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Stato alle Regioni e a cascata agli Enti locali nell’ambito di numerosi settori
di intervento (industria, energia, opere pubbliche, assetto del territorio, beni
culturali, formazione professionale, istruzione). Tale conferimento di
competenze amministrative previsto dalla legge 59/97 è stato accompagnato
da un analitica stima dei costi delle nuove funzioni attribuite (costruita
d’intesa con le Regioni e gli Enti locali, intesa ratificata unanimemente
dalla Conferenza unificata); e dall’attribuzione a Regioni e Enti locali delle
corrispondenti risorse umane e finanziarie, scomputate dagli organici e dai
bilanci delle amministrazioni statali.
L’ attribuzione agli Enti territoriali di entrate sostanzialmente
“proprie” (ancorchè istituite da leggi statali - IRAP, ICI, tasse
automobilistiche ecc.- e dunque non classificabili come tributi propri in
base alla restrittiva interpretazione della Corte costituzionale, sentenze 296,
297 e 311/2003 e 355 e 455/2005) nonchè di compartecipazioni al gettito di
grandi tributi erariali (compartecipazione all’IVA, addizionale IRPEF,
compartecipazione all’accisa sulle benzine) ha ridotto drasticamente
l’incidenza dei trasferimenti dal bilancio dello Stato alle Regioni e agli Enti
locali da oltre il 90% a meno del 50% del complessivo ammontare delle
risorse del sistema delle autonomie regionali e locali. Nel contempo,
l’eliminazione del vincolo di destinazione per la gran parte delle risorse
assegnate ha consentito di collegare, in qualche misura, l’autonomia delle
entrate alla responsabilità della spesa.
La riforma del Titolo V approvata nel 2001 ha infine dato una
cornice costituzionale ad un’ulteriore fase di trasformazione del nostro
paese in senso federale. La riforma costituzionale ha infatti innovato il
quadro delle relazioni finanziarie tra Stato ed Enti territoriali in tema sia di
allocazione delle funzioni pubbliche tra le competenze legislative di Stato e
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Regioni, ampliando significativamente i poteri legislativi di queste ultime,
sia di disegno generale del sistema di finanziamento dei livelli di governo
sub-nazionali., riconoscendo loro maggiore autonomia fiscale, escludendo i
trasferimenti erariali quale modalità ordinaria di finanziamento regionale,
prevedendo l’istituzione di un fondo perequativo.
Una trasformazione così radicale negli assetti del nostro paese verso
il modello del federalismo fiscale non può che trovare spiegazione in una
molteplicità di forze concorrenti: la domanda di maggiore efficienza nei
servizi pubblici attraverso l’attribuzione della loro offerta ad amministratori
locali maggiormente accountable nello spendere le risorse della collettività
per la loro “vicinanza” ai cittadini e per la possibilità di porli “in
concorrenza” con altri governi dello stesso livello; le pressioni, da parte dei
cittadini, per una maggiore partecipazione ed un più incisivo controllo nei
processi decisionali pubblici; la necessità di coinvolgere gli Enti territoriali
nello sforzo di consolidamento dei conti pubblici richiesto dagli impegni
assunti dall’Italia in ambito europeo attraverso una loro maggiore
responsabilizzazione fiscale; l’esigenza di muoversi verso modalità di
offerta pubblica più differenziate e più correlate alla specificità delle
preferenze locali; le richieste per una riduzione generalizzata della
pressione fiscale e del ruolo dello Stato nella vita economica; l’irrompere
sulla scena politica della Lega Nord e il tentativo di contenere con le
riforme in senso federalista, le istanze separatiste di cui questa si era fatta
bandiera.
Negli ultimi anni tuttavia questo slancio riformista ha registrato una
decisa battuta d’arresto. Sul piano della riforma costituzionale il
trasferimento di funzioni e risorse previsto dal nuovo Titolo V è
sostanzialmente fermo all’ “anno zero”, e questa inerzia ha certamente
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contribuito a inasprire la conflittualità tra Stato e Regioni sui confini delle
rispettive responsabilità legislative. In particolare, ancora oggi non sono
state emanate la legge recante i principi di coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario, le altre leggi statali previste degli artt. 117
e 119 e non si è provveduto alla definizione dei livelli delle prestazioni per
l’omogenea garanzia dei diritti sociali e civili su tutto il territorio nazionale.
