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E’ anche arduo, se non superfluo, cercare ossessivamente in
questo regista le “influenze”, i suoi “maestri”, proprio perché la sua è
una vocazione di cineasta indipendente a tutto tondo. Nei suoi film,
come vedremo, le citazioni (i Fratelli Marx, la “Corazzata Potemkin”,
Hitchock…) non mancano, ma sono sempre inserite in un contesto che
le rende funzionali alla storia come se fossero un “suggerimento del
narratore” (ad esempio, ne “L’esercito delle 12 scimmie” i folli
personaggi di Tex Avery si inquadrano di sfuggita su un televisore
proprio quando sta per succedere qualcosa di folle ai protagonisti) o
delle semplici gags (in “Brazil”, i soldati che scendono la scala,
sparando, e l’aspirapolvere che cade dalle scale come la celebre
carrozzella di Ejsenstein).
Dichiaratamente contrario, quindi, alla compiaciuta cinefilìa
(“Quando a Hollywood vogliono fare gli impegnati, non fanno che fare
film che parlano di altri film”)
2
, al nostro regista è anche difficile
attribuire una semplice “sfera geografica” di appartenenza: è nato a
Minneapolis, Minnesota, il 22 novembre 1940, si è trasferito in
California da ragazzo, poi a New York per tre anni, e dal ’67 vive a
Londra in una dimora del XVII secolo.
2
“Un americain très britannique”, di Jean-Paul Chaillet, su “Le journal de cahiers” n.°
369, ’86, pag. IV.
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I suoi film, poi, per completare questa frammentazione geografica, sono
particolarmente apprezzati in Francia, come apparirà dalla lettura delle
note che rimandano a molti articoli e riviste d’Oltralpe.
Regista “senza patria”, Gilliam affonda qualche radice della sua
opera cinematografica non tanto in altri film, sebbene si dichiari
ammiratore
di registi quali Kubrick, Fellini, Kurosawa, Welles e Walt Disney,
quanto nella pittura dei maestri del passato (cap. 1), nella mitologia
medievale e, per quanto riguarda le tipologie di personaggi e le loro
interazioni (cap. 2), nell’ “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis
Carroll.
Gilliam non è un regista molto prolifico: sette film e un
cortometraggio in circa vent’anni (otto, se vogliamo includere anche
“Monty Python e il Sacro Graal”, co-diretto con Terry Jones). Le sue
animazioni e le sue sigle per i film dell’irriverente gruppo, poi, sono
altri lavori davvero “gilliameschi”.
Il cinefilo medio, purtroppo, raramente si illumina sentendo il
nome di Terry Gilliam e i titoli dei suoi film. Si ricordano quasi sempre
titoli come “La leggenda del re pescatore” o “L’esercito delle 12
scimmie”, perché più volte trasmessi sul piccolo schermo e per la
presenza nel loro cast di attori molto famosi.
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Io mi imbattei in questo regista qualche anno fa, attraverso quello
che poi è il suo capolavoro, “Brazil”, a cui è dedicato interamente il
capitolo 3.
Lo trasmisero in televisione una mattina prestissimo, e riuscii a
vederlo per puro caso, e questo mi confermò quello che molti, me
compreso, pensano: le emittenti televisive sembrano mandare in onda un
film in orari tanto più impopolari, quanto più vale la pena di essere
visto. Ma si sa, i tesori vanno un po’ cercati, altrimenti che tesori sono?
Rimasi quindi colpito dalla sfortunata e coraggiosa vicenda di
Sam Lowry, dalla suggestione della scenografia e dai molteplici
contenuti, non meno che dal finale scioccante. In una parola, dal cinema
di Terry Gilliam.
All’epoca avevo appena iniziato l’università, e non avevo ancora
una grande padronanza della ricerca degli autori e dei registi. Questo
concesso, trovai comunque abbastanza difficile risalire alle altre
creazioni del regista di “Brazil”. Anche nelle videoteche più fornite,
come chiunque può constatare, appare chiaro che Gilliam è un regista
non compiutamente trattato (salvo i casi dei già citati film più
commercialmente famosi). E ancora, quei film vengono catalogati più
sotto il nome dell’interprete famoso (Robin Williams o Bruce Willis)
che sotto quello del regista.
