2
strettamente intrecciato e interdipendente, e che i concetti espressi
ad esempio nella Tirannide, in forma di trattato politico, siano come
ripresi, svolti e/o rielaborati in forme diverse negli altri lavori, pièces
teatrali e altro. Né il percorso si esaurisce in questa direzione, ché
la Tirannide, e con essa il resto della theorica alfieriana, subisce il
procedimento inverso, e allora ben potrebbe dirsi anche il
contrario, cosicché, nel caso specifico, lo scritto in prosa sarebbe
una codificazione di precetti e regole già espressi nel Filippo,
oppure nel Polinice. Insomma, le idee espresse nei trattati si
riverberano come luce nelle altre opere, le informano di sé e ne
sono a loro volta percorse; infine, una trasparente circolarità
d’intenzioni fa sì che si possa vedere queste come una verifica
all’atto pratico di quelle.
Il mondo politico-morale-poetico alfieriano, pur nella
compresenza di questi tre aspetti, è sostanzialmente Uno, sempre
lo stesso a ogni latitudine; un mondo più ‘sentito’ che pensato (e
ciò non potrà non avere delle conseguenze in sede di teorizzazione
politica…), necessario portato di un animo in cui moto principe è
l’odio e le cui corde sono messe in vibrazione da una viva
fiammata di sdegno e fremente ripulsa, da un aborrire generoso e
immediato, sentito ‘a pelle’, ‘d’istinto’, figli tutti di un “forte
sentire” – e mai parole furono più alfieriane – che al contempo
sarà violenza lirica e pragmatismo oltranzistico, lotta contro un
limite e negazione assoluta di ogni “rasserenamento olimpico”.
3
3
Per questi motivi si veda il capitolo, di W. BINNI, Vittorio Alfieri, in Storia della Letteratura
italiana, Milano, Garzanti, 1976, vol. VI, Il Settecento, pp. 805-906. Cfr. tra l’altro p. 825: “la
passione dell’Alfieri, il suo deciso propendere per il “forte sentire” superiore ad ogni
equilibrio di natura-ragione, di piacere-virtù, si muove […] verso l’accentuazione
preromantica del sentimento e sin nell’esaltazione dell’entusiasmo irrazionale o
3
Ciò premesso, dunque, diventano pienamente giustificabili, quasi
consequenziarie le contraddizioni in genere, fino addirittura a quei
momenti di inconsistenza ideologica di cui è stato accusato il
Nostro.
4
Ma in fondo il problema è un altro: non si tratta di
assolvere il poeta (e il trattatista) da tali accuse, ma di mostrare che
tali accuse sono vane, non appropriate al caso, meri errori di
valutazione.
5
Anzitutto, quali sono, a ben vedere, le opere politiche
dell’Alfieri? Ovviamente, e per cominciare, i trattati in prosa Della
Tirannide e Del Principe e delle lettere, senza dimenticare il Panegirico di
Plinio a Trajano. Tuttavia, immediatamente, si potrebbe obiettare: e
le due odi, L’America libera e Parigi Sbastigliato, (per tacere della
favoletta Le Mosche e l’Api, maliziosa giunta alla seconda ode e
insieme freno dubbioso agli iniziali entusiasmi per la Rivoluzione)
non sono anch’esse, e chiaramente per di più, politiche? E poi,
come negare tale diritto di cittadinanza anche al bilioso libello
senile misogallico, e alle satire, (ivi compresi giovanili schizzi in
francese dello “scimmiotto di Voltaire”), o almeno a molte di esse?
E come non notare che La virtù sconosciuta dialoga su temi già dei
antirazionalistico, segnando così potentemente insieme un aspetto della crisi
dell’illuminismo in ciò che esso poteva ancora avere di più “razionalistico” e decurtante
rispetto alla integralità dell’uomo nelle sue forze fantastiche e sentimentali, e una
interpretazione drammatica del preromanticismo, che da quella crisi si veniva variamente
svolgendo”.
4
Molti sono gli studi che puntano proprio a evidenziare le contraddizioni intrinseche al
pensiero politico alfieriano, oppure quelli volti a svelare l’inconsistenza, all’atto pratico, delle
sue posizioni teoriche, fino alla dissoluzione di queste nel loro opposto (dalla contestazione
radicale al conservatorismo più gretto): dei primi si ricordi soprattutto (vero e proprio
capostipite di simile linea di pensiero) il saggio di E. BERTANA, Vittorio Alfieri studiato nella
vita, nel pensiero e nell’arte, Torino, Loescher, 1904; dei secondi quello di N. SAPEGNO,
Alfieri politico, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari, Laterza, 1968, pp. 21-39 (già in
“Società”, V, 1949).
