Introduzione
perchè eccedenti la "quota consentita" pro-capite ammessa dalla
legislazione razziale o ancora studi l'attribuzione di pensioni e vitalizi agli
ex perseguitati razziali. Contribuisce poi a rendere più evidente l'esigenza
di un approfondimento riguardo all'applicazione della normativa
restitutoria, il contrasto profondo, che non si può fare a meno di cogliere,
tra la memorialistica e certe posizioni politico-istituzionali, assunte anche
di recente, proprio sul ruolo dello Stato e delle istituzioni in merito alla
problematica del ritorno dei sopravvissuti ed ancor più sul loro
reinserimento nella vita civile. "Essere sopravvissuti è una fortuna che ha
un prezzo alto"
1
: questo è un pò il leitmotiv che percorre tutti i racconti di
chi è tornato dal Lager. In essi sembra prevalere l'idea di una precarietà
che non ha rimedio e che lo Stato non ha contribuito a far superare:
"Aiuterebbe a superarla un quadro di vita e di lavoro sereno e garantito,
dove chi è stato tanto a lungo schiacciato dall'ambiente torni a sperimentare la
possibilità di controllarlo in modo positivo. Ma per la maggioranza dei
sopravvissuti avviene proprio il contrario: disoccupazione o condizioni di lavoro
durissime, una repressione antipartigiana e antioperaia ricordata con amarezza
proporzionale al sacrificio patito; una vita soffocata dalle preoccupazioni
materiali, un'assistenza praticamente inesistente per malattie che durano anni, il
risarcimento sempre rimandato; mentre si vedono vecchi fascisti fare carriera, e
l'ingiustizia restare quella di prima"
2
.
Dalle testimonianze emerge come dato costante di sottofondo, la
precaria e improvvisata accoglienza per tutti i sopravvissuti, sostenuta più
dall'iniziativa dei singoli e dalle istituzioni religiose che dalle autorità
pubbliche. Eppure, forse più di tali carenze di fronte alle necessità
minime, ha pesato il pretendere dai sopravvissuti un "reinserimento
rapido e socialmente indolore"
3
, privo di comportamenti conflittuali.
L'incapacità della collettività di comunicare con chi era tornato
dall'esperienza del Lager ha costituito il fattore che più ha pesato sulle
possibilità di una loro riaggregazione. La chiave di lettura principale
attraverso la quale il sopravvissuto si sarebbe posto in relazione col
mondo esterno, con la famiglia, il lavoro e l'ambiente in genere,
all'indomani del suo ritorno, sarebbe divenuta la deportazione. Nella
società italiana del dopoguerra invece quella chiave di lettura mancò
1
A. BRAVO D. JALLA, La vita offesa, Milano, F. Angeli, 1992, p. 352.
2
Ibid, p. 352.
3
Ibid, p. 351.
6
Introduzione
sostanzialmente sia da parte della comunità sia delle istituzioni
4
:
nell'impossibilità di trovare una qualsiasi giustificazione logica al Lager e
allo sterminio pur nel contesto crudele della guerra, si è preferito non
affrontare quella realtà inspiegabile, rimuovendola dalla coscienza
collettiva o relegandola come un'esperienza traumatica appartenente al
passato e per questo da dimenticare.
Ma ancor di più, non si è capito che l'esperienza della deportazione
non si sarebbe esaurita col ritorno, un ritorno dunque che sarebbe potuto
durare tutto il resto della vita e terminare solo con la morte; in definitiva
non si è capito che un reinserimento vero e proprio non si sarebbe mai
verificato
5
. L'unica cosa possibile era la ricostruzione di un'altra vita: essa,
in quanto sintesi tra quella precedente e l'esperienza del Lager, non
sarebbe più stata quella di prima, nonostante gli affetti ritrovati, la ripresa
del lavoro e una dignità ricostituita. Ma anche per coloro che avessero
riconquistato tutto questo, che fossero riusciti a non chiudersi dentro sé
stessi e ad intraprendere, dopo molto tempo, il cammino della
testimonianza, intesa come impegno civile, come riconoscimento
dell'esperienza del Lager nel suo valore di lezione per le generazioni
successive, non vi sarebbe stato il superamento della propria condizione
di sospensione, di "alterità rispetto alla società (...). Sarebbe un errore
vedere nella scelta di testimoniare il superamento della condizione di
sospensione (..). L'ex deportato non è armonizzato con la società, il suo è
per lo più un rapporto conflittuale dove esiste un conto che non è mai stato
saldato. L'accoglienza non può essere retroattiva o, meglio, come i diritti
negati, lascia un segno indelebile"
6
.
