5
Giacché se è vero che il parallelismo di intellettuale e artista è la caratteristica più
appariscente di Moravia, è vero anche che proprio la sua “presenza” nei dibattiti
culturali e la sua statura di intellettuale hanno in qualche modo influenzato gli interventi
critici sulla sua produzione artistica. Una doppia tendenza, infatti, sembra caratterizzare
la letteratura critica su questo autore: da una parte si è spesso discusso con e di Moravia
come “ideologo”, sostenitore dell'ideologia del “borghese onesto” o di altra ideologia, e
si sono spesso utilizzate, usate (piuttosto che interpretate) le sue opere per contestare o
meno tale ideologia, sottovalutando o ignorando - a parte alcune eccezioni, anche
brillanti - il Moravia “artista”, costruttore ed emittente del messaggio estetico
4
; dall'altra
parte si è trascurata la produzione di Moravia dopo La noia (1960)
5
. I due aspetti sono
collegati, giacché, per lo più, si è ritenuto che, a partire da questo romanzo,
l'intellettuale/ideologo, il presenzialista, sensibile alle mode culturali, abbia preso il
sopravvento sull'artista.
Si tratta di un'impostazione critica non molto convincente: il vero punto sta
nell'individuare il continuum
6
artistico-ideologico dello scrittore, nell'individuare le
isotopie tecnico-narrative e tematiche che attraversano tutta la sua opera. È qui che
potrebbero trovare risposta la questione della continuità/rottura nella produzione di
Moravia, la questione del rapporto fra prodotto letterario e contesto storico-sociale per
un autore così “impegnato”, ed è qui, soprattutto, che emerge il sottile dialogo fra
intellettuale ed artista.
4
Sottovalutare la costruzione del messaggio estetico è ancora più inspiegabile se si pensa che Moravia in varie
occasioni ha sottolineato l'importanza, il primato che per lui hanno sempre avuto gli schemi letterari; egli ha affermato
di essere partito spesso più che da un'idea contenutistica, da una suggestione formale, da un'impostazione di voce (cfr.,
per es., Enzo Siciliano, Alberto Moravia. Vita, parole e idee di un romanziere, Bompiani, Milano 1982, p. 69); o
comunque sempre da un fatto “esistenziale” ("È una partenza esistenziale. Parto dall'esistenza, poi, senza volerlo,
approfondendo la favola, arrivo al significato. In termini più dimessi diciamo che racconto un caso della vita e poi
rappresentandolo arrivo alla cultura", A. Moravia – A. Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990, p. 192).
5
La caratteristica di Moravia quale letterato, la cui immagine "è rimasta bloccata al passato", quale scrittore
che ha continuato a produrre mentre le ultime storie letterarie "lasciano in bianco i tratti più recenti" della sua opera, è
stata ben messa in luce da Cristina Benussi in Il punto su: Moravia, a cura di C. Benussi, Laterza, Roma-Bari 1987, pp.
42-43.
6
Si assume il concetto di continuum nella definizione datane da Maria Corti: "quel processo di espansione della
scrittura da un testo all'altro per cui ogni testo è insieme chiuso e aperto, ubbidisce alla propria legge e a quella del
macrocosmo artistico dell'autore in cui è immerso" (M. Corti, Beppe Fenoglio. Storia di un "continuum" narrativo, Liviana,
Padova 1980, p. 10). Tale impostazione critica sembra produttiva per un autore “ripetitivo”, “monotematico” come Moravia,
per il quale le svolte spesso sono espansioni/sviluppi da un testo all'altro ("Nella mia narrativa non ci sono mai state svolte;
semmai ho ripreso dei temi che avevo appena accennato senza svilupparli a fondo", A. Moravia - A. Elkann, op. cit., p. 271).
6
Da questo punto di vista, la lettura o rilettura delle opere di Moravia secondo metodi
testuali più rigorosi è condizione imprescindibile di una risistemazione critica
dell'autore. Come del resto una tra i migliori studiosi del nostro scrittore, Franca
Schettino, già nel 1974 aveva vigorosamente sottolineato
7
.
