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La citazione è presa dal discorso pronunciato dal papa. La frase contestata, estrapolata
dalla citazione, è la seguente:
“Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto
delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo
della spada la fede che egli predicava” (Manuele II Paleologo).
Occupandosi della lezione di Ratisbona, i media hanno dato molto risalto alla frase
contestata. Le reazioni sono risultate disomogenee, sia nel mondo islamico sia in quello
cristiano. Nel primo caso si è passati dall'indignazione delle maggiori cariche civili e
religiose degli stati a prevalenza musulmana (con proteste di piazza annesse), fino ad
arrivare a vere e proprie minacce da parte di gruppi estremisti armati quali Al Qaeda,
Iraq jihadista o l’Esercito dei Mujāhidīn. Anche l'omicidio della suora italiana Leonella
Sgorbati, operante a Mogadiscio da molti anni, probabilmente legato alla lezione di
Ratisbona, ha contribuito a far esprimere "vivo rammarico" a Benedetto XVI, durante
l'Angelus domenicale, in merito alla situazione globale che si era creata.
“Il mio era un invito al dialogo franco e sincero. [...] Spero che questo valga
a placare gli animi” (Benedetto XVI, 17 settembre 2006).
Tale espressione di rammarico è stata da molti paesi accettata e capita, mentre
permangono ancora situazioni di paesi più intransigenti, i quali si attendono vere e
proprie scuse formali. Tra coloro che hanno accettato immediatamente l'invito al
dialogo del Papa vi è Il presidente dell'Iran, Mahmoud Ahmadinejad, che il 19
settembre 2006, esprimendo "rispetto per il Papa" e, suggerendo che le parole del Papa
siano state "modificate" ha dichiarato, riguardo al modo nel quale i media hanno riferito
del discorso del Pontefice:
“Non c'è dubbio che ci sia chi ha diffuso informazioni scorrette” (Mahmoud
Ahmadinejad).
Ahmadinejad ha però colto l'occasione di sottolineare come, malgrado i valori cristiani
contengano un ripudio della violenza, “tutte le guerre del XX secolo sono state
provocate da nazioni europee e dagli Stati Uniti”. La posizione del Presidente iraniano
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ha di fatto smentito una dichiarazione di tutt'altro tenore rilasciata il giorno prima da Ali
Khamenei, supremo leader iraniano, che aveva accusato il Papa di esser parte di una
“crociata condotta dagli USA e dai sionisti”. Dai paesi di area cristiana si sono rilevate
posizioni in aperta difesa del Pontefice, come quella della Commissione Europea, la
quale, difendendo “la libertà d'espressione del Papa”, ha giudicato “sbagliato”
estrapolare la citazione oggetto di controversia dal discorso pronunciato da papa
Ratzinger a Ratisbona:
“Le reazioni sproporzionate, che corrispondono al rifiuto della libertà di
espressione, sono inaccettabili ... La libertà d'espressione è un pietra
angolare dell'ordine Europeo così come lo è libertà di tutte le religioni e di
tutti i credo ... Dal punto di vista della Commissione, qualsiasi reazione deve
essere basata su ciò che è stato realmente detto, e non su brani presi fuori
contesto ed ancor meno su citazioni prese deliberatamente estratte dal loro
contesto” (Johannes Laitenberger, portavoce della Commissione Europea).
Un'altra testimonianza di solidarietà verso il Pontefice è pervenuta dall'autore de I
versetti satanici, lo scrittore indiano Salman Rushdie, in un'intervista rilasciata a
Specchio (settimanale de La Stampa):
“Sono rimasto scioccato da un editoriale del New York Times, che chiedeva
al Papa di scusarsi perché durante il discorso di Ratisbona aveva citato un
personaggio del XV secolo, con cui tra l’altro non era d’accordo. Perché
pretendere le scuse, per un testo bizantino? Non ricordo l’ultima volta che è
accaduto un fatto simile, nella storia. La Chiesa ci ha messo 400 anni per
scusarsi con Galileo, ma il mondo ha preteso che si scusasse con l’islam in 8
minuti” (Salman Rushdie).