"Al ritorno - racconta un testimone - non ci ha aiutato nessuno; per il
deportato o per il militare, che si sono fatti sette o otto anni di guerra non c'è
stato nulla. Poi, nei concorsi, quando si sono degnati di mettere delle
agevolazioni di punteggio per noi, sentire dire: <<oh, ma ci son sempre questi qui
tra i piedi!>>, così. Sentire solo dire:<<ma non parliamone più!>>.
Insomma, abbiamo trovato un egoismo feroce, incredibile, solo dopo
vent'anni è uscito fuori qualcosa di diverso. Allora, niente. Chi aveva avuto una
certa parte nel fascismo ha avuto posti di comando, hanno fatto quella cosa
ridicola che è stata l'epurazione, ridicola perchè quelli che dovevano veramente
4
B. MAIDA, Dopo <<la tregua>>: gli ex deportati nella società italiana del
dopoguerra, in A. Cavaglion, (a cura di), Il ritorno dai Lager, A.N.E.D., Milano, F.
Angeli, 1993, p. 190.
5
Ibid, p. 190.
6
Ibid, pp. 192 - 198.
7
Introduzione
essere epurati... hanno lasciato passare un anno, ... poi tutto come prima. Lei
andava in Provveditorato, trovava la gente che c'era prima! E a me è andata
ancora bene. Ma io so di compagni che ci hanno rimesso la pelle qui, perchè non
avevano da mangiare! Compagni che sono finiti al sanatorio, compagni che sono
finiti in manicomio! Compagni che, dalla disperazione, si sono dati al bere!
Perchè dopo quello che hanno passato prima, tornare e trovarsi così...
Io mi ricordo un compagno che mi ha detto: << ne ho fatta della fame a
Dachau! Ebbene, ne ho fatta altrettanta qui, nessuno mi dava niente>>. Per molti
non c'è stato solo il prima, che era già abbastanza, ma anche il dopo.
Adesso, noi siamo vecchi, l'avremo questo vitalizio*? Forse sì. Ma quelli
che ne avevano bisogno, un bisogno grande, non hanno avuto niente! Tanti
erano sottoproletari là, e sono rimasti sottoproletari anche al ritorno in patria"
7
.
La negazione di un diritto, alla propria specificità, alla casa, al lavoro,
alla propria esistenza, è un torto che non si supera mai, che non può
essere superato. Per questo stridono ancora di più i toni autocompiaciuti
che da molte parti sono stati adottati nel giudicare l'azione della
Repubblica riguardo alla rimozione delle disposizioni razziali e
all'emanazione di quelle riparatorie: "La nostra Repubblica (...) oggi ha
saldato per intero il proprio debito con gli ebrei"
8
: così si espresse in modo
inequivocabile l'allora Presidente del Senato, Giovanni Spadolini in
occasione del cinquantenario dalle leggi razziali del '38 parlando
dell'operato dello Stato italiano dal 1943 al 1988. Tale affermazione,
esprimeva una visione ottimistica della realtà, mentre invece essa è tutta
da verificare anche solo perchè non è sostenuta da studi e ricerche sulle
ragioni di fondo che portarono alla emanazione delle leggi restitutorie e
sulla loro effettiva interpretazione e applicazione.
Nel quadro della problematica a cui si è appena accennato, la
presente ricerca è un tentativo di apportare nuovi elementi di conoscenza
e valutazione sull'operato dello Stato a partire dall'analisi di un'iniziativa
legislativa specifica, che, per il suo contenuto ed il momento storico in cui
venne adottata, è stata ritenuta particolarmente significativa: si tratta della
legge Terracini n. 96 del 10 marzo 1955. Essa voleva essere non già un
semplice provvedimento di reintegrazione o di restituzione dei diritti, ma
piuttosto un vero e proprio risarcimento - un assegno vitalizio - a favore
anche dei perseguitati razziali; a quella iniziativa, si sarebbero poi
richiamate anche numerose disposizioni successive costituenti
7
A. BRAVO D. JALLA, La vita offesa, cit, pp. 366 - 67.
8
M. TOSCANO, L'abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943-1987), Roma,
Senato della Repubblica, 1988, p. 16.