7
"Una rassegna dei lavori su Moravia apparsi negli ultimi venti anni rivelerebbe che ben pochi di essi si sono
impegnati in una seria rilettura dei testi", F. Schettino, Oggettività e presenza del narratore ne "Gli indifferenti" di
Moravia, cit., p. 301, n. 4.
7
Capitolo 1
Breve profilo biografico dell’autore
«Quando si agisce è segno che ci si aveva pensato prima: l'azione è come il verde di certe
piante che spunta appena sopra la terra, ma provate a tirare e vedrete che radici
profonde.»
A. Moravia
C’è come una frattura nella vita di Alberto Moravia (per l’anagrafe: Pincherle,
nato a Roma il 28 novembre 1907) che ne contraddistingue i tratti più salienti o
almeno le tappe che poterono influenzare la sua vocazione di scrittore. Un’infanzia
normale fino ai nove anni, ma sensibilizzata da un ambiente familiare già contrario
alla sua smisurata fantasia, così chiuso nella sua routine di borghesia benestante (il
padre Carlo Pincherle architetto e pittore, la madre nata De Marsanich, di Ancona) da
ostacolarne le possibili evasioni nel mondo reale; la vita del piccolo Alberto si dipana
in una duplice direzione: nella reale consistenza del mondo in cui è nato, tra le cure
affettuose delle sorelle Adriana ed Elena (il fratello Gastone nasce quando Alberto ha
già compiuto i sette anni, nel 1914); e in quello ben più vero, ma crudo e disarmante,
di una Roma suburbana, con le sue miserie e le sue costrizioni esistenziali, che
nell’aspetto psicologico si contraddistingue come l’esterno, il mondo “di fuori” da
raggiungere, attraverso una conquista che è stacco progressivo e lancinante dall’area
fascinosa della sua vita di famiglia.
Se poi questo stacco avviene (com’è accaduto a Moravia) ad opera di una
malattia che paralizza e costringe ad una vita “diversa”, ecco che la fantasia non ha
8
più confini: dal letto dove Moravia è inchiodato, l’autenticità del mondo è rivissuta
solo nei sogni, nelle aspirazioni, nelle lunghe “creazioni” orali, che il giovane si
costruisce per partecipare ad un’esistenza che scorre al di fuori, al di là della sua
percezione reale.
Così descrive lo stesso Moravia la natura della sua malattia giovanile:
«C’è una tubercolosi ossea ascessuale, che si manifesta con ascessi sul corpo:
e non è dolorosa. Io soffrivo di tubercolosi ossea secca, che dà dolori atroci.
Di questi dolori ho sofferto da nove anni a diciassette. Cominciò in forma
leggera. Stetti a letto per quattro cinque mesi. Mi rialzai e tornai a scuola.
Dopo qualche tempo ricominciarono i dolori alla gamba: e mi rimisi a letto.
Era un continuo alzarmi e tornare a letto. Finchè mi successero fatti
abbastanza strani. Noi abitavamo in via Sgambati, frequentavo il ginnasio al
“Tasso”: una volta tornando da scuola, caddi in via Po e non potei più alzarmi.
Venne la cuoca a prendermi: mi prese in braccio e mi portò fino a casa.
La malattia dà una forma di contrazioni muscolari così acute, per cui si cade in
terra come gli epilettici. Tutto questo era peggio che sgradevole, e certamente
incise sulla mia sensibilità in maniera determinante.»
8
La causa prima degli studi irregolari di Moravia, dunque, questa malattia, ma
anche la spinta a una lettura quasi ossessiva di innumerevoli libri, tendenzialmente
vicini alla sua vocazione in nuce, ed ai quali si accostò in quanto gli consentivano la
rappresentazione drammatica di avvenimenti non altrimenti godibili, a causa della
forzata immobilità, se non nell’immaginazione. Dostoevskij (Delitto e castigo,
L’idiota) e Joyce; quindi il teatro classico, da Goldoni, Shakespeare, a Molière; la
poesia di Mallarmé, di Rimbaud, di Baudelaire, di Apollinaire, di Leopardi, di Eliot.