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Per i Monty Python il discorso è simile: alcuni loro film sono
ormai quasi introvabili (come il primo, “E ora qualcosa di
completamente diverso”, e anche “Monty Python e il Sacro Graal”). E lo
stesso Gilliam, nei ruoli che interpretava all’interno dei film del gruppo,
pareva quasi tirarsi in disparte, apparendo molto meno di John Cleese o
di Michal Palin, quasi sentendosi un “outsider”, unico americano del
gruppo inglese che lui stesso contribuì a fondare.
Di film in film Terry Gilliam si dimostra sempre più essere un
regista sui generis, e sempre più notevoli appaiono, pur nella fantasia
così libera e variegata, quelle costanti e quelle “isotopie” che sembrano
tessere una rete di relazioni, un ponte gettato da un film agli altri. Le
stesse strutture, magari percepite inizialmente come un dèja vu o come
una “forma soggiacente alla superficie”, che fanno dire al pubblico:
“Ah, ma questo è gilliamesco”.
Per questa tesi si è dunque usata un’ottica per così dire
“strutturalista”, che bada alle relazioni e alla “forma” di certi elementi
(ad esempio, le figure della “gabbia” e del “grande spazio vuoto”), la cui
costanza e coerenza sorprende, tanto più che sono immersi in contesti
tanto variegati e fantasiosi.
E proprio perché così peculiari, tali elementi non sono isotopie
del fantastico, come in prima istanza avrei voluto scrivere, bensì
dell’altrove: non appena ci sembra di poter inscrivere l’opera del nostro
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regista in un certo genere, in una certa epoca temporale o in un ben
definito spazio scenografico, ecco che sopraggiungono altri particolari
caratteristici che ci fanno aggiustare il tiro della definizione. In breve, un
regista più “ortodosso” sta al fantastico come Gilliam sta
all’”altrove”.
Il quarto capitolo illustra quello che, al di là della sua suggestione
e importanza concettuale, è una grande “cornice” dei film di Gilliam,
cioè la figura del tempo, sia quello della fantascienza che quello storico.
Credo insomma che queste pagine possano illustrare, vista la
carenza di opere specialistiche, la produzione cinematografica di un
grande “visionario” dei nostri tempi.
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Capitolo 1: l’”altrove” visibile
“…Ma le immagini sono più forti, più immediate, più dirette, più
comprensibili per la maggior parte del pubblico. Entrano direttamente nella
vostra testa. Amo la musica per la stessa ragione: è ancora più diretta
dell’immagine, più primitiva. Mi piacerebbe fare un film senza dialoghi:
sarebbe meraviglioso raccontare una storia solamente con le immagini. In
“Brazil” ci sono in parte riuscito. I dialoghi danno un certo piacere, ma il
film funziona unicamente sull’immagine. I miei cartoons erano così: infatti,
faccio i miei film sempre più simili ai miei disegni animati”
3
.
Anche lo spettatore distratto rimane colpito da quella che forse è la
caratteristica più evidente e tipica del cinema di Terry Gilliam, cioè la sua
forte “visività”.
Il quadro viene ad essere riempito di oggetti più o meno significanti, più o
meno funzionali alla storia, ma che danno all’insieme un impatto visivo
inconfondibile.
Buona parte del potere visuale dei suoi film, come si capisce dalle
dichiarazioni di cui sopra, proviene dalla sua attività di disegnatore, prima,
e di “cartoonist” per i Monty Python, dopo.
3
“Entretien avec Terry Gilliam”,di Alain Garel e François Guérif,su “La révue du
cinèma” n.°403, ’85, pag.82.
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Già all’Occidental College di Pasadena, Gilliam fondò una rivista satirica,
“Fang”, che si avvaleva dell’ironia corrosiva dei suoi disegni, ed era ispirata
alle riviste “Mad” e “Help!”,e ai loro fumetti dissacranti la politica e le
istituzioni.
Nel ’62 inviò un saggio del suo lavoro ad Harvey Kurtzmann,
fondatore di “Mad”, e fu assunto come redattore di questa pubblicazione.
Inoltre, allo stesso tempo Gilliam lavorava come illustratore free-lance per
altri giornali.
Pare che il suo talento per i disegni e le caricature gli abbia
permesso, durante il suo servizio nella Guardia Nazionale a Fort Dix, New
Jersey, di evitare molte mansioni faticose.