5
In buona sostanza, si tratta di dimostrare che l’Alfieri sarebbe da assolvere perché il fatto
non sussiste, e che l’accusa di incoerenza ideologica mossagli, ad esempio, dal Sapegno è
minata da un vizio di fondo che porta necessariamente ad un’incomprensione del pensiero
politico (o pseudo-politico che dir si voglia) alfieriano.
4
precedenti trattati? Già da tutto ciò non si può non notare come il
puro e semplice epiteto di ‘politico’ ci si riveli, se non inadeguato,
almeno riduttivo, e che come secondo termine, ad ampliare e
specificare meglio il carattere di questi scritti, l’etichetta necessiti di
quello di ‘morale’. Scritti politici e morali, dunque, che è poi anche il
termine sotto cui sono raggruppate le medesime opere (o quasi)
nell’edizione astese. Non ancora abbastanza, tuttavia: sostanza
politica e morale hanno, oltre ovviamente alla tetralogia politica
costituita da L’Uno, I Pochi, I Troppi e L’Antidoto – uno dei pochi
momenti in cui alla tradizionale ormai pars destruens parrebbe
seguire (comunque la si voglia giudicare) una pars costruens –
6
anche
le tragedie tutte,
7
così come L’Etruria vendicata, poemetto – tragedia
anch’esso, ma in ottave – ferocemente antitirannico e, per
l’ennesima volta nella attività letteraria del tragico, antimediceo. A
questo punto avremmo racchiuso quasi tutta la produzione
dell’astigiano: oltre tale immaginario insieme di comodo, e
comunque sulla soglia di esso, si porrebbero infine tre esperienze
6
Se le prime tre commedie sono volte ad indicare, mettendoli in ridicolo, i limiti di un
governo ora monarchico, ora oligarchico, ora democratico, la quarta è stata da sempre
portata ad esempio dell’idea politica costruttiva alfieriana, che propenderebbe per una
moderata monarchia costituzionale, all’Inglese. Tuttavia, se in un primo momento (per la
precisione nei Quarti pensieri comici, dove la commedia aveva per titolo Di tre veleni, Un
Rimedio) la scena era l’Inghilterra; l’azione, la restituzione del trono da Monk a re Carlo II;
l’antidoto, la Magna Charta; con L’Antidoto si registrerà un significativo slittamento: “non più
dei contorni storici concreti […] bensì un paesaggio lasciato nell’indistinto spaziale e
temporale, tutto precipitato nel fantastico come l’azione stessa della commedia…” (cit.
dall’Introduzione a V. ALFIERI, Commedie, 2 voll., a cura di Simona Costa, Milano, Mursia,
1988-90, I vol., pp. 20-21), quasi a evidenziare come i “lunghi conti con la storia si chiudano
sui toni liberatori di una gozziana favola a lieto fine” (ivi, II vol., p. 5). Alle quattro
commedie politiche, infine si ricordi, fanno seguito altre due, La finestrina e Il divorzio, di
stampo dichiaratamente e decisamente morale. Riaffiora dunque, la dicotomia
precedentemente individuata.
7
Intese esse sia nella loro totalità (come corpus), quasi a dire nella loro essenza costitutiva, sia
singolarmente, nella delimitata trattazione di uno specifico tema politico ogni volta diverso
e/o più o meno presente.
5
diaristiche quali quella intimistico-introspettiva dei Giornali
giovanili (un’indagine, si badi bene, ‘morale’ tra le pieghe dell’Io,
tutta condotta sul filo della noia e dell’ozio); quella lirica –
accompagnamento di tutta una vita – delle Rime (la cui cadenza, si
parta ad esempio dalla descrizione di un paesaggio, o dalla
lontananza dell’amata, è sempre e comunque sull’Io); ed infine
quella del diario pubblico – la Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da
esso – vero e proprio quadro dall’unico punto di fuga (la
conversione letteraria) verso il quale tutto converge e dal quale
riceve luce, monumento alla volontà del degno scrittore, storia di
un’atteggiata vicenda esemplare da offrire ai posteri. Tre
componenti dunque, al redde rationem, nell’opera del conte Vittorio
Alfieri da Asti: Morale, Politica, Individuo. Impossibile separarli
l’uno dall’altro, senza poi trovarsi di fronte a intricati nodi che non
si lasciano sciogliere: così applicare il metro esclusivamente
politico alla Tirannide o al Panegirico condurrebbe a risultati
chiaramente falsati, compromessi da un errore di calcolo iniziale.
E da qui, allora, procederebbero quelle famose contraddizioni che,
ad esempio, Natalino Sapegno trova nell’Alfieri – e che, vien
d’aggiungere, più che nell’autore sono in lui – valga per tutte
l’abusata ormai bipartizione tra un Alfieri iconoclasta in gioventù
(o sarebbe meglio dire per gioventù?) / Alfieri fautore dell’ancien
régime di fronte al fatto compiuto, ovverosia la Rivoluzione
francese.