E poi Manzoni.
Ed è in questo atteggiamento di adesione culturale a una forma di surrogazione
della realtà che Moravia nasce alla sua vocazione di scrittore: dapprima una ricerca di
8
E. Siciliano, Moravia, Milano, Longanesi, 1971, p. 23
9
identità psicologica, una continua e martellante autoanalisi, dovuta in massima parte
alla degenza; poi l’evasione e la ricerca dell’azione, di una forma di vita, cioè,
immediata, piena, autentica, impossibile a realizzarsi per l’infermità che lo aveva
costretto a letto negli anni in cui si è più portati ad una pienezza di vita anche
sensoriale.
«Diedi così gli esami» racconta Moravia.
9
«Mi ricordo che per l’esame di
quinta Ginnasio venni portato nell’aula da un bidello, in braccio. Fui
promosso. Questo succedeva in luglio. A ottobre potei tornare a scuola, alla
prima liceo. Frequentai due mesi della prima liceo. Poi di nuovo un attacco
della malattia; il più forte. Febbri altissime, la gamba che mi doleva
orrendamente: fui lì lì per morire.»
Questo nel 1923. Una cura sbagliata costringe Moravia a letto, ingessato fino al
maggio del 1924. In questo periodo fu tra la vita e la morte. Egli stesso racconta che
la decisa volontà della madre di sottrarlo alle cure del medico di famiglia, per tentare
una nuova cura, rappresentò per lui la salvezza.
«Venni visitato da uno specialista, e mi fecero partire per il “Codivilla” (di
Cortina d’Ampezzo). Al Sanatorio mi tolsero l’ingessatura, mi misero sotto
trazione e cessarono i dolori: quei dolori per cui dal novembre del 1923 al
maggio del 1924 sono stato in continuo punto di morte.»
10
Al Codivilla rimane fino all’autunno del 1925: quando viene dimesso,
l’esperienza dolorosa del Sanatorio ha lasciato in lui solchi profondi. Il racconto
Cortigiana stanca composto in questo periodo giovanile di effervescenza
immaginativa ma di costrizione fisica, è già una prova valida della maturità raggiunta
dal giovane Moravia che gli permetterà di affrontare di lì a poco una costruzione
organica e complessa come Gli indifferenti. Così pure l’altro racconto, Inverno di
9
E. Siciliano, op. cit., p. 25
10
E. Siciliano, op. cit., p. 26
10
malato, che già porta in sé i germi di una esperienza dolorosa legata a quella non
meno tragica della lunga infermità, è di questo periodo.
Lasciato il Sanatorio, Moravia parte per la convalescenza e si reca a
Bressanone, in provincia di Bolzano. Ed è qui che lo scrittore dà inizio – nell’autunno
del 1925 – alla stesura de Gli indifferenti. Scrive stando a letto, specie nelle ore della
mattinata; un’abitudine che gli rimarrà anche nella maturità, questa del lavoro
sistematico nelle prime ore del giorno. Ma più che scrivere, sarebbe esatto dire che
Moravia fissava sulla carta le esperienze d’una lunga incubazione, che aveva avuto
come corollario una infelicità fisica e una sensibilità esasperata da quella
menomazione.
Gli indifferenti viene scritto infatti senza punteggiatura, come controcanto
d’una compressione fantastica che trova la sua naturale liberazione nella scrittura:
«Cominciai Gli indifferenti senza alcun piano preciso né sul significato
e i fini dell’opera che intendevo scrivere, né sulla trama, né sui personaggi, né
sull’ambiente. Cominciai e poi proseguii perché per la prima volta presi gusto
a scrivere. Fin’allora non avevo che faticato. Mi parve a un tratto di trovare il
bandolo di una grossa matassa, tirai e quasi con stupore vidi che la matassa si
svolgeva. In altre parole, all’inizio del lavoro, fui spinto a continuare non da
una volontà pratica, bensì da un senso di ritmo che per la prima volta si
inseriva nelle parole e ne regolava la disposizione. Del resto scrivevo
pochissimo ogni giorno e talvolta mi bastava di fissare un particolare, una
frase. Ero partito senza idee contenutistiche ma non senza alcuni schemi
letterari. Durante molti anni avevo letto moltissimi romanzi e opere teatrali.