Non sono mancate però critiche formali al discorso di Ratzinger, anche da parte di
esponenti religiosi, fra i quali padre Tom Michel, responsabile del dialogo con l’Islam
per la Compagnia di Gesù e per la Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia
(Fabc) e consultore del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso:
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“A Ratisbona, Benedetto XVI ha esposto il suo punto di vista personale. In
Vaticano alcuni sono d’accordo con lui, ma ce ne sono anche molti che non
concordano affatto. [...] Penso che utilizzando un autore mal informato e
carico di pregiudizi come Manuele II Paleologo il Papa abbia seminato
mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai
musulmani delle scuse” (padre Tom Michel).
Inoltre, sempre padre Michael, ha espresso il timore che la fiducia reciproca costruita da
Giovanni Paolo II con il mondo islamico fosse regredita:
“La rabbia che è esplosa sarebbe stata evitata se i consiglieri e gli assistenti
del Papa avessero fatto bene il loro lavoro. Spero che le parole del Pontefice
non diano alimento ad altra violenza. Spero che i musulmani accettino le sue
scuse e perdonino. Ma ci vorrà molto tempo per ricostruire la fiducia che
c’era stata con Giovanni Paolo II” (padre Tom Michel).
Premessa doverosa, questa, per inquadrare il contesto, costruito interamente dai media,
in cui i bellunesi si trovavano nel momento in cui è stata chiesta loro la disponibilità a
collaborare alla ricerca. Un evento a così ampia risonanza non può non aver contribuito
a scatenare in ognuno riflessioni sul rapporto tra cristianesimo e fede musulmana.
Con questa ricerca, in particolare, si è voluto verificare il ruolo di due importanti
variabili di personalità, l’Autoritarismo e l’Orientamento alla Dominanza Sociale, e di
altre variabili quali l’Orientamento religioso, identificazione e le emozioni, nello
specifico ansia ed empatia, nella produzione e riduzione del pregiudizio, sia per effetto
diretto che indiretto, agendo quindi come mediatori.
Nel capitolo 1 vengono elencate alcune delle principali definizioni di pregiudizio
che la letteratura, negli ultimi 100 anni, ha prodotto. Dopodichè viene illustrata una
rassegna dei più significativi studi riguardo i due filoni principali della ricerca: da una
parte, l’origine del fenomeno fatta risalire alla prospettiva individuale, dall’altra l’analisi
del fenomeno a livello intergruppi, con un accenno alle critiche riservate all’approccio
del primo tipo. Viene anche fatto accenno alla teoria dell’identità sociale, a sostegno
della seconda prospettiva, e ad uno dei contributi più forti alla disciplina sulla riduzione
del pregiudizio, se considerato nella sua connotazione più negativa. Successivamente si
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passa in rassegna il rapporto tra emozioni e pregiudizio, nel tentativo di colmare le
lacune teoriche che attualmente lasciano in bianco le pagine della psicologia sociale
odierne in cui gli studiosi vorrebbero presto poter dare spiegazione al passaggio dal
contatto al miglioramento delle relazioni intergruppi. In particolare abbiamo parlato di
empatia ed ansia.
Nel capitolo 2 viene illustrato il ruolo dell’orientamento religioso nella formazione e
riduzione del pregiudizio. Vengono presi in rassegna, in particolare, due studi, dopo una
panoramica sul substrato teorico su cui questi poggiano. In primo luogo, il modello
bipolare di Allport, successivamente il successivo importante contributo allo studio
della relazione tra religiosità e pregiudizio: il modello a tre dimensioni di Batson.
Nel capitolo 3 vengono illustrate le variabili di personalità Autoritarismo ed
Orientamento alla Dominanza Sociale; per ciascuna, dopo una panoramica teorica,
viene riportata l’implicazione pratica nella formazione del pregiudizio con un accenno
al rapporto tra Autoritarismo e minaccia percepita.
Nel capitolo 4 si è fatta una prima descrizione della situazione dell’immigrazione
nella Provincia di Belluno. Il resto del capitolo è dedicato alla descrizione della
strutturazione della ricerca, i dati relativi ai partecipanti, lo strumento utilizzato e le
ipotesi che hanno guidato l’intero lavoro.
Nel capitolo 5 vengono riportati i risultati e descritte le analisi psicometriche
utilizzate.