8
8
Cfr. N. SAPEGNO, Alfieri politico, cit. Tra le numerose critiche mosse dall’illustre studioso,
giuste una volta accettato il suo assunto iniziale (a nostro modesto avviso, però, come
abbiamo già detto, sbagliato), si noti: “nella pratica, essa [la concezione della libertà in
Alfieri] si risolve nell’atteggiamento già definito dell’intellettuale radicale, con il suo oscuro
istinto di rivolta, che predica la rivoluzione e non muove un dito per realizzarla, che si esalta
6
Non s’intende il soffio profondo di questi libri se solo si esce da
essi e si guarda al mondo circostante, cercando un appiglio
concreto cui applicarli: il loro autore, in realtà, si era come
volontariamente esiliato – quasi un secondo “disvassallamento” –
dai suoi tempi (“Ma, non mi piacque il vil mio secol mai”),
9
preferendo vivere nei e coi libri (“pensa coi classici”, è
l’ammonimento del compianto Gori Gandellini),
10
ed è come se
tutti i suoi scritti appartenessero a mondi iperurani, non scalfibili
minimamente dal quotidiano. Una conferma di ciò la si cerchi, tra
l’altro, nella Vita: se un soggetto, mettendo in carta la propria
esistenza, la racconta tutta in funzione della propria opera (nel
caso specifico, letteraria), facendone dapprima un ricettacolo di
sintomi rivelanti un’indole appassionata, quasi un preludio alla
quindi ineluttabile e necessaria vita a contatto dell Muse, poi una
sorta di catalogo editoriale dei propri successi; oppure si
nella gratuita indipendenza di sentimenti e non crede sia affar suo creare anche per gli altri
uomini le condizioni di una maggior libertà e di un più ampio progresso, e quando poi
s’imbatte in uomini che s’adoprano a tradurre sul piano concreto e nei limiti del possibile i
suoi astratti ideali non sa far altro che fuggirsene via inorridito e deluso” (ivi, p. 30).
Interessante, e giustissimo, invece, il rilievo sulla natura della libertà alfieriana, “un
sentimento, non un concetto: uno slancio del cuore privilegiato che non si rassegna
all’inerte acquiescenza dei più; un dono di pochi, non una realtà che si conquista. […] La
libertà di cui l’Alfieri discorre è dunque una situazione immobile e senza sviluppi, senza
possibilità d’applicazione in un momento e in una situazione determinati dal processo
storico. Concezione meramente negativa, incapace di svolgersi sul piano della critica di una
precisa situazione politica e sociale” (ivi, pp. 27-29). Che è dire, poi, in un certo senso,
comprendere, ma al tempo stesso contestarla e combatterla, l’essenza dell’autore.
9
Tacito orror di solitaria selva: CLXXIII (I parte), in Rime, cit.
10
La virtù sconosciuta, in Scritti politici e morali, cit., vol. I, pp. 274-275. Il discorso di Francesco –
lo riportiamo perché profondamente funzionale, ci pare, al nostro ragionamento – così
prosegue: “…coll’intelletto e con l’anima spazia, se il puoi, infra Greci e Romani; scrivi, se il
sai come se da quei grandi soli tu dovessi esser letto; ma vivi, e parla, co’ tuoi. Di questo
secolo servile ed ozioso, tutto, ben so, ti è nausea e noja; nulla t’innalza; nulla ti punge, nulla
ti lusinga: ma, né cangiarlo tu puoi, né in altro tu esistere, se non col pensiero e coi scritti [nostro
il corsivo]”.
7
autoanalizza ponendo sempre avanti a tutto il pensiero di gloria;
11
o infine indulge alla rappresentazione lirica di sé, di un Io sempre
alla ricerca di fama letteraria e onore (e i cui unici punti di contatto
positivi col mondo reale sono ora i cavalli, ora l’amicizia, ora il
degno amore) sotto lo sprone di ira e malinconia (Due fere donne,
anzi due furie atroci, / Tor non mi posso (ahi misero!) dal fianco:
CLXIX);
12
ebbene, tutto ciò è altamente significativo, e implica
che non solo – Cardarelli ante litteram – la Speranza, ma anche e
perfino la Vita nel suo complesso sia nell’opera. Che poi questo
possa essere una necessaria conseguenza della “tristizia de’ tempi”,
tempi a loro volta rei di costringere l’Uomo – seppur individuo
eccezionale, vate od eroe che dir si voglia – all’inazione,
13
ciò poco
11
Così si apre la seconda parte dei Giornali (cit. da Prima redazione inedita della Vita, Giornali,
Annali e documenti autobiografici a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951), nel 1777:
“Questa mane appena svegliato tosto ricorsi col pensiero alla fama letteraria, oggetto
costante d’ogni mio desiderio…” (17 aprile). Più oltre, si veda anche: “la voglia mia
d’imparare è somma; la ragione di questa mia voglia è la smisurata mia ambizione, che non
vedendo altro campo da correre, tutta s’è gettata alle lettere: ed in fatti non v’è il più
onorifico” (18 aprile); poi: “…ecco ricomparir poco a poco la filosofia, e l’amor delle
lettere. Questo è l’oggetto mio costante, questa è la passione predominante” (1 maggio); ed
infine: “rincresceami sommamente di morire prima d’aver acquistato fama; quanto alla vita
futura, non mi metteva punto timore, non sapendo che crederne, ma sapendo di certo che
non ho mai fatto male a nessuno” (2 mag).