In mancanza la Corte costituzionale ha ritenuto transitoriamente non ancora
applicabili buona parte delle disposizioni contenute nel nuovo art. 119 della
Costituzione e ha di fatto congelato l’autonomia regionale e locale in
materia finanziaria (sentenze 296,297 e 311/2003 e 412004), pur ritenendo
fin da ora applicabili alcuni principi come il divieto di vincoli di
destinazione (sentenza 417/2005). Le leggi statali emanate fino a questo
momento hanno per lo più ignorato i principi costituzionali, ispirandosi anzi
sovente a modelli centralistici, scaricando sulle Regioni e sugli Enti locali
gli squilibri della finanza pubblica, e obbligando le istituzioni territoriali a
scegliere tra una drastica riduzione dei servizi ai cittadini e un consistente
incremento della pressione fiscale e tariffaria.
“La questione non è soltanto quantitativa, non concerne soltanto il
mancato adeguamento dell’ammontare delle risorse finanziarie ai nuovi
compiti e alle nuove responsabilità delle istituzioni territoriali. Altrettanto e
forse più rilevante è la paralisi delle importanti innovazioni qualitative
disegnate dalla riforma”
2
.
Nessuno dei principi del federalismo fiscale (responsabilità
finanziaria degli enti territoriali, sufficienza e autonomia nel reperimento
delle risorse, perequazione e solidarietà) ha infatti trovato finora neppure un
inizio di attuazione. Lo stesso D.Lgs. 56/00, alla prova della sua
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F. Bassanini, G. Macciotta, L’attuazione del federalismo fiscale, Bologna 2003.
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applicazione, non ha rappresentato come era nelle intenzioni, una
significativa anticipazione dell’attuazione dei principi del federalismo
fiscale enunciati dal nuovo art. 119. Infatti non è stato risolto il problema
della sistematica sottostima dei fabbisogni sanitari e dunque del
deresponsabilizzante ricorso a ripiani ex post dei debiti pregressi, e più in
generale non ha garantito certezza, tempestività e sufficienza di risorse per
il finanziamento delle funzioni attribuite, condizioni necessarie
dell’autonomia regionale e locale. In più, esso, cumulando i due modelli
della perequazione verticale e della perequazione orizzontale, ovvero i
rischi, nel primo caso di ingerenza dello Stato nei confronti della finanza
regionale e locale, e, nel secondo, di conflitti distributivi tra Enti ricchi e
Enti poveri e basando la finanza regionale su tributi distribuiti in modo
fortemente disomogeneo sul territorio nazionale (come ha notato l’Alta
commissione per il federalismo fiscale) ha indotto ulteriori forti
disuguaglianze territoriali, attenuando sensibilmente il carattere solidale del
nostro federalismo fiscale, senza d’altra parte essere in grado di stimolare
maggior efficienza nella gestione del danaro pubblico.
La questione dell’attuazione dell’art. 119 non potrà comunque essere
elusa, infatti, è lecito supporre che la stessa Corte costituzionale, seguendo
un modello già più volte collaudato in passato, una volta concesso al
legislatore un ragionevole periodo di riflessione per l’adeguamento della
legislazione ai nuovi principi costituzionali, finirà poi per imporre al
legislatore di provvedere, cominciando a dichiarare (come in parte ha già
fatto) l’incostituzionalità di nuove leggi incompatibili con le norme
costituzionali e ponendo poi un termine all’inerzia del legislatore, oltre al
quale anche le leggi previgenti potrebbero, alla fine, subire la stessa sorte.
Essa, infatti, pur rinviando per ora l’effettiva attuazione dell’autonomia
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fiscale regionale e locale alla emanazione della legge di coordinamento
della finanza pubblica, ha peraltro più volte ribadito (cfr. per esempio la
sentenza 370/2003) l’urgenza di attuare il nuovo art. 119 della Costituzione
in modo da fornire un adeguato supporto finanziario al nuovo assetto delle
competenze definito dalla Costituzione riformata.
La presente ricerca si pone l’obiettivo di collaborare al dibattito
attuale nella ricerca di possibili soluzioni ai problemi interpretativi posti dal
nuovo articolo 119, partendo dall’esame, nel Primo capitolo, delle regole
formulate dal legislatore statale nella vigenza del vecchio testo della
disposizione costituzionale e delle evoluzioni di tali regole fino alle recenti
riforme dettate, in attuazione della legge delega n. 133/99, dal D.Lgs. 56/00
ed, in particolare, nel Secondo capitolo, del meccanismo perequativo dallo
stesso introdotto e del piano di riparto tra le Regioni delle risorse statali per
il 2002 (il primo in cui si sarebbe applicato il nuovo meccanismo) che ha
scatenato l’opposizione di alcune delle Regioni penalizzate (del
Mezzogiorno) che hanno impugnato il decreto presso la Corte
costituzionale (principalmente per presunta incoerenza della formula
perequativa con l’art. 119 della Costituzione) e presso la giustizia
amministrativa (principalmente per copertura, soltanto parziale, dei
fabbisogni sanitari).