Il capitolo 6, infine, è dedicato al riepilogo del lavoro ed al commento dei risultati.
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CAPITOLO 1
PREGIUDIZIO, EMOZIONI E CONTATTO
1.1 Pregiudizio: definizioni
Che cos’è il pregiudizio? Se per un momento ci togliessimo le vesti degli appassionati e
studiosi di quell’affascinante mondo che è la psicologia, la prima cosa che faremmo per
dare una risposta alla domanda con cui ho inteso aprire il primo capitolo di questo
lavoro sarebbe consultare un comune dizionario e cercare una definizione. Il De Mauro
Tullio, edito Paravia, fornisce la seguente: “Opinione fondata su convinzioni personali
che non si basano sulla conoscenza diretta di fatti, persone, cose, ma su semplici
supposizioni o convinzioni correnti che possono indurre in errore”. Non siamo molto
distanti da quanto scrive Gordon Allport, psicologo statunitense autore di fondamentali
studi sul pregiudizio, che nel 1954 pubblicò la seguente definizione: “Il pregiudizio
etnico è un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile.
Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un gruppo nel suo
complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo” (Allport 1954, 10).
Ad Harvard lo studioso pubblicò un volume intitolato “La natura del pregiudizio”, un
lavoro che ancora oggi viene considerato un punto di partenza della moderna ricerca
sulla natura del pregiudizio e sui metodi che si possono utilizzare per ridurne l’impatto.
Le definizioni, in ambito psicosociale, di certo non si sprecano. Meritano citazione
le seguenti: “Il pregiudizio è un giudizio negativo a priori dei membri di una razza o di
una religione o nei confronti di chi assolve un qualunque altro ruolo sociale
significativo, mantenuto a dispetto dei fatti che lo contraddicono” (Jones 1972, 61); una
più recente è: “un atteggiamento negativo ingiustificato nei confronti di un individuo
che si fonda unicamente sull’appartenenza del medesimo individuo ad un particolare
gruppo” (Worchel, Cooper e Goethals 1988, 449).
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Elemento comune delle definizioni attribuite da studiosi che hanno dedicato la loro
vita allo studio ed approfondimento del fenomeno, è il suo essere un orientamento
sociale nei confronti di certi individui per il fatto che essi appartengano a particolari
gruppi. Il pregiudizio di gruppo ha, in second’ordine, una connotazione negativa. Più
che sulla forma positiva, gli studiosi si concentrano sulla comprensione della sua
caratteristica negativa.
Lungo questa direzione si muove l’analisi di Rupert Brown, che adotta la seguente
definizione di pregiudizio: “Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze
cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di
comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro
sola appartenenza ad esso” (Brown 1997, p. 15). Secondo lo studioso è utile non
considerare il pregiudizio come un fenomeno cognitivo o attitudinale e prestare invece
attenzione alle sue componenti emotive ed espressioni comportamentali. Per Brown il
pregiudizio è un fenomeno che trae le sue origini da processi di gruppo per tre ragioni.
In primo luogo perché rappresenta un orientamento nei confronti di categorie
complessive di persone, più che di individui isolati. In secondo luogo, rappresenta un
orientamento socialmente condiviso e in terz’ordine la relazione tra gruppi stessi gioca
un ruolo di fondamentale importanza nella formazione del pregiudizio stesso. Aderire
ad un approccio psicosociale significa sposare l’assunto di una natura intergruppi del
pregiudizio. Per Brown era utile adoperare una distinzione rimarcata da Sherif (1966) e
Tajfel (1978): quella tra individui che agiscono singolarmente e individui che agiscono
in quanto membri di gruppi, nel contesto di uno studio del fenomeno fondato nel
gruppo e come cognizione, emozione e comportamento individuale. Sempre secondo
Brown, per comprendere appieno il pregiudizio è necessario inquadrarlo in un
macrolivello di analisi in cui, oltre alla psicologia ed alla prospettiva psicosociale,
rientrino le discipline della politica, economia, storia e strutturazione della società.
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1.2 Pregiudizio in una prospettiva individuale. La personalità autoritaria.