12
Rime, cit.; cfr. anche: Malinconia, perché un tuo solo seggio (LXV, I parte) e Mesto son sempre; ed il
pianto, e la noia (CXXXVIII, I parte)
13
E comunque si noti che, se ancora ai tempi della Tirannide il poeta lamenta questo stato di
cose (“io, che per nessun’altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi vietavan
di fare; io che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la penna per
impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada…”, si legge nella dedica del libro, Alla
Libertà); nel trattato successivo, Del principe e delle lettere, i termini si saranno in ribaltati a netto
vantaggio del poeta e della poesia: “Tanto può più, presso al comune degli uomini, il fare
che il dire. Non pensano essi, che il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte; e che
per lo più chi ben disse, in parità di circostanze, di tanto avrebbe superato chi ben fece, di
quanto dovea il dicitore aver avuto un ben maggiore impulso per darsi interamente ad
esaminare, conoscere, innovare, o rettificare una cosa, da cui, non potendola egli eseguire,
niuno altro frutto per allora sperava, che la semplice gloria dell’averla ben ideata, e ben
detta. […] Io perciò credo, che lo scrittore grande sia maggiore d’ogni altro grand’uomo;
perché oltre l’utile che egli arreca maggiore, come artefice di cosa che che non ha fine, e che
giova ai presenti ed ai lontani, si dee pur anche confessare che in lui ci è per lo più l’eroe di
cui narra, e ci è di più il sublime narratore. Ed in fatti, gli eroi nati dopo quell’Achille
(interamente forse fabbricato nella testa d’Omero) tutti vollero più o meno rassomigliarsi a
lui. Ma, se un eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da sé; dunque lo ritrova egli
8
rileva: Alfieri era altrove e, portatosi con sé – ripetiamolo – degno
amore, scelti amici, fidati cavalli, aveva eletto come suoi compagni
ideali grandi del passato, fossero pure ombre visitate in
pellegrinaggio (Dante, Petrarca ecc., ecc.),
14
oppure effigi di una
collana – oro, gioielli e pietre dure – ossia quell’ordine di Omero
15
,
composto da ventiquattro anime più o meno affini (ivi compresi –
in una sorta di onore delle armi al nemico ormai sconfitto –
Voltaire
16
più altri personaggi già negativamente bollati, rei di
vilipendio della sacralità poetica)
17
con cui finire pedantizzando i
in se stesso. […] Onde io nell’esecutore di una impresa sublime ci vedo un grand’uomo; ma
nel sublime inventore e descrittore di essa, a me pare di vedercene due.” (II, 5, in Scritti
politici e morali, cit., vol. I). Dignità nuova, dunque, ha il poeta, mosso da un impulso identico
a quello degli eroi dell’azione (significativa anche, a tale proposito, la distinzione proposta
più avanti (III, 6) fra “letterati attori” e “letterati scrittori”), e come sottratto, proprio in
grazia “d’un’arte che divina invade / Gli almi suoi mastri” al giudizio di “chi non è Vate, o
Iddio.” (Poeta, è nome che diverso suona: XVI, II parte).
14
Rime scritte in occasione della visita dell’Alfieri alle tombe di poeti del passato sono: O gran
padre Alighier, se dal ciel miri (LIII, I parte); Dante signor d’ogni uom che carmi scriva (LIV) per
Dante; O cameretta, che già in te chiudesti (LVIII), per Petrarca, e “Le donne, i cavalier, l’arme, gli
amori” (LX), ovviamente, per l’Ariosto; inoltre, altri veri e propri colloqui con i Grandi sono
gli omaggi a Tasso e Michelangelo, rispettivamente in Del sublime cantore, epico solo
(CLXXXV), e Oh! Chi se’ tu, che maestoso tanto (L); una sorta di ricapitolazione dei propri
gusti, ed insieme esaltazione della tradizione si ha infine in Quattro grandi vati, ed i maggior son
questi (CLXI), in cui si celebrano Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Cfr. Rime, cit.
15
“Inventai dunque una collana, col nome incisovi di ventitré poeti sì antichi che moderni,
pendente da essa un cammeo rappresentante Omero, e dietrovi inciso (ridi o lettore) un
mio distico greco […] Quanto poi alla collana effettiva, l’eseguirò quanto prima, e la farò il
più ricca che potrò, sì in gioielli che in oro, e in pietre dure”, Vita scritta da esso, a cura di L.
Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, IV, xxxi. I ventitré poeti di cui l’autore parla sono: Esiodo,
Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro, Aristofane, Virgilio, Orazio, Plauto, Ovidio, Giovenale,
Terenzio, Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Corneille, Molière, Racine, Voltaire, Milton,
Shakespeare, Camoens, più, ovviamente, Omero.
16
Sull’argomento cfr. G. SANTATO, Alfieri e Voltaire – dall’imitazione alla contestazione, Firenze,
Olschki, 1988 (1982
1
).
17
È il caso, ad esempio, di Virgilio ed Orazio, nel Del Principe e delle lettere più volte citati come
esempi di “letterati di principe […] che sempre temono che il lettore troppo senta quando
vien loro fatto di toccare altre passioni che l’amore.” (I, 3; ma cfr. almeno II, 3; II 6, II, 8,
III, 9; in Scritti politici e morali, cit., vol. I); ed è anche il caso del pur ammiratissimo Ariosto,
anch’egli a suo tempo inserito fra i poeti “maculati di corte” (ivi, II, 4). Su tutti comunque,
ancora una volta, il “Gallo Voltéro”, che, “immemore in ciò di se stesso, non arrossì di
sempre firmarsi [corsivo dell’Autore] Voltaire, gentiluomo di camera del re” (ivi, I, 11).
9
propri giorni.
18
Ecco dunque, questo è il suo mondo, quella
immaginaria repubblica delle lettere, che sfugge proprio in grazia
della sua sostanza al tempo e allo spazio, e i cui Cittadini
condividono almeno e soprattutto il “forte sentire”. Ora, se è
evidente che questo mondo non fa parte dell’effettualità delle cose
di tutti i giorni, parimenti sarà chiaro che i suoi princìpi (le sue
idee) non sono applicabili al di fuori di esso. È un rifugio, e non
funziona nella realtà proprio perché essa ha in sé l’antitesi di quel
mondo, vale a dire la mediocrità, antidoto più che sufficiente a
dissolvercelo immediatamente tra le mani. Gli eroi d’altra parte
realtà non sono, oppure se realtà divengono acquisiscono
immediatamente l’evidenza scolpita del marmo, con tutto quanto
di gelido e innaturale essa comporta. Tuttavia, proprio da questa
mancanza di appigli nel reale, potrebbe scaturire, come è difatti
effettivamente avvenuto, anche l’effetto opposto, cioè una
appropriazione-applicazione – quanto mai indebita! – delle idee
alfieriane sotto i più diversi vessilli ideologici: potenza
dell’indeterminatezza, si dirà, che fa sì che la teoria non-teoria
dell’astigiano sia buona per tutte le stagioni (e per nessuna, ça va
sans dire):
19
ecco allora Alfieri nelle vesti di augusto padre del
18
“Dall’anno 1807 in poi vegetare e pedantizzare sui classici”, si riprometteva l’autore negli
Annali (Vita, Giornali, Annali, cit., p. 255)
19
Pochi autori, dopo la propria morte, hanno conosciuto (o, per meglio dire, subìto), come è
capitato all’astigiano, una simile ‘mania di collocazione’: dall’Ottocento, e almeno fino a più
della metà del XX sec., è stato un procedimento costante quello di ‘tirare a sé’ Vittorio
Alfieri, tanto che, in effetti, una parte della critica alfieriana potrebbe a pieno titolo dirsi,
critica militante. Eppure, mettere in rilievo ora un aspetto, ora l’altro del pensiero di un
autore, oltre ad essere di per sé un procedimento limitativo e parziale, reo di deformare la
sostanza reale delle cose, può facilmente tramutarsi nel tentativo di trovare una sorta di
padre illustre delle proprie idee, che queste confermi e magari nobiliti. Volendo procedere
con un esempio, si vada a ritroso nel tempo, agli anni compresi fra il 1920 e il 1945, e si
ponga mente da una parte all’Alfieri icona del volontarismo, ridotto nella dottrina
semplicistica del “volere è potere”, tutta esclusivamente basata su quel suo malgrado
10
Risorgimento e in quelle di famigerato iniziatore del Nazionalismo;
furente Anarchico e bieco reazionario; teorico di un liberalismo
immanentistico e paladino della Rivoluzione; ardente repubblicano
ma anche spalleggiatore della monarchia costituzionale; Uomo
Nuovo e - aggiungiamo pure all’elenco costituitosi in quasi due
secoli di critica – socialista utopistico.
20
celebre motto “volli, e volli sempre e fortissimamente volli” – l’Alfieri, insomma, a misura
di fascismo (e il regime, d’altra parte, non si limiterà al salasso ideologico – fosse poi
quell’ideologia effettivamente ‘sua’ o meno – ricordandosi anche concretamente di lui, con
la fondazione, nel 1937, del Centro Nazionale di Studi Alfieriani, ad Asti); e dall’altra –
rovescio (ideologico) della medaglia – l’Alfieri “odiator de’ tiranni”, lettura attualizzata in
funzione del presente, vieppiù carica di valenze politiche proprio per chi, sull’altra sponda, il
regime combatte: Gobetti, Calosso, Debenedetti (per i primi due cfr. nota succ.; per G.
DEBENEDETTI si veda il volume Vocazione di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977,
raccolta di saggi risalenti al 1943 e al 1944, in cui Alfieri diviene un vero e proprio rifugio
ideale, una nourriture alla speranza libertaria)
20
L’immagine risorgimentale del Nostro è una fiamma alimentata da Vincenzo Gioberti,
(Studi filologici, 1867; Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, 1887), Giuseppe Mazzini
(Del dramma storico, 1830; ora rist. in Scritti letterari editi ed inediti, ed. naz., Imola, Galeati,
1906), e Carlo Cattaneo, oltreché da F. DE SANCTIS nella sua Storia della letteratura italiana
e in Teoria e storia della letteratura (opere entrambe rist. a cura di B. Croce, Bari, Laterza, risp.
1912 e 1926) e dal Carducci. Esaminano il nazionalismo alfieriano invece, i saggi di G.
MEGARO, Vittorio Alfieri, Forerunner of Italian Nationalism, NY, Columbia University Press,
1930; e A. PASSERIN D’ENTRÈVES, Il Patriottismo dell’Alfieri, in Dante politico e altri saggi,
Torino, Einaudi, 1955. L’anarchia, e, per contro, il conservatorismo sono indagati
rispettivamente da U. CALOSSO, L’anarchia di Vittorio Alfieri, Bari, Laterza, 1949
2
(1924
1
); e
N. SAPEGNO, Alfieri politico, cit. Una affermazione dei princìpi del liberalismo politico
nell’opera dell’Alfieri è scorta da P. GOBETTI, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, Pinerolo,
Pittavino, 1923 (rist. col titolo L’uomo Alfieri, Milano, Feltrinelli, 1950) e Risorgimento senza
eroi, Torino, Edizioni del Baretti, 1926 (entrambe le opere adesso in Opere complete di Piero
Gobetti, vol. II, Scritti storici, letterari e filosofici, Torino, Einaudi, 1991); mentre a porre in rilievo
l’accento rivoluzionario del suo pensiero è L. SALVATORELLI, in Il pensiero politico italiano
dal 1700 al 1870, Torino, Einaudi, 1959. Il passaggio da un giovanile radicalismo
repubblicano al vagheggiamento di una monarchia costituzionale è posto in luce nei lavori
di E. MASI, Il pensiero politico di Vittorio Alfieri, Ferrara, Barbèra, 1896, e G. MESTICA, La
politica nell’opera letteraria di Vittorio Alfieri, in V. A., Prose scelte, Milano, Hoepli, 1898
(propendendo il Masi per il secondo termine, e il Mestica per il primo); mentre di “uomo
nuovo” parla ancora F. DE SANCTIS, in Storia della letteratura italiana, cit. Per l’immagine di
un Alfieri repubblicano, tra l’altro, si cfr., a titolo di curiosità (citiamo da A. DI
BENEDETTO, La “Repubblica” di Vittorio Alfieri, cit.), un passo di un romanzo danese di
fine ottocento, incentrato sulla figura del nostro tragico: “…sono repubblicano. [a parlare è
proprio il personaggio Vittorio Alfieri] Desidero una repubblica oligarchica dove i geni
troneggino sulla sedia curule e dove un re come questo Luigi XV […] faccia il lustrascarpe
per gente come voi e come me” (S. SCHANDORPH, Poet og Junker, Poeta e giovin signore,
Odense, Odense University Press, 1991, p. 8).
11
“Infami al par dei vincitori i vinti”: nonostante il verso appartenga
alla sua produzione più tarda,
21
potremmo bene prenderlo come
paradigma dell’atteggiamento del nostro autore verso i suoi tempi
e, in senso più largo, verso la realtà tutta. Aggiungiamo, con Walter
Binni, il suo “senso doloroso della realtà, sempre inferiore
all’Ideale”,
22
e allora ci appariranno perfettamente consequenziari
protesta assoluta, radicalismo eversivo (nella totale mancanza di
senso storico)
23
e rigetto dell’esistente in nome di niente di
concreto – nemmeno, a ben vedere, di una qualche utopia. No, se
c’è qualcosa di cui si può esser certi, questo è che l’Alfieri non
aveva la stoffa del trattatista politico: in lui mancano sfumature
sottili e mezze misure; in lui non esiste quell’equilibrio né quella
freddezza, necessari a chi tratta la storia, e indispensabili a chi nella
storia voglia giocare un qualsiasi ruolo, magari attraverso la
politica; in lui, finalmente, non c’è neanche il minimo tentativo di
analisi, e non c’è per il semplice fatto che tutto quello che ‘è’ non è
considerato neppure per un momento come un elemento
suscettibile di cambiamento (cambiamento pacifico, per via magari
di quel riformismo illuminato tanto in voga nel XVIII sec.; oppure
violento – sommosse, rivolte, rivoluzioni), ma come qualcosa da
far esplodere nella maniera più violenta possibile, persino in modo
che dopo non si possano rimettere insieme i resti. Alfieri è ancora
più in là del radicalismo rivoluzionario perché non la realtà, ma
21
Il Misogallo, son. XLII, 14; in Scritti politici e morali, cit., vol. III.