Mi ero convinto che l’apice dell’arte fosse la tragedia. D’altra parte mi sentivo
più attratto dalla composizione romanzesca che da quella teatrale. Così mi ero
messo in mente di scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità di
un’opera narrativa e quelle di un dramma. Un romanzo con pochi personaggi,
con pochissimi luoghi, con un’azione svolta in poco tempo. Un romanzo in cui
non ci fossero che il dialogo e gli sfondi e nel quale tutti i commenti, le analisi
11
e gli interventi dell’autore fossero accuratamente aboliti in una perfetta
oggettività».
11
Una pagina autobiografica del 1945 questa di Moravia, che mette in viva luce
le occasioni, le ascendenze, i motivi di un inizio folgorante, ma che offre anche un
quadro delle più vere motivazioni che indussero lo scrittore romano a dare inizio al
suo primo romanzo, al di fuori e al di là dei significati che la critica ufficiale cercò
poi di rintracciare nel libro.
Tuttavia Moravia avvertiva, forse a livello inconscio, istintivo, un’atmosfera di
generale decadenza, contemporanea a quella che si verificava sia sul versante
culturale sia su quello politico. E di questa decadenza riusciva ad individuare le
principali componenti. Dal punto di vista politico, l’avvento al potere del fascismo
operava la distruzione di tutti i valori, favorendo lo squallore d’una società retta
sull’ipocrisia e sul rapporto convenzionale, portata alla deriva da un’avventura e da
una catastrofe senza precedenti, in cui gli scrittori o s’inchinavano all’adulazione e
alla cultura ufficiale o si chiudevano in un disperante silenzio.
«La vera crisi della civiltà e della cultura europea non è stata nel 1945, ma è
stata nel 1910 e tocca il suo acme nel 1920. E’ stato allora e non prima e
neppure dopo che è stato liquidato l’Ottocento.»
12
Il travaglio di un passaggio da un’epoca all’altra, da una situazione morale e
spirituale ottocentesca alla situazione critica dei primi anni del 1900 è così
sintetizzata da Moravia; il quale aggiunge, nella stessa intervista rilasciata al Camon,
alcune precisazioni illuminanti sulla crisi dei valori e sulla situazione storica di quegli
anni:
11
A. Moravia, Ricordo de « Gli indifferenti », pubblicato in « Omnibus » nel 1945, e ora in L’uomo come
fine, Milano, Bompiani, 1964, p. 62
12
F. Camon, Alberto Moravia nel volume La moglie del tiranno, Milano, Lerici, 1969, p. 60
12
«Ovviamente si trattò dei valori, diciamo così, normativi. E senza di questi
sembra inevitabile che l’umanità trasformi in “valori” dei feticci: il denaro, il
consumo, il potere, la forza, la produzione, il sesso, la conservazione della
specie, etc., etc. Cioè, in fondo, a ben guardare, i frammenti, le schegge, i
frantumi della cosiddetta “esistenza”. Ma in quegli anni in cui cominciavo il
mio lavoro di scrittore, maturavano pure da una parte la fortuna di Pirandello,
il quale, per così dire, istituzionalizzava il crollo dei valori normativi, dall’altra
parte quella di Freud, che invece preparava il terreno per tutte quelle
conoscenze e tentativi di conoscenza che, in questi ultimi anni, sono confluiti
nel nuovo umanesimo delle cosiddette scienze umane. La crisi del 1910–1920
insomma è stata la crisi dell’umanesimo tradizionale. Da allora, molto
lentamente, si è venuta formando una nuova conoscenza dell’uomo, sicchè
forse – come dice Foucault – per la prima volta si sa cos’è l’uomo: prima c’era
l’idea dell’uomo, come dovrebbe essere e come non è, mentre adesso si sa per
lo meno che cosa fa l’uomo quando lavora, quando fa l’amore, quando muore,
chi l’ha messo al mondo, quali sono i precedenti della società in cui vive.