8
Introduzione
nell'assieme un "corpus juris estremamente complesso" destinato ad
ampliarsi e ad affinarsi sino ai giorni nostri"
9
. Inoltre, l'approvazione di quel
disegno di legge, segnava la ripresa dell'attività legislativa riparatrice che,
iniziata nel '43 con le disposizioni emanate dal Regno del Sud, si era poi
notevolmente diluita in concomitanza con la svolta centrista del '48. Per
tutte queste ragioni la legge Terracini ha rappresentato agli occhi di coloro
che si sono dedicati sinora allo studio della legislazione riparatrice sia in
ambito giuridico che storico, il senso di una "svolta" significativa: in essa
hanno riconosciuto, o hanno voluto riconoscere, un ruolo nuovo dello
Stato, interessato non soltanto a ripristinare la propria matrice liberale
gravemente violata dalle leggi razziali, bensì ad attuare il reinserimento
degli ebrei nella società civile del dopoguerra, attraverso una più evoluta
valutazione politica delle sofferenze inflitte loro e dei mezzi adeguati per
superarle. Ricostruire, dunque, il percorso della legge, dalla sua ideazione
alla sua approvazione in Parlamento, approfondirne il campo di
applicazione a distanza di anni dalla fine della guerra è sembrato uno
strumento valido per mettere alla prova proprio quelle valutazioni, per
verificare cioè il valore effettivo dell'azione dello Stato di fronte ai problemi
dei perseguitati razziali.
In effetti quel lavoro di ricostruzione, di cui le pagine che seguono
daranno ampiamente conto, ha prodotto risultati inaspettati, smentendo
non solo chi vorrebbe considerare la legislazione riparatoria come il
semplice "pagamento di un debito", ma riportando alla luce un
provvedimento legislativo, complementare alla legge Terracini, teso a
concedere un risarcimento a favore di chi era stato dalla parte dei
persecutori della Repubblica di Salò, la cui importanza era ed è tale da
non poter essere ulteriormente tralasciato o dimenticato. Il contenuto di
quel provvedimento e le decisioni politiche che portarono alla sua
approvazione, delineano in una forma del tutto inedita il contesto storico,
politico e sociale nel quale la legge Terracini venne approvata, e ne
modificano sostanzialmente la rilevanza che, sino ad oggi, le è stata
attribuita in favore dei perseguitati razziali.
Il primo capitolo di questo lavoro, basato sulla letteratura prodotta
sinora sul tema, verrà dunque dedicato alla politica razziale del regime
9
G. FUBINI, La condizione giuridica dell'ebraismo italiano, Firenze, La Nuova
Italia, 1974, p. 79.
9
Introduzione
fascista, al censimento del 22 agosto del '38 ed ai singoli provvedimenti
legislativi via via pubblicati sulla Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia e sulla
Gazzetta ufficiale d'Italia.
Per la legislazione abrogativa e riparatoria, che verrà presa in
esame subito dopo, gli studi svolti sino ad oggi sono molto più limitati. A
parte una raccolta dei vari provvedimenti non esiste praticamente null'altro
cui rifarsi. Per nessuna delle problematiche interessate dalle leggi razziali -
proprietà, istruzione, lavoro professionale, pensioni ecc. - sono disponibili
studi che possano ritenersi esaurienti. Si può rintracciare qua e là solo
qualche cenno a sentenze di Tribunale di diverso grado in materia di
azioni di annullamento e di rescissione intraprese subito dopo la guerra
dagli ebrei per i trasferimenti di proprietà stipulati durante il periodo
persecutorio.
Per questa ragione, il processo di formazione sia della legge
Terracini che dell'altro provvedimento a favore degli ex combattenti della
Repubblica sociale italiana - oggetto del secondo, terzo, quarto e quinto
capitolo - è stato ricostruito attingendo a fonti di prima mano.
Per la definizione delle circostanze che portarono alla presentazione
dell' "iniziativa Terracini", si è fatto riferimento sia alla testimonianza
registrata, in data 5 - 6 - 7 marzo 1996, del Segretario Generale
dell'Associazione nazionale perseguitati politici e razziali (A.N.P.P.I.A.) di
Roma, sia al mensile dell'Associazione "L'antifascista" conservato presso
gli archivi della sede.