Il Terzo capitolo del presente lavoro è invece dedicato al nuovo testo
dell’articolo 119 della Costituzione e si fonda su una ricognizione del
dibattito dottrinale formatosi sul nuovo testo della disposizione
costituzionale. Vengono qui sviscerate (con un attenzione particolare ai
profili tributaristici ed economici) le numerose questioni interpretative
poste dalla nuova formulazione attraverso l’analisi minuziosa dei singoli
termini utilizzati dal legislatore costituzionale, dalla cui esatta
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interpretazione dipende, d’altra parte, l’ampiezza dell’autonomia degli Enti
territoriali.
Infine, il Quarto capitolo è dedicato all’analisi delle pronunce della
Corte costituzionale che hanno contribuito all’interpretazione dei nuovi
articoli del Titolo V della Costituzione e all’attuazione del federalismo
fiscale.
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CAPITOLO PRIMO
IL FEDERALISMO FISCALE PRIMA DELLA RIFORMA
DELL’ART. 119 COST.
1.1. L’autonomia finanziaria delle Regioni a statuto ordinario nel vecchio
articolo 119 della Costituzione.
Il “vecchio” articolo 119 della Costituzione nella sua formulazione
originaria prevedeva che “le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle
forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con
la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni”.
La previsione enunciata nell’articolo 119, nonostante la sua lineare
formulazione, è stata ritenuta dalla dottrina una tra le norme più complesse
della Carta costituzionale. Le ragioni di una tale impostazione sono state
ricondotte, da un lato, alla scarsa chiarezza ed univocità di significato del
riferimento costituzionale alla “autonomia finanziaria” delle Regioni
ordinarie, dall’altro alla contraddittorietà del concetto di “coordinamento”.
In effetti, il vecchio articolo 119 era oggettivamente ambiguo,
perchè, pur riconoscendo in via di principio, l’autonomia finanziaria,
lasciava troppo spazio alla discrezionalità del legislatore statale nella
fissazione dei tributi da affidare alle Regioni e nel coordinamento con
l’intera finanza pubblica. Ne è derivato un vivace dibattito caratterizzato dal
diffondersi di posizioni interpretative diverse che è possibile riassumere nei
seguenti orientamenti:
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• il primo, più restrittivo e formalistico, enfatizzando il ruolo
attribuito dalla Costituzione alle “leggi della Repubblica” – cui compete di
fissare “le forme e i limiti” dell’autonomia finanziaria regionale – negava
l’esistenza di un reale potere impositivo delle Regioni;
• il secondo, più estensivo, operando un collegamento tra l’articolo
119 e il 117 della Costituzione, intendeva l’autonomia finanziaria come una
esplicazione della autonomia legislativa riconosciuta alle Regioni,
ravvisando, dunque, un reale potere impositivo delle Regioni stesse, potere
che incontrerebbe i limiti dei “principi fondamentali” stabiliti dalle leggi
della Repubblica.
Questa seconda interpretazione appare in sintonia con chi considera
l’autonomia finanziaria delle Regioni come semplice disponibilità di mezzi
necessari perché le Regioni siano messe in grado di esplicare i loro compiti,
ma comporta che a tali Enti siano dati autonomi poteri di determinazione
delle loro entrate, configurando, deliberando, amministrando e riscuotendo,
in determinati ambiti, una serie di propri tributi.
Il costituente ha definito compiutamente il quadro costituzionale
dell’autonomia di entrata delle Regioni, laddove ha previsto, in base all’art.
119 della Costituzione, che ogni Regione fosse dotata di tributi propri, oltre
che di quote di tributi erariali.
Il comma 2 del vecchio articolo 119 disponeva, infatti, che “alle
Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai
bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni
normali”.
È importante sottolineare che nella formulazione del comma 2
dell’articolo 119, il riferimento principale era costituito dal sistema
finanziario delle Regioni; solo un lieve accenno era riservato alla finanza