Perciò nel 1910 c’è stata in fondo un’opera di paziente ricostituzione, per una
conoscenza umile ma positiva dell’uomo. Ma in principio ci furono
l’indifferenza, la nausea, la noia.»
13
L’uscita del romanzo Gli indifferenti (la cui edizione costò al giovane Moravia
la somma di lire cinquemila come contributo spese alla Casa editrice Alpes di
Milano, diretta da Cesare Giardini) avvenne nel luglio del 1929; il libro ottiene un
certo successo di critica, poiché ad esso si interessa, fra i primi, il Borghese.
Il romanzo tuttavia uscì nel pieno squallore d’una stagione letteraria avallata
dal regime imperante, in un’atmosfera culturale che sembrava trovare nell’agiografia
morale del fascismo, nel “decorativismo”, nel “calligrafismo” le sue migliori risorse.
Inoltre, Zanichelli stampava solo Carducci, Laterza pubblicava solo Croce, la rivista
La Ronda accoglieva intorno a sé le esercitazioni accademiche e retoriche in linea
con la cultura ufficiale, conservatrice e provinciale, del regime. Si può immaginare,
13
F. Camon, op. cit., pp. 60 - 61
13
dunque, quali polemiche nacquero intorno a Gli indifferenti alla sua uscita nell’estate
del ’29. La critica ufficiale di allora, impreparata a un tale salto di qualità, eppure
portata a lasciar correre per impreparazione ed inettitudine, restò non poco
scandalizzata, anche se mostrò di non recepire le proposte eversive del romanzo
moraviano.
Tuttavia, proprio con l’uscita de Gli indifferenti, ha inizio per Moravia un
conflitto insanabile col fascismo, conflitto che si acuirà sempre di più cogli anni, per
l’evidente tendenza dello scrittore romano a porsi in atteggiamento ostile e polemico
nei riguardi della cultura e del regime.
Dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, Moravia inizia la
collaborazione alla rivista di Bontempelli ‘900, chiamatovi dall’amico Corrado
Alvaro: sulla stessa pubblica il racconto Cortigiana stanca, scritto precedentemente a
Gli indifferenti, e poi, quando la rivista diventerà un quaderno con uscita più
frequente, il racconto Delitto al Circolo del Tennis. Nello stesso anno Libero De
Libero lo invita a collaborare al suo Interplanetario e Moravia aderisce, affidando a
De Libero il racconto Villa Mercedes ed alcuni brani rifiutati nella stesura definitiva
de Gli indifferenti, cioè Cinque sogni.
Ma proprio in quegli anni la situazione politica si aggrava: nel 1928 viene
perfezionata la legge del Gran Consiglio del fascismo (integrata da un’ultima legge
del 1929) per cui viene esautorato il Parlamento, messi in soggezione il re e la
Corona, e la Stato diventa Stato-partito. Viene inoltre promulgata la legge sulla
stampa, con cui si attua una radicale trasformazione degli organi della stampa
italiana, sino a mettere le mani sul Corriere della sera e su La stampa di Torino.
Moravia in quel periodo lavora a un secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate,
iniziato nel 1928, e di rado incontra Alvaro: sono incontri malinconici, di poche
parole, come del resto quelli con Pannunzio (conosciuto nel 1932), Chiaromonte e
Morra da Lavriano. Nel 1930 lo scrittore si stabilisce per due mesi alla Consuma,
presso Firenze, dove conosce Berenson e gli fa leggere Gli indifferenti. Ma l’ansia
d’evasione dal clima oppressivo del regime, spinge Moravia a intraprendere i primi
14
viaggi, col pretesto trasparente di una corrispondenza giornalistica. Nell’inverno del
1930-1931 è a Londra, poi nel 1931 a Parigi. Quindi nel 1934 parte per New York,
chiamato da Prezzolini alla Columbia University; qui tiene una conferenza sul
romanzo, discutendo dei romanzieri italiani Nievo, Manzoni, Verga, Fogazzaro,
D’Annunzio.