Analogo procedimento è stato seguito per l'iniziativa a favore degli
"ex combattenti della Repubblica sociale italiana": presso l'archivio
dell'Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra di Roma è stato
consultato "il bollettino", suo organo mensile.
Per ricostruire invece il percorso dei due provvedimenti in ambito
istituzionale, vale a dire il testo originario dei disegni di legge così come fu
redatto dai proponenti, le modifiche apportate via via nel corso del
dibattito parlamentare che portò alla loro approvazione ed il ruolo che
maggioranza e opposizione ricoprirono in quel contesto le fonti utilizzate
sono state:
- la raccolta Atti interni del Senato della I e II Legislatura,
contenente il testo integrale di entrambi i disegni di legge redatti dai
10
Introduzione
proponenti e la relativa relazione di presentazione al Senato da loro
sottoscritta;
- i Resoconti delle sedute della 1a Commissione permanente, del
Senato, II Legislatura, per le sedute relative solo al disegno di legge
Terracini;
- gli Atti Parlamentari, Resoconti delle discussioni, Senato della
Repubblica, I e II Legislatura, per tutte le sedute che hanno portato
all'approvazione sia del disegno di legge Terracini sia di quello a favore
degli ex combattenti della Repubblica sociale italiana.
Una volta analizzati gli itinerari di approvazione dei due
provvedimenti, il sesto capitolo della tesi sarà dedicato ad alcune
riflessioni sul contenuto della legge Terracini, alle sue successive
modificazioni, ma anche ad un confronto con la legge a favore degli ex
combattenti di Salò. Infine - sempre nel capitolo sesto - sulla base di
documenti conservati presso l'Archivio Terracini di Acqui, relativi al
carteggio "Terracini-A.N.P.P.I.A.", si ricostruiranno le emblematiche
vicende di tre perseguitati razziali al fine di verificare in concreto le
modalità di applicazione delle leggi in questione.
11
CAPITOLO PRIMO
DALLA NEGAZIONE ALLA RESTITUZIONE DEI DIRITTI
1.1 Le leggi razziali.
"La guerra, si sa, è dura per tutti, per gli ebrei, in questo periodo sfortunato,
un pò più che per gli altri, (...) ma da lì a credere alle deportazioni, ai massacri,
ne corre. Dopotutto non si è più nel Medioevo, si è ormai nel XX secolo... e certe
cose non possono più accadere..."
10
.
Sono parole tratte dalla testimonianza di un ebreo cuneese, Isacco
Levi di Saluzzo, sfuggito alla deportazione perchè unitosi ai primi nuclei
partigiani garibaldini che si stavano organizzando in val Varaita. I suoi
familiari, invece, tredici persone tra madre, fratello, sorella, nonna, zii e
zie, vennero tutti deportati ed uccisi ad Auschwitz. La sua testimonianza
si riferisce a quando, nel giugno 1942, anche a Saluzzo cominciarono ad
arrivare i profughi in domicilio coatto e tutti gli ebrei saluzzesi si
mobilitarono per procurare gli aiuti necessari a quei correligionari che
dovevano affrontare le difficoltà della vita quotidiana in un paese straniero.
Nonostante le differenze di nazionalità, tra i due gruppi si instaurò una
buona comunicazione, grazie anche al fatto che molti croati parlavano
correttamente l'italiano. Ma i racconti dei profughi arrivati con pochi
oggetti personali raccolti in fretta, le loro descrizioni apocalittiche di quanto
stava accadendo agli ebrei nei Paesi dell'Europa Orientale e in Jugoslavia
vennero accolti dai correligionari italiani come il delirio, di chi, persa la
casa e la patria, di fronte alla propria desolazione perde la lucidità e la
10
A. MUNCINELLI, Even, Pietruzza della memoria, Ebrei 1938-1945, Torino, Ed.
Gruppo Abele, 1994, p. 136.
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
giusta misura delle cose; per questo vennero anche presto accantonati
con un sorriso caritatevole. Ciò che Isacco Levi intende affermare nella
sua testimonianza è che la forte sottovalutazione della minaccia
incombente, fu uno dei fattori che contribuì a rendere più tragico il bilancio
della persecuzione antiebraica in Italia.