Per alcuni psicologi, studiosi, o quella che Brown definisce, nel secondo capitolo del
suo lavoro “Psicologia sociale del pregiudizio”, come “gente della strada”, il fenomeno
del pregiudizio è espressione di una struttura di personalità particolare, con ogni
probabilità patologica, prodotto diretto di una determinata storia familiare. Punto di
riferimento, in questa prospettiva, fu un modello che coronò anni di studi di Adorno et
al. (1950; trad. it. 1997): il tentativo più noto di collegare il pregiudizio ad un
particolare tipo di personalità. L’ipotesi di fondo era che le persone maggiormente
inclini al fenomeno sarebbero le più sensibili alle idee fasciste o razziste prevalenti in
una società in un particolare momento della storia. Adorno e collaboratori puntavano a
spiegare le differenze individuali nella recettività a tali idee, più che all’analisi delle
loro radici sociali. Secondo gli studiosi, le differenze di personalità potevano essere
ricondotte alla famiglia nella quale il soggetto era stato socializzato. Lo stampo era
chiaramente freudiano. In queste famiglie i genitori impartivano ai figli rigidi codici
morali, li orientavano a quella che all’interno di rigidi schemi ritenevano essere “la
buona condotta”: ne risultava, quindi, una persona particolarmente incline al
pregiudizio. Secondo Adorno, l’aggressività dei figli veniva pertanto dislocata dai
genitori su bersagli sostitutivi, per aggirare l’ostacolo di una trasposizione
dell’aggressività sui genitori stessi. I bersagli più appetibili diventavano così facilmente
individui percepiti come deboli, inferiori. Candidati naturali di questo sfogo catartico
sono i membri di gruppi etnici minoritari, oppure membri appartenenti ad altre
categorie socialmente stigmatizzate (omosessuali, ecc). Ne deriverebbe una persona
ansiosa nei confronti della figura che rappresenta l’autorità (i genitori), che vede al
mondo solo il bianco e il nero escludendo ogni gradazione di grigio, intollerante
all’ambiguità cognitiva e ostile verso chiunque non appartenga al gruppo. Questo
individuo, da Adorno e collaboratori, fu denominato con l’espressione “Personalità
autoritaria”. Per sostenere la loro teoria avviarono un importante progetto di ricerca. Il
lavoro psicometrico portò alla costruzione di un inventario di personalità che avrebbe
dovuto cogliere gli aspetti centrali della sindrome della personalità autoritaria. Il
progetto partorì una misura nota come scala F, per le tendenze prefasciste che intendeva
misurare, composta da 30 item. La scala, che aveva una buona attendibilità interna, era
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in linea con le ipotesi dei ricercatori: mostrava una correlazione significativa con le
misure precedenti del pregiudizio tra gruppi, pur non contenendo item connessi a
gruppi etnici. Nel validare la scala F, gli autori selezionarono alcuni individui che alla
dimensione Autoritarismo avevano ottenuto punteggi particolarmente alti o bassi per
sottoporli a colloqui clinici in profondità che consistevano nell’analisi delle esperienze
infantili di cui avevano memoria. I risultati confermarono molte delle intuizioni
teoriche dei ricercatori circa le origini e sviluppi dell’autoritarismo. Soggetti con
punteggi elevati nella scala F tendevano ad idealizzare i loro genitori e a parlare della
loro infanzia in termini di un periodo di obbedienza alla loro autorità e di dure sanzioni.
Gli atteggiamenti di queste persone erano chiaramente moralistici, di condanna degli
individui devianti, ed esprimevano stereotipi categorici definiti. Al contrario, individui
con punteggi bassi avevano un’immagine più equilibrata della loro vita famigliare.
Negli anni ’50 si sviluppò un forte interesse nei confronti della personalità autoritaria.
Rokeach (1948) fu il primo a intuire un nesso tra la rigidità e l’autoritarismo elaborando
un esperimento atto ad esaminarne i termini.
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1.3 Critiche alla Personalità autoritaria
L’interesse attorno alla personalità autoritaria si tradusse presto nell’identificazione di
lacune teoriche e metodologiche nel progetto di ricerca complessivo. A livello
metodologico, le critiche si sono concentrate sulla progettazione e validazione della
scala F (Brown 1965; Hyman e Sheatsley 1954). Tre le difficoltà riscontrate. In primo
luogo Adorno e collaboratori avrebbero utilizzato campioni scarsamente rappresentativi
di soggetti, estratti da organizzazioni formali che attraggono soprattutto certi tipi di
personalità. Secondariamente è stato contestato come gli item erano stati formulati in
modo che l’accordo con essi indicasse una risposta autoritaria. L’ultima difficoltà sta
nel processo di validazione della scala F attraverso interviste cliniche in profondità: gli
intervistatori erano a conoscenza del punteggio ottenuto da ciascun soggetto e ciò può
aver portato loro, consciamente o meno, a influire sulle risposte prodotte. A livello
teorico, il modello adorniano della Personalità autoritaria fu criticato anche in quanto
si riferiva unicamente ad un’espressione particolare di autoritarismo, cioè quello
politicamente schierato a Destra. Soggetti con idee politiche differenti allora non
potevano presentare tendenze all’autoritarismo ed al pregiudizio? La tesi fu sostenuta
da Shils (1954) e sviluppata in un modello psicologico da Rokeach (1956; 1960). Altro
interrogativo. È possibile spiegare la presenza e la variabilità individuale del
pregiudizio riferendosi a differenze individuali di personalità?
Brown ha sollevato quattro obiezioni all’approccio individuale. La prima è che
sottostima, se non addirittura ignora completamente nella sua variante più estrema,
l’influenza e l’importanza della situazione sociale immediata nel processo di
formazione degli atteggiamenti delle persone. Minard (1952) documentò la specificità
situazionale del pregiudizio in uno studio su una comunità di minatori della Virginia
occidentale. L’autore potè notare come la forte ed evidente segregazione e
discriminazione razziale svanisse quando i minatori scendevano sotto terra. La seconda
è un’applicazione a livello culturale e sociale più esteso delle tesi cui si rifà la prima.
Lo studio pionieristico è di Pettigrew (1958), che ha esaminato il pregiudizio in
Sudafrica e negli Stati Uniti. Dimostrò come i campioni di individui bianchi presi in
esame presentava elevati livelli di pregiudizio verso i neri. A livello individuale si
evidenziava in ambo le situazioni socioculturali una correlazione tra autoritarismo e
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pregiudizio, ma i valori medi campionari dell’autoritarismo non erano superiori a quelli
di altri gruppi meno affetti da pregiudizio. Pettigrew poté concludere che l’origine di
questa forma di razzismo andava cercata nelle norme sociali prevalenti alle quali i
soggetti erano esposti. Ancora più importante fu il seguente risultato: la possibilità di
prevedere con successo i livelli di pregiudizio indipendentemente da quelli di
autoritarismo partendo da variabili sociodemografiche. Gli afrikaner e i gruppi a status
socioeconomico inferiore tendevano a manifestare livelli di pregiudizio più elevati
degli anglofobi e di gruppi appartenenti alla classe media (Duckitt 1988; Pettigrew
1958). L’esistenza di ampie differenze socioculturali rafforza ulteriormente la tesi
secondo cui sono le norme sociali, più che le dinamiche individuali di personalità, a
determinare i livelli complessivi di pregiudizio nei diversi gruppi. Terza obiezione.
Sempre secondo Brown le teorie che spiegano il pregiudizio in termini di differenze
interindividuali non riescono a spiegare come il pregiudizio possa diventare un
fenomeno consensuale all’interno di certe società, come nella Germania nazista
anteguerra. L’ultima obiezione si rifà alla specificità storica del pregiudizio. Se in
particolari contesti sociali risulta già poco comprensibile la presenza uniforme del
pregiudizio, problematici appaiono anche gli improvvisi incrementi e cadute nel tempo.
La crescita dell’antisemitismo sotto Hitler si verificò in un decennio: troppo poco
perché un’intera generazione di famiglie tedesche potesse aver adottato pratiche
educative atte a generare nei bambini una personalità autoritaria e, di conseguenza,
satura di pregiudizi. Brown conclude che per la stragrande maggioranza delle persone
la personalità costituisce una determinante del pregiudizio molto meno decisiva di
un’ampia serie di influenze situazionali sul comportamento.