A New York rimane dall’ottobre 1934 fino al maggio del 1935 (con una breve
parentesi messicana, in quell’inverno, per sfuggire al freddo intenso che si era
abbattuto sugli Stati Uniti).
«In effetti quell’inverno a New York costituisce una specie di cesura nella mia
vita.»
afferma Moravia.
14
Una interruzione avallata dalla cattiva accoglienza riservata a Le
ambizioni sbagliate (censurato dal regime) oltre che dagli avvenimenti della guerra
d’Etiopia, che ispirarono a Moravia un disgusto più che comprensibile.
Di ritorno da New York, lo scrittore si stabilisce a Positano, dove inizia a
scrivere i racconti de L’imbroglio.
Dopo la fine della guerra d’Etiopia, Mussolini dà l’avvio ad una politica
d’avvicinamento con la Germania, culminata nell’Asse Roma-Berlino dell’ottobre
1936. Ma si avvertono già i segni della decadenza del fascismo, proprio in seno al
regime stesso, decadenza che avrà inizio con gli avvenimenti di Spagna e che si
aggraverà con la promulgazione delle leggi razziali anche in Italia.
Se si eccettua il viaggio in Cina compiuto nel 1936 ed il breve soggiorno in
Grecia nel 1938 (dove frequenta saltuariamente Indro Montanelli, ad Atene) gli anni
1936-1943 sono per Moravia assai tristi: il regime, con la promulgazione delle leggi
razziali, inizia la sua brava caccia alle streghe; Moravia non ne è esente, essendo
ebreo per parte paterna.
14
E. Siciliano, op. cit., p. 48
15
«I dieci anni tra il 1933, anno dell’ascesa al potere di Hitler, e il 1943, anno
della caduta del fascismo furono, dal punto di vista della vita pubblica, i
peggiori della mia vita, e non posso ricordarmene, ancora oggi, senza orrore.
Forse per questo facevo tanti viaggi per sottrarmi ad un’atmosfera avvelenata
dalla menzogna, dalla paura e dal conformismo.»
15
Ma è anche un momento particolarissimo, per l’evoluzione della narrativa
moraviana, dato che lo scrittore si è trovato costretto a piegare l’espressione nelle sue
varie forme allusive, dall’allegoria all’apologo, dalla satira all’analogia, per eludere il
controllo e la censura del regime: ne sono nati i racconti surrealistici e satirici de I
sogni del pigro, usciti appunto nel 1940, come pure il romanzo La mascherata, uscito
l’anno successivo.
Il libro, sequestrato alla seconda edizione, documenta in modo ineccepibile la
condizione della società italiana negli anni che vanno dal ’38 al ’42. Tuttavia, il 1941
è per Moravia un anno di arricchimento psicologico e di ulteriore maturazione; si
acuisce la sua ostilità per il regime e la dittatura, ma si rinsalda nell’animo dello
scrittore quel sentimento di eversione e di rottura di fronte a ogni forma di decadenza,
che costituirà una genuina impronta della sua vita e della sua produzione artistica.
Sono anche, questi intorno al 1940, gli anni in cui egli inizia ad interessarsi
attivamente di politica. Dobbiamo inoltre ricordare che nel 1941 Moravia sposa Elsa
Morante, conosciuta nel 1936 per mezzo del pittore Capogrossi. Così ricorda Moravia
l’incontro e l’unione con la scrittrice:
«Quando l’ho conosciuta, Elsa abitava in un piccolo appartamento molto
carino a corso Umberto. Non aveva letteralmente di che mangiare. Viveva
compilando tesi universitarie. Non era capace di fare altro: era molto accurata
nelle ricerche e scriveva bene. Mi ricordo che fece una tesi su Albertazzi e
un’altra su Lorenzino de’ Medici: me ne parlava continuamente. Quando ci
siamo sposati ho dovuto pagare delle sue cambiali, neanche io avevo molti
15
O. Dal Buono, Moravia, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 13