Per come era stata condotta la campagna razziale dal regime, non vi
erano elementi che potessero far presagire risvolti così tragici nei
confronti degli ebrei italiani. La politica antisemita dell'Italia, fino al '43 non
aveva mai contemplato "soluzioni sterminazioniste"
11
, ma aveva mirato
invece ad attuare l'esclusione degli ebrei da tutti i settori chiave della vita
pubblica - dall'istruzione all'economia, alla Pubblica amministrazione civile
e militare, al Partito fascista - nonchè a porre gravi limitazioni della libertà
personale, anche nella sfera privata.
La campagna razziale venne avviata da Mussolini nel '38, ma la
storiografia recente ha dimostrato come il dittatore avesse nutrito chiari
propositi di intraprenderla
12
già nel '36 e '37. Essa era il frutto di una
complessa elaborazione, fatta di tentativi e di aggiustamenti tesi ad
adeguare le motivazioni e gli strumenti della persecuzione alle specifiche
caratteristiche del Paese. Occorreva, in primo luogo, non contraddire ma
amplificare le forme in cui si era tradizionalmente espresso l'antisemitismo
della Chiesa, per indurre le gerarchie ecclesiastiche se non alla
sostanziale complicità, almeno al silenzio. Di conseguenza il regime non
lasciò che il proprio antisemitismo si impregnasse di esaltazioni di natura
biologica sulla scia di quello tedesco; ciò non impedì, però, che
un'iniziativa come il "Manifesto degli scienziati razzisti"
13
trovasse ampio
spazio e consenso ai vertici dello Stato. Nel "manifesto", pubblicato a
luglio, si esortavano gli italiani a proclamarsi "francamente razzisti". Si
trattava certo di propaganda di regime e non di progresso della scienza,
ma anche il proclama degli pseudoscienziati rientrava nella politica
mussoliniana e servì ad "inoculare" antisemitismo e a mettere in moto un
apparato che rispose con immediata prontezza a tutti i livelli. Circolari,
11
L. PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria, Milano, Mursia, 1991, p. 793.
12
F. LEVI, Riflessioni su istituzioni e società di fronte alle leggi antiebraiche, in
"Rassegna mensile di Israel", Roma, ed. Unione Comunità Israelitiche
Italiane,1993 vol. LX, p. 85.
13
R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1988,
pp. 555-56.
13
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
provvedimenti e istituti, come la Direzione generale della demografia e
della razza (Demorazza) vennero messi a punto con sorprendente
efficienza affinchè vigilassero "sull'antica purezza di sangue" del popolo
italiano. Come afferma il "manifesto":
"Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo.
Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di
razza"
14
.
In quella prima fase, il fascismo sostenne di voler elevare il popolo
italiano ad una superiore coscienza di sè stesso. Continuatori di quel
carattere "puramente europeo e portatori della millenaria civiltà degli
ariani"
15
gli italiani erano da custodire al riparo da incroci e ibridismi
degeneranti.
"Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Gli ebrei rappresentano
l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perchè essa è costituita
da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che
hanno dato origine agli italiani"
16
.
Per il fascismo si trattava di negare l'identità e l'appartenenza
secolare degli ebrei alla penisola, il loro desiderio di integrazione e di
nazionalità, la cui massima espressione si era avuta con l'attiva
partecipazione al Risorgimento italiano e alla Prima guerra mondiale.
Contrariamente a quello che il regime sosteneva gli ebrei si erano invece
profondamente radicati nel tessuto sociale italiano: i matrimoni misti, le
conversioni al cattolicesimo, l'abbandono della lingua e delle tradizioni dei
padri, lo sviluppo borghese, avevano contribuito a mettere in moto un
processo di assimilazione così fluido e, in molti casi, così inconsapevole
che solo la catastrofe nazi-fascista avrebbe potuto interromperlo.
Come elemento "portatore d'infezione" gli ebrei dovevano dunque
essere individuati, contati, schedati e separati dal resto della popolazione,
attraverso l'adozione di misure discriminatorie le cui linee essenziali
vennero decise ancor prima di accertare la consistenza del gruppo
ebraico. Il censimento del 22 agosto del '38 deciso dai vertici del regime,
secondo la versione ufficiale, aveva come scopo principale proprio quello
di definire il numero degli ebrei. In realtà esso costituiva la premessa di un
14
Ibid, p. 556.