22
W. BINNI, Alfieri cit. p. 858. E aggiungiamovi, inoltre, il tedio del sensista insoddisfatto
che, se è una costante del Nostro fino almeno dai Giornali, bene è rappresentato nel sonetto
Cose omai viste, e a sazietà riviste (XXIX, II parte, in Rime, cit.).
23
Ricorrente reprimenda inflitta all’Alfieri teorico-politico: ma sarebbe forse meglio dire
“mancanza di ‘buon senso’ storico?”.
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l’Ideale – o, se vogliamo, la sua produzione tragica – è il suo
mondo, e perché la sua penna non è, né potrà mai essere, dato il
suo temperamento, la penna misurata del saggista politico, ma
quella abnorme del poeta “che il furor natio sforza a dir carmi a
Verità divoti”
24
, poeta – si badi – perché mosso da “impulso
naturale”,
25
e che tale resta anche nei suoi tentativi saggistici. Ma si
lasci ormai, a chiarire una volta per tutte la questione, la parola al
testimone più autorevole, vale a dire l’autore stesso, il quale, in uno
“sfogo amichevole”, a “cuore sviscerato”, spiegava all’amico abate
Tommaso Valperga di Caluso l’origine di quei suoi lavori in tali
termini:
Il motore di codesti libri fu l’impeto di gioventù, l’odio
dell’oppressione, l’amor del vero, o di quello ch’io
credeva tale. Lo scopo, fu la gloria a dire il Vero, di
dirlo con forza e novità, di dirlo credendo giovare. Il
raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto,
e quanto più v’ho pensato dopo, tanto più sempre mi è
sembrato verace, e fondato; e interrogato su tali punti
tornerei sempre a dire lo stesso, ovvero tacerei. Ma per
tutto questo, si dovea egli fare, né stampare, né
pubblicare mai cotali scritti? Io primo dico di no;
biasimo chi l’ha fatto; ne lodo la proscrizione e la
persecuzione sì del libro che dell’autore […] Non
potete credere quanto io sia dolente della pubblicazione
di codeste opere, fatta in tal paese, ed in tali circostanze.
Darei dieci anni di vita perché ciò non fosse seguito.
26
24
Poeta, è nome che diverso suona (XVI, II parte), in Rime, cit.
25
Si veda la fortunata definizione data al proposito nel trattato Del principe e delle lettere: “È
questo impulso, un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace né loco; una
sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi,
senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di
esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla”, (III, 6), in Scritti politici e morali, cit., vol. I
26
La lettera è del gennaio 1802 ed è riportata (n. 416) nell’Epistolario, III vol., a cura di L.
Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1989. L’occasione che la origina è una missiva dell’anno
precedente, a tutt’oggi perduta, del Caluso, il quale, a seguito della ristampa (non
autorizzata) in quattro voll., delle opere politiche fatta dal libraio Giovanni Claudio Molini
(Opere varie filosofico-politiche, in prosa e in versi, di Vittorio Alfieri da Asti, Parigi, 1800-01),
chiedeva spiegazioni all’amico sui libri (la Tirannide e il Principe, i soli compresi in quella
edizione, a cui l’autore non aveva dato pubblica diffusione), finora a lui sconosciuti.
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Dove potremmo cogliere, tra le molte altre cose, il disappunto
dell’autore nel vedere alcune produzioni del suo Io distorte e
piegate ad un uso ‘contro natura’, destinate ad un fine diverso da
quello per cui erano nate; sommamente dolente, soprattutto, che
tali suoi lavori possano essere la pietra angolare di un nuovo
ordine, il serbatoio di ideali cui potrebbe attingere quella ‘tirannia
dei molti’ (si giudichi a che punto può arrivare il fraintendimento
di un libro!) che sembra sempre più affermarsi.
27
Ancor più illuminante, almeno per ciò che concerne lo stato
d’animo che s’impadronisce dell’autore accompagnandolo nella
“ideazione” e nella “prima stesura” (ci sia consentito di usufruire
degli stessi termini, i cosiddetti “tre respiri”, che solitamente
caratterizzano l’elaborazione delle tragedie – qui mancando
ovviamente il terzo ed ultimo, la “verseggiatura”) della Tirannide, è
un brano della Vita:
…invasato di quel suo dire originalissimo e sugoso, [di
Niccolò Machiavelli] di lì a pochi giorni mi sentii
costretto a lasciare ogni altro studio, e come inspirato e
sforzato a scrivere d’un sol fiato i due libri della
Tirannide; quasi per l’appunto quali poi molti anni
appresso gli stampai. Fu quello uno sfogo di un animo
ridondante e piagato fin dall’infanzia dalle saette
dell’aborrita e universale oppressione. Se in età più
matura io avessi dovuto trattar di nuovo un tal tema,
27
Non è un caso, a nostro avviso, se il rammarico maggiore riguarda proprio pubblicazione e
divulgazione (“Ma […] si dovea egli fare, né stampare, né pubblicare mai cotali scritti?”):
che è dire, forse, paventare la possibilità di veder applicati nella realtà, e, quel ch’è peggio,
dalla moltitudine, certi principi che il superuomo Alfieri aveva eletto come prerogativa
essenziale del proprio animo, e di quello dei propri eroi. Né inoltre è da trascurare che
l’edizione Molini citata sia pubblicata e circoli proprio in Francia; cosa, sicuramente, non
secondaria per importanza agli occhi del “misogallo” Alfieri: se diventare l’ideologo
(proprio malgrado) del popolo era già di per sé aberrante rispetto alle proprie idee, poterlo
essere addirittura della “Nazion Gallina”, del “servil gregge malnato” (secondo il furore
onomaturgico del Misogallo), doveva sembrargli per certo un insopportabile doppio smacco.
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l’avrei forse trattato alquanto più dottamente,
corroborando l’opinione mia colla storia. Ma nello
stamparlo non ho però voluto, col gelo degli anni e la
pedanteria del mio poco sapere, indebolire in quel libro
la fiamma di gioventù e di nobile e giusto sdegno, che
ad ogni pagina d’esso mi parve avvampare, senza
scompagnarsi da un certo vero e incalzante raziocinio
che mi vi par dominare. Che se poi vi ho scorti degli
sbagli, o delle amplificazioni, come figli d’inesperienza e
non mai di mal animo, ce li ho voluti lasciare. Nessun
fine secondo, nessuna privata vendetta mi ispirò quello
scritto. Forse ch’io avrò o male, o falsamente sentito,
ovvero con troppa passione. Ma e quando mai la
passione pel vero e pel retto fu troppa, allorché
massimamente si tratta di immedesimarla in altrui? Non
ho detto che quanto ho sentito, e forse meno che più.
Ed in quella bollente età il giudicare e raziocinare non
eran fors’altro che un puro e generoso sentire.
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“Sfogo”, “fiamma di gioventù”, “puro e generoso sentire”: da
cima a fondo tale pagina è il resoconto di un’ubriacatura da
soverchia passione, la testimonianza di un “bollore di cuore” più
che di mente, che dovrebbe di per sé solo garantire da errori di
concetto, da eventuali contraddizioni interne e dai limiti della
propria dottrina.
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Un modo, anche, per mostrare la propria buona
fede: un autore giovane, di scarsa dottrina, ma grandi passioni, che
è come sforzato a scrivere dall’entusiasmo, e tutto travolge con la
sua furia libertaria. È evidente, ci pare, che dati simili presupposti,
non avremo mai una capziosa analisi della società in qualsiasi suo
aspetto, ma solo lo “sfogo – appunto – di un animo ridondante”,
28
Vita, cit., IV, iv.
29
Il principio potrebbe essere questo: non importa sapere, basta sentire. Una specie di elogio
dell’ignoranza a cui non fu estraneo l’autore e, tra l’altro, certo preromanticismo. Si noti al
proposito, nella pagina della Vita appena citata, addirittura come per l’Alfieri una maggiore
dottrina comporti, automaticamente quasi, una specie di indebolimento della passione, e
quindi quello, conseguente, del libro. “Si manifestino tutti i limiti del proprio sapere, si
facciano tutti gli sbagli che si vuole – pare dirci insomma l’autore – purché a metterci al
riparo da ogni accusa ci siano la passione, e il forte sentire.” Passione, dunque, (ci sia
consentito il gioco di parole) come ‘spassionata’ e generosa bontà d’intenti che niente vale a
incrinare; corazza e al tempo stesso antitesi della falsità e dell’adulazione.
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che anche se ci dice di scrivere, analizzare e magari criticare ciò
che vede all’esterno, in realtà scrive, analizza e critica il suo Io.
L’individualismo dell’Alfieri è sempre attivo, stia egli analizzando
la società, ovvero se stesso, ovvero stia facendo dialogare eroi e
tiranni: ‘politica’, ‘morale’, ‘poesia’; il tutto costantemente ridotto –
o, per meglio dire, ampliato – a misura dell’Io.