Emigrato a Londra nel ’67 continuò su questa strada, pubblicando i
suoi lavori su “The Sunday Times”, “Nova”, “Queen” e altri periodici.In
quel periodo cominciò a consolidarsi il rapporto con i futuri membri dei
Monty Python (il futuro regista e John Cleese si erano già conosciuti a New
York). E poi, contemporaneamente alla sua attività cinematografica,
verranno pubblicati dei suoi lavori, come “Monty Python’s Big Red Book”
nel ’71, e “The Brand New Monty Python Book”, libri illustrati con i suoi
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disegni e collages. Realizzò inoltre “The Great Gas Gala”, cortometraggio
d’animazione per il British Gas Board nel ’72, e nel ’74 dara’ vita a "The
Miracle of Flight”. La prima delle sue sigle animate per introdurre un film
risale al ’71, per il film horror “The Cry of the Banshee”, di Gordon
Hessler. Questo per citare le principali fonti del suo background visivo e
“visionario”.
In un’intervista, parlando del suo amore per la pittura e
l’”affollamento” del quadro, dice: “Bruegel e Bosch erano i più forti, perché
avevano tutte quelle idee, e le trasformavano in quadri di senso compiuto: e
con tutti quei dettagli! I miei film sono così”
4
.
Ancora, dice: “Per la mia formazione e il mio gusto, sono piuttosto
un visionario”
5
.
Per gli stessi motivi, Gilliam dice di amare Fellini. “E rivendico la
sua influenza. Agli esordi era anche lui un disegnatore umoristico, e questo
mi incoraggia. Così amo Kurosawa, Bergman, Kubrick, Gance, Welles,
4
Ibid., pag.84.
5
“Entretien avec Terry Gilliam”, di Emmanuel Carrère, su “Positif” n.°289, ’85, pag.3.
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Lang…in effetti, tutti i grandi. Più esattamente, coloro che fanno cinema
come un romanziere scrive o un disegnatore disegna”
6
.
Un cinema, dunque, “pittorico” e “disegnato”.Nei suoi film, infatti,
ricorrono spesso elementi estetici e contenutistici della pittura e
dell’architettura dei grandi del passato.
Un altro elemento importante per questo capitolo è la tecnica del
"collage" adottata da Gilliam nei suoi disegni, sia statici che animati, e che
gli permette di creare un pot pourri di “Femmes fellinesques, bobbies
hitchcockiens…”
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, e ancora di sfondi architettonici, disegni di suo pugno,
particolari di quadri famosi e quant’altro. Il tutto riesce a formare un
insieme di senso compiuto, per quanto surreale, proprio la qualità di Bosch
e Bruegel apprezzata dal regista.
6
Ibid., pag. 5.
7
“Terry gilliam à livre ouvert”, di Michel Ciment, ibid. pag.11.
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1.1. L’importanza della pittura
Il regista ha dichiarato in più interviste il suo amore per la pittura e per i già
citati Bosch e Bruegel.
Nei suoi film si ritrovano analogie con la loro pittura. Vediamone
alcune.
In “Monty Python e il Sacro Graal” (’74), in cui Terry Gilliam e
Terry Jones hanno condiviso la regia, troviamo le prime.
In una delle inquadrature iniziali si staglia macabramente una ruota
di tortura, infissa su un alto palo. Lo stesso elemento si può trovare in
almeno due quadri di Bruegel, e cioè il famosissimo “Trionfo della morte”
(1563) e “L’andata al Calvario” (1564).
L’atmosfera angosciante del primo quadro, poi, si ritrova nel resto
del film, sebbene animato dal senso dell’assurdo pythonesco: il Medioevo è
ritratto nei suoi elementi pessimistici con un notevole realismo, come poi
accadrà per “Jabberwocky” (’77), primo film diretto dal solo Gilliam.
Ed ecco quindi in risalto schiere di moribondi, appestati, storpi, ferite
di spada e sangue nei duelli, eccetera.
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Alcune comparse dei due film ricordano molto da vicino l’umanità deforme
e tragica dei due grandi pittori fiamminghi, e specialmente i personaggi de
“La parabola dei ciechi” (1568) di Bruegel.
Per quanto riguarda i “wide shots”, i piani tanto frequenti nell’opera
di Gilliam, nei quali è lo sfondo a fare da protagonista, si incontrano
numerose “inquadrature pittoriche”.
Ora, è chiaro che le connessioni tra cinema e pittura offrono
l’occasione di un discorso ben più ampio, destinato ad altra sede. La
scenografia di un film, l’arte di creare i fondali dipinti, è già di per sé un
ibrido delle due arti, e numerosi registi (basti pensare a Kubrick in “Barry
Lyndon”) hanno offerto infiniti argomenti in proposito. Ma ritengo utile
ancora un esempio per riassumere l’importanza della pittura, soprattutto
quella di Bosch e Bruegel, per il nostro regista.
Nei campi lunghi di un film in particolare, cioè “Le avventure del
Barone di Munchausen” (’89), si ritrovano quei colori e quelle atmosfere
che il regista aveva già ammirato nei quadri dei grandi pittori. In numerosi
punti, i “wide shots” ripropongono i colori caldi (giallo, terra di Siena, ocra)
del suolo e i limpidi azzurri del cielo, quasi a omaggiare il Bruegel de
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“L’andata al Calvario” e “Il rientro della mandria” (1565), paesaggi di una
profondità sconfinata, e il Bosch de “Le tentazioni di S.Antonio” (1500). Il
confronto tra questi dipinti e molte inquadrature del film rivela analogie
sorprendenti.
Ma la parentela di Gilliam coi due pittori è soprattutto evidenziata
dalla quantità di dettagli, dalla moltitudine di personaggi e oggetti
eterogenei ma in qualche modo funzionali. “Il giardino delle delizie” di
Bosch, e in maniera minore “L’andata al Calvario” di Bruegel contengono
una tale quantità di figure (dell’ordine delle centinaia!), di strani ibridi
uomo-animale-vegetale-oggetto, di atteggiamenti ed espressioni, che non si
può guardarli distrattamente. Ogni angolo del quadro ci comunica qualcosa,
anche solo per sorprenderci con un’invenzione. E’ evidente che Gilliam ha
fatto propria questa “pluralità plastica”.
Dopo Bosch e Bruegel, dichiara Gilliam, i suoi pittori preferiti sono
Goya, Dorè, Magritte, De Chirico, Dalì. In pratica, i grandi visionari della
pittura
8
.
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Le dichiarazioni del regista a questo proposito sono desunte da molte interviste. In
particolare, v. nota 1 e “L’empire du fabuleux”, di Robert Benayoun, su “Positif” n.°254,
’89.
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Per l’appunto, Goya è evidentemente l’ispiratore di un’inquadratura
di “Munchausen”, là dove il Barone fugge dalla città assediata a bordo di
una mongolfiera. Le immagini sono molto somiglianti ad un quadro del
grande pittore spagnolo, cioè “Il pallone aerostatico” (1818).
Restando su questo film, che per la sua magnificenza visiva e
sontuosità (oltre 40 milioni di dollari del 1988) si può considerare una
“galleria d‘arte gilliamesca”, si possono fare ancora un paio di osservazioni.
Dante Ferretti, lo scenografo del film, dichiara che “Munchausen” è
“Un viaggio a cavallo di una fantasia galoppante, di cui protagonista è
proprio la sceneggiatura”
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.
Lui e Gilliam hanno disegnato, com’è abitudine del regista, i fondali
e le inquadrature del film, scegliendo anche i colori. Un durissimo lavoro,
durato sei mesi
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Nella stessa intervista, Gilliam afferma: “Se c’è un lato negativo nel
lavorare con gli Italiani, è che sono incapaci di rendere laide le cose: fanno
tutto bello”.
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Int. di Mario Sesti su “Ciak” n.°5, ’89, pag.57.
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“Entretien avec Terry Gilliam”, di Michel Ciment e Hubert Niogret, su “Positif”
n.°254, ’89, pag.20.
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Il regista,folgorato da una visita alla Villa d’Este a Tivoli, avrebbe
voluto ambientarvi alcune scene. Ma, non avendo ricevuto il permesso, ne
ricavò comunque l’ispirazione per la sequenza del ballo aereo tra
Munchausen e Venere, sullo sfondo delle fontane.
Per l’aspetto della città assediata, Gilliam si è ispirato ad un quadro
di un pittore del XIII secolo, Bellotto: “Volevo che la città avesse un
aspetto un po’ nordico e un po’ mediterraneo. Come dire, uno sguardo
italiano sull’Europa del Nord”
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.
La figura della Morte che cerca di rapire il Barone nel corso del film
(tra le rovine del teatro, mentre lui vola sulla palla di cannone e quando il
Governatore Jackson gli spara, alla fine) viene da “Un’incisione del
Rinascimento,che rappresenta un soldato steso a terra (…) mentre la morte,
con le sue ali di corvo, gli aspira l’anima dalla bocca. E’ magnifica, molto
violenta. La morte è di sesso maschile”
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Gustave Dorè, altro pittore e disegnatore caro al regista, gli ha
ispirato le figure del Barone e di Vulcano: “Ho sempre visto delle
11
Ibid..
12
Ibid..