15
Ibid, p. 556.
16
Ibid, p. 556.
14
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
progetto più vasto tendente a rendere coerente e sistematica
l'applicazione delle leggi razziali, che di lì a poco sarebbero state emanate,
fornendo tutta una serie di informazioni utili alla politica antisemita. Il
Ministero degli interni, pertanto, diede disposizioni affinchè tutta
l'operazione non apparisse dissimile, verso l'esterno, da una normale
rilevazione della popolazione, come quella generale che si era svolta
poco tempo prima nel '36, onde evitare "inutili" allarmismi. All'interno
dell'apparato, invece, il censimento doveva considerarsi un'iniziativa
"eminentemente politica" e come tale andava gestita all'insegna della
massima segretezza da parte di personale altamente specializzato e
fidato. Il sottosegretario all'interno, Buffarini Guidi, già dalla prima metà di
agosto, aveva trasmesso circolari, personali e riservate, a tutti i prefetti
affinchè convocassero i podestà ai quali dare verbali istruzioni su come
procedere col censimento. Tutti gli ebrei residenti, anche
temporaneamente, sul territorio nazionale, professanti la religione ebraica
o nessuna religione, dovevano essere schedati.
17
Ma com'era definibile un ebreo? Fino all'emanazione dei
Provvedimenti per la difesa della razza italiana - Regio decreto legge
n.1728 del 17 novembre 1938 - non si era avuta una normativa specifica
che individuasse con precisione gli appartenenti alla "razza ebraica". Gli
ideatori del censimento avevano deciso che gli elenchi, in base ai quali
sarebbero poi state distribuite le schede, avrebbero dovuto essere stilati
prendendo in considerazione alla stessa stregua:
"gli iscritti alle Comunità israelitiche, gli ebrei residenti temporaneamente in
città, gli israeliti tali anche se professanti altra o nessuna religione, gli ebrei decisi
ad abiurare <<in qualsiasi epoca>> e ancora gli ebrei avvicinatisi ad altra
religione attraverso il matrimonio. Doveva insomma <<considerarsi di razza
ebrea colui che discende(va) anche da un solo genitore ebreo>>"
18
.
Si era operato insomma facendo sì che il concetto di razza
prescindesse del tutto da quello di religione. La rilevazione censitaria, che
nei propositi avrebbe dovuto essere condotta con la "massima precisione",
era stata portata avanti, in realtà, con ampia approssimazione. La
procedura di individuazione, secondo il criterio del cognome, infatti,
seguita dagli uffici anagrafici, non potè poi non rivelarsi oltremodo
17
F. LEVI, L'ebreo in oggetto, Torino, Zamorani, 1991, pp. 15-21.
18
Ibid, p. 21.
15
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
imprecisa, in quanto aveva rese sospette di ebraismo un'infinità di persone
dal cognome ritenuto insolito rispetto al luogo di residenza o di origine.
Gli ebrei dal canto loro, nonostante il clima di diffidenza che li
circondava, si erano sottoposti diligentemente alla rilevazione, perchè
rassicurati dall'atteggiamento del regime, da una situazione di relativa
tranquillità, non certo paragonabile a quella degli ebrei di Germania e
dell'Est europeo, ma nello stesso tempo costretti a rispondere con
esattezza a tutti i quesiti posti dalla scheda da precise sanzioni. Nella
scheda essi avevano dovuto dichiarare, oltre a tutti i dati anagrafici -
compresa paternità e maternità, stato civile, luogo e data di matrimonio,
professione o condizione ecc. - la propria eventuale appartenenza alla
"razza ebraica" o il grado di parentela o affinità con componenti della
famiglia, appartenenti o appartenuti alla "razza ebraica". Gli ebrei
dovevano, inoltre, dare informazioni sulla loro nazionalità, sulla religione
professata, sulle benemerenze acquisite e sull'iscrizione al Partito
fascista. Insomma si trattava di una vera e propria schedatura, che si
sarebbe rivelata preziosissima per la successiva normativa antiebraica.
