6
una nuova era di egemonia. Nella parabola artistica di Spielberg il
regista e il tycoon non sono separabili: come per Méliès e De Mille
prima di lui, le istanze dell’autore condividono lo stesso spazio e la
stessa materia delle esigenze del produttore; non c’è nessun aspetto
della sua poetica, nemmeno il più retorico o ridondante, che possa in
qualche modo essere giustificato come compