità dei costi nella determinazione del reddito d’impresa potrebbe apparire
a qualcuno come un qualcosa di piuttosto “filosofico” oppure di troppo “banale”,
visto che in maniera, a mio parere, superficiale e semplicistica si può dire che
l’inerenza altro non è che un semplice nesso funzionale che lega il costo
all’attività dell’impresa al fine di stabilire se lo stesso sia deducibile o meno.
In realtà appena si approfondisce un po’ di più l’argomento ci si rende subito
conto che le cose sono un po’ più complesse di come appaiono visto che: il
legislatore non può disciplinare tutti i componenti reddituali rilevanti nel reddito
d’impresa e quindi si deve affidare alle regole generali, fra cui vi è, appunto, il
principio d’inerenza; la deduzione delle spese di produzione del reddito non è
un’accidentale concessione governativa, ma un aspetto strutturale della tassazione
analitica del reddito d’impresa; ed infine, ultimo ma non meno importante, la
questione se un costo sia inerente o meno è foriera di un alto tasso di contenzioso
tra gli Uffici fiscali ed il contribuente.
Tutto ciò non può che portarci a segnalare un punto fondamentale dell’attuale
regime del reddito d’impresa: il concetto d’inerenza non ha riscontri normativi di
ordine generale, salve ovviamente le limitazioni specifiche alla deduzione dei
costi per beni o servizi suscettibili di utilizzo personale (autovetture, telefonia
mobile, ecc.).
Le disposizioni di cui all’articolo 109, comma 5, T.U.I.R., di fatto, servono solo a
regolamentare l’ipotesi in cui esistano proventi esenti o esclusi, e ad evitare che
costi relativi a tali proventi, non rilevanti nella formazione del reddito, siano
scomputati da ricavi imponibili.
Il corollario di quanto appena detto è che il giudizio d’inerenza non è poi così
rapido ed immediato visto che vi è una discrezionalità imprenditoriale ed un
sindacato del fisco che devono stabilire volta per volta sulla base delle situazioni
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Introduzione 6
concrete dove porre il confine tra soddisfacimento di un bisogno soggettivo
dell’imprenditore e costo dell’impresa.
Proprio in mezzo a questi due contendenti si deve inserire, in modo super partes,
l’interprete tributario per cercare di capire quale sia oggi la definizione ed il
confine del concetto d’inerenza.
Il fatto è che nel diffuso atteggiamento mentale che attende dalla legislazione la
soluzione di tutti i problemi, la mancanza di disposizioni generali sull’inerenza
genera parecchi problemi visto che qualsiasi tentativo di definizione legislativa in
tal senso rischierebbe di essere incompleto o tautologico. Anche per l’inerenza
vale il criterio secondo cui, per i concetti di portata generale, per le nozioni più
importanti, le definizioni sono inutile e talvolta dannose.
Eppure basterebbe pensare al fatto che già in materia di IVA il concetto in esame
non è oggetto di alcuna specificazione normativa.
Ecco proprio sulla base di ciò s’inserisce la tesi di questo saggio, che già dal titolo
si domanda se l’inerenza sia in una fase evolutiva o involutiva.
Certo la risposta sembra banale e tende all’evoluzione se ci si ferma a guardare la
storia di questo principio, visto che nel 1877 quasi nessun costo era considerato
inerente, mentre oggi “in teoria” è possibile per il contribuente dimostrare, dietro
congrue prove, che qualsiasi costo è inerente e quindi deducibile.
In altre parole in certi casi un costo è certamente inerente, mentre in altri è
palesemente estraneo all’impresa, e tra questi estremi c’è un’ininterrotta gamma di
sfumature.
Se si accetta, però, l’impostazione che il giudizio d’inerenza richieda oggi criteri
meno rigorosi di un tempo si comprende come il principio in questione rischi di
essere debole e non necessario oltre che marginale, portandoci a pensare più ad
una fase involutiva che evolutiva.
Insomma l’inerenza, a mio parere, più che evolvere verso forme più complesse,
appare ridursi sempre più, muovere verso un’involuzione che sembra
preconizzarne la scomparsa.
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Introduzione 7
Facilmente mi si può obiettare che in realtà essa gode di ottima salute, visto che
pur non essendo contenuta in alcuna disposizione esplicita, è richiamata con
grandissima frequenza dalla Giurisprudenza, dall’Amministrazione Finanziaria e
dalla Dottrina per contestare la deducibilità di poste passive.
Essa viene, però, utilizzata in un modo formalistico e non sostanziale,
travalicandone l’ambito applicativo e rendendola una sorta di passe-partout
concettuale, in pratica, molto spesso l’uso delle regole del diritto civilistico
sarebbe più appropriato di quello delle regole di diritto tributario per contestare la
deducibilità di un costo.
La grossolanità di tale atteggiamento, del resto, tende ad appiattire il diritto sulla
legislazione; il diritto viene così inteso in modo svalutativo e subordinato rispetto
alla politica, in una sorta di funzione notarile.
Le funzioni amministrative e giurisdizionali ne ricavano una comoda
deresponsabilizzazione e si sottraggono dalle valutazioni che, anch’esse, su scala
più piccola, dovrebbero svolgere.
Con questo non voglio assolutamente affermare che il principio d’inerenza, e
sottolineo il principio, debba considerarsi inutile, non più utilizzabile o
moribondo, dato che esso “trascende” ogni incorporazione in regole legislative.
Molto più semplicemente penso, infatti, che esso vada ricostruito o rimodellato.
In primo luogo si dovrebbe evitare di considerare l’inerenza impossibile da
determinare in astratto, visto che la valutazione caso per caso genera elementi
arbitrari non desiderabili.
Non è facile, però, formulando ex novo, o mutuando da altri sistemi tributari, i
giusti e necessari criteri discretivi si può guidare l’interprete ad un miglior
giudizio d’inerenza.
Non va, del resto, dimenticato che i sistemi tributari dei paesi ad alta fiscalità, fra
cui vi è l’Italia, sono oggi naturalmente protesi a favorire la circolazione della
ricchezza e, quindi, a ridurre i vincoli fiscali allo sviluppo dell’intrapresa.
Ciò richiede regole che, permettendo la deducibilità dei costi, favoriscano il
sostenimento degli stessi, o almeno risultino neutrali nella scelta dei fattori
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Introduzione 8
produttivi. Un sistema chiuso di costi specificatamente deducibili non sarebbe
efficiente in alcun modo: distorcerebbe la scelta tra i fattori produttivi, ma sarebbe
anche un impedimento all’innovazione tecnologica e di organizzazione.
Ecco giustificato il motivo per cui l’inerenza debba rimanere il più possibile una
“regola aperta” e astratta, ma ben parametrata in modo che sia il meno complesso
possibile individuare quali siano i costi di produzione (deducibili) e le spese di
erogazione (non deducibili).
Il punto cruciale resta quindi l’individuazione di questi “nuovi parametri”: il
primo potrebbe essere il sempre valido nesso di causalità; il secondo potrebbe
essere l’utilità del costo sostenuto, poiché risponde a valutazioni imprenditoriali
determinabili e comprensibili ex ante; l’ultimo potrebbe essere il criterio di
normalità poiché offre tanto al contribuente quanto all’Amministrazione
Finanziaria indicazioni di riferimento nella valutazione dell’operazione.
La normalità non può tuttavia costituire un canone inderogabile, perché altrimenti
risulterebbe riduttiva delle capacità d’innovazione.
In conclusione, a mio parere, resta il fatto che se gli elementi del giudizio
d’inerenza vengono intesi con precisione, questi sono più che sufficienti a dare
soluzione alle fattispecie controverse: evitando difficoltose ed ambigue definizioni
di “interessi extraimprenditoriali” e di “economicità” delle operazioni.
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Capitolo 1 9
CAPITOLO 1: IL SIGNIFICATO DEL PRINCIPIO DI INERENZA:
L’ARTICOLO 109, COMMA 5, DEL TUIR
Paragrafo 1 – Il collegamento del reddito fiscale al bilancio d’esercizio:
l’articolo 83 del TUIR
Prima di esaminare da vicino il principio di inerenza ed il suo funzionamento, è
opportuno porre l’attenzione su alcuni argomenti introduttivi come:
il concetto di reddito nell’imposizione diretta; le disposizioni generali ed i criteri
speciali che riguardano la determinazione dei redditi e delle perdite;
l’individuazione del reddito d’impresa per giungere, infine, al collegamento del
reddito fiscale al bilancio d’esercizio.
Il reddito è un’astrazione comunemente identificata nell’incremento della
ricchezza rapportata ad un periodo di tempo limitato
2
.
Nelle scienze economiche è possibile trovare questa e altre definizioni di reddito
3
,
ma il concetto di base è sempre lo stesso, inoltre, la materia non richiede una
definizione univoca che peraltro difficilmente riuscirebbe a descrivere tutte le
forme di incremento di ricchezza.
Le definizioni elaborate dalle materie economiche non coincidono, tuttavia, con
quelle elaborate dalla legge tributaria.
All’interno della normativa fiscale il reddito è ciò che la legge definisce come
tale, con la conseguenza che non ha alcuna rilevanza, ai fini del prelievo fiscale,
quell’incremento di ricchezza non previsto e regolamentato dall’ordinamento
tributario
4
.
2
L. CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Giuffrè, Milano,
1997, pag. 3.
3
F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario - parte speciale, Utet, Torino, 1991, pag. 12.
L’autore richiama le teorie elaborate dagli economisti raggruppandole in tre fondamentali
aggregati: reddito come prodotto, reddito come entrata, reddito come consumo.
4
Questa visione del reddito è propria della corrente di pensiero che sostiene quale unica possibile
nozione giuridica di reddito quella “nominalistica”, e che quindi il reddito è ciò che come tale
viene normativamente qualificato. E. DE MITA, La nozione di reddito, in AA. VV. Commentario
al testo unico delle imposte sui redditi ed altri scritti, il fisco, Roma- Milano, 1990, pag. 13; G.
TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Giuffrè, Milano, 1991, pag. 54; L.
CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, cit., pag. 6, nota 6.
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Capitolo 1 10
Questo aspetto riflette il principio di legalità
5
dell’imposizione, sancito dalla
Costituzione
6
, secondo il quale nessun prelievo tributario può essere imposto se
non in base alla legge.
Questo principio lega la formazione delle fattispecie impositive a criteri di
determinazione precisi e analitici, non permettendo il prelievo su qualsivoglia
entrata o incremento di ricchezza del soggetto passivo.
La rispondenza al principio di legalità della norma tributaria, affinché il reddito
sia tassabile, non è però sufficiente, bisogna ancorare il prelievo ad un’ulteriore
principio, quello della capacità contributiva
7
.
Questo principio, sancito dalla Costituzione
8
, stabilisce che tutti i soggetti sono
tenuti a partecipare alle spese pubbliche, non in forza della semplice detenzione di
ricchezza o della titolarità dei soggetti di entrate, bensì di quella forza economica
che permette agli individui di parteciparvi
9
.
Il concetto di capacità contributiva non deve essere confuso con quello di capacità
economica, poiché quest’ultimo non necessariamente dimostra l’attitudine del
soggetto a concorrere alle spese pubbliche.
Quando è ravvisabile una capacità economica non necessariamente è ravvisabile
una capacità contributiva, mentre è sempre vero il contrario
10
.
Contrariamente A. URICCHIO, Il concetto di reddito, in N. D’AMATI, L’imposta sul reddito
delle persone fisiche, Utet, Torino, 1992, pag. 5; L. TOSI, La nozione di reddito, in AA. VV.
Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Tomo I, Utet, Torino, 1996, pag. 7
5
Di questo principio è da sottolinearsi l’importanza in chiave istituzionale, evidenziando come la
riserva relativa di legge comporti che la scelta economico-politica dell’imposizione sia opera
dell’organo legislativo, espressione di democrazia e garantismo, e non del potere esecutivo ne,
tantomeno, dell’operato dell’Amministrazione finanziaria. R. LUPI, Diritto tributario- parte
generale, Giuffrè, Milano, 2000, pag. 8.
6
Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 23.
7
L. TOSI, La nozione di reddito, in AA. VV. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario,
Tomo I, Utet, Torino, 1996, cit., pag. 7; R. LUPI, Diritto tributario- parte generale, Giuffrè,
Milano, 2000 cit., pag. 24.
8
Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 53.
9
E. POTITO, Il sistema delle imposte dirette, Giuffrè, Milano, 1989, pag. 1; E. DE MITA, La
nozione di reddito, cit., pag. 16; G. TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., pag.
8. R. LUPI, Diritto tributario- parte generale, cit., pag. 26.
10
G. TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., pag. 9.
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Capitolo 1 11
La nozione di reddito deve essere riferita ad una fonte qualificata che sia
espressione della capacità contributiva del soggetto passivo dell’imposizione,
quindi della rilevanza economica e fiscale del reddito stesso.
L’ottemperanza a questi principi è il motivo per cui non è riscontrabile, all’interno
del sistema normativo dell’imposizione diretta, una nozione unitaria di reddito.
Peraltro in una tale definizione sarebbe riscontrabile una causa di
incostituzionalità della norma per mancanza di determinatezza dell’oggetto
dell’imposizione
11
.
Il legislatore tributario ha dunque definito le singole categorie di reddito, passando
attraverso la qualificazione giuridica delle fonti reddituali, evitando una nozione
unitaria di reddito che presentava, problemi di incostituzionalità, nonché di
effettiva funzionalità del sistema impositivo.
Sarebbe stato difficile, infatti, riuscire a costruire una definizione
onnicomprensiva capace di ricondurre al suo interno tutte le forme di incremento
di ricchezza.
Questa soluzione avrebbe comportato un continuo lavoro interpretativo a carico
del contribuente, nonché dell’Amministrazione finanziaria, lasciando elevati
margini di discrezionalità ed incertezza
12
.
Il legislatore ha eliminato questa possibilità predisponendo un sistema normativo
articolato e complesso, finalizzato ad una precisa individuazione della materia
impositiva.
Inoltre potrebbe risultare fuorviante chiedersi se esista o meno una nozione
giuridica di reddito, in quanto lo stesso problema potrebbe presentarsi per tutti i
concetti della terminologia corrente impiegati dal legislatore
13
.
11
E. DE MITA, La nozione di reddito, cit., pag. 16.
12
Relazione ministeriale al testo unico delle imposte sui redditi, in N. D’AMATI, L’imposta sul
reddito delle persone fisiche, cit., pag. 2.
13
R. LUPI, La determinazione del reddito e del patrimonio delle società di capitali tra principi
civilistici e norme tributarie, in Rass. Trib., I, 1990, pag. 701.