19
Dal censimento risultarono presenti in Italia, nell'agosto del '38,
"58.412 individui di <<razza ebraica>>, dei quali 11.756 convertiti ad altre
religioni o figli non ebrei di matrimonio misto. I professanti la religione
ebraica erano dunque 46.656, tra ebrei italiani e stranieri"
20
.
Quando nel settembre del '38 il regime emanò i primi provvedimenti
discriminatori, il "terreno" era dunque stato adeguatamente preparato.
Tutta l'operazione del censimento era stata infatti preceduta e
accompagnata da una crescente campagna denigratoria contro gli ebrei
alimentata dalla stampa. La propaganda, che pure aveva cercato di non
suscitare allarmismi eccessivi, era stata concepita nell'intento di indurre la
popolazione "ariana", storicamente poco portata all'antisemitismo, a
prendere le distanze il più possibile dagli ebrei e ad accogliere
l'introduzione della normativa razziale con la stessa acquiescenza
dimostrata ormai da tempo al regime.
Nel solo mese di settembre vennero emanati a tamburo battente
cinque regi decreti-legge, tre dei quali contenevano divieti, interdizioni e
19
Ibid, pp. 22-23.
20
L. PICCIOTTO FARGION, Gli ebrei di Torino deportati, in F. LEVI, L'ebreo in
oggetto, cit., p. 162.
16
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
disposizioni di estrema gravità; gli altri due invece contenevano
disposizioni di carattere amministrativo. Il primo provvedimento adottato fu
nei confronti degli ebrei stranieri - Regio decreto legge n. 1381 del 7
settembre 1938 -. Ai soli effetti del decreto era da considerarsi ebreo
"colui che (fosse) nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se
professa(ante) una religione diversa da quella ebraica".
21
Il decreto
disponeva la revoca della cittadinanza a coloro che l'avessero ottenuta
dopo il 1° gennaio del 1919 ed inoltre, coloro che avessero iniziato a
soggiornare nel territorio del Regno - possedimenti compresi - avrebbero
dovuto, a decorrere dalla medesima data, lasciarlo entro sei mesi, pena
l'espulsione.
I provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista - Regio
decreto legge n. 1390 del 5 settembre 1938 - davano la stessa definizione
di ebreo del regio decreto precedente e prevedevano, dal 16 ottobre del
'38, la sospensione degli insegnanti e dei docenti universitari di "razza
ebraica", dalle università, dalle scuole statali o parastatali di qualsiasi
ordine e grado; anche i presidi, i direttori e tutto il personale di vigilanza
erano sospesi dal servizio. Stessa sorte toccava ai liberi docenti e ai
membri delle Accademie scientifiche, letterarie ed artistiche. Gli alunni e
gli studenti, ritenuti di "razza ebraica", non erano più ammessi, a decorrere
dalla stessa data, alla frequenza dei corsi, fatta eccezione per quelli
universitari già iscritti nei passati anni accademici, ai quali era concesso di
ultimare gli studi. Sempre nel campo dell'istruzione, con un provvedimento
specifico, venivano istituite, a spese dello Stato e nelle località con un
numero sufficiente di alunni, sezioni speciali della scuola elementare dove
gli insegnanti avrebbero potuto essere di "razza ebraica". Anche le
Comunità israelitiche avrebbero potuto aprire, con l'autorizzazione del
Ministro per l'educazione nazionale, scuole elementari per i fanciulli di
"razza ebraica".
I due provvedimenti di carattere amministrativo riguardavano la
riorganizzazione dell'apparato statale preposto all'applicazione della
politica antisemita. L'Ufficio centrale demografico veniva trasformato in
Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza), una vera e
21
"Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia", in M. SARFATTI, Documenti della
legislazione antiebraica, in "Rassegna mensile di Israel", vol. LIV n. 1-2, Roma ed.
U.C.I.I., 1988.
17
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
propria ripartizione dentro al Ministero dell'interno con a capo un prefetto.
Inoltre, sempre presso il Ministero dell'interno, veniva istituito il Consiglio
superiore per la demografia e la razza, composto da 14 membri
"particolarmente versat(i)" in quella problematica, presieduto dal Ministro
per l'interno, cioè il "duce".
22
Tutte le questioni attinenti alla razza, le
valutazioni di carattere generale ma anche i casi singoli, erano quindi
rigidamente accentrati a Roma. Ciò non voleva dire, tuttavia, che la
"periferia" dell'apparato non prendesse decisioni autonome sull'opportunità
di verificare la razza di appartenenza, magari di qualche insegnante o
impiegato pubblico segnalato da un preside o da un capo ufficio
particolarmente sospettoso e solerte. Accadde anche che, ancor prima
dell'emanazione dei provvedimenti sulla scuola o di quelli relativi
all'Amministrazione civile e militare, gli appartenenti alla razza ebraica
fossero già stati allontanati o sospesi; vi fu anche il caso di personale,
ritenuto di "razza ebraica", licenziato da aziende e studi professionali
privati prima ancora che venissero emanate disposizioni in proposito.
Il problema della sovrapposizione delle sfere di competenza,
specialmente nei primi tempi della campagna antisemita, era concreto e
diffuso. Per questo il Ministero degli interni, sempre nell'ottica del rigido
controllo "dall'alto", diede disposizioni ai prefetti, gli unici abilitati a
concedere informazioni circa l'appartenenza alla "razza ebraica", perchè
vietassero ai podestà di rilasciare certificati di razza ariana, pratica
divenuta ricorrente in alcuni comuni.
23
Ma gli elementi che contribuivano a
rendere ancora frammentaria e disomogenea l'applicazione delle
disposizioni erano proprio i criteri addottati per l'accertamento della
razza. Nel censimento, infatti, la religione non era stata considerata una
variabile significativa e nelle varie richieste di accertamento pervenute agli
uffici, anche da parte di titolari di alte cariche pubbliche, ad esempio, non
si facevano riferimenti alla religione dell'interessato. Ma, con il consolidarsi
delle procedure, da più parti si manifestò il dubbio che la mancata
inclusione di nominativi nelle liste degli israeliti non potesse escluderne, di
per sè, l'appartenenza all'ebraismo. Era il caso dei figli nati da
matrimonio "misto", al riguardo dei quali la normativa venne anticipata con
la Dichiarazione sulla razza, emessa il 6 ottobre del '38 dal Gran
22
Ibid.
23
F. LEVI, L'ebreo in oggetto, cit. p. 32.
18
Dalla negazione alla restituzione dei diritti
Consiglio, e tradotta in legge con i Provvedimenti per la difesa della razza
italiana emanati il 17 novembre del '38 tramite Regio-decreto n. 1728.
All'art. 8 si stabiliva infatti che:
"d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di
nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione
ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto
in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo.
e) Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di
nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1° ottobre
del 1938-XVI, appartenga a religione diversa da quella ebraica"
24
.
Tale ridefinizione delle coordinate dell'appartenenza razziale, per cui
la religione professata diveniva determinante, poneva in discussione i
criteri adottati dal censimento, e declassava tutta quell'operazione a "mera
rilevazione statistica"
25
. Inoltre, comportava un'ulteriore lavoro di indagine
e raccolta di documenti: in primo luogo per i "sospetti" ebrei che potevano
eventualmente dimostrare, attraverso certificati di battesimo e di
matrimonio cattolico, la loro estraneità alla religione ebraica e in secondo
luogo per gli uffici addetti alle verifiche di tutte quelle pratiche.
Una volta accertata l'appartenenza alla "razza ebraica", sempre a
norma del Regio-decreto n. 1728, questa doveva essere denunziata, a
cura dell'interessato, e annotata nei registri dello stato civile e della
popolazione. Per l'ufficiale dello stato civile veniva introdotto anche
l'obbligo di verificare l'appartenenza razziale dei richiedenti le
pubblicazioni di matrimonio, in quanto, con l'entrata in vigore dei
Provvedimenti per la difesa della razza italiana, il matrimonio tra ariani ed
ebrei era vietato o dichiarato nullo nel caso fosse stato celebrato in
contrasto con la disposizione.
Le limitazioni della libertà personale, contenute nei Provvedimenti,
che avevano riflessi immediati sulla sfera privata degli ebrei, erano
peraltro assai numerosi. Ai cittadini italiani di "razza ebraica" era vietato:
- esercitare l'ufficio di tutore o curatore di minori o di incapaci non
appartenenti alla razza ebraica;
- avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana;
24
"Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia", in M. SARFATTI, Documenti della
legislazione antiebraica, cit..
25
F. LEVI, L'ebreo in oggetto, cit. p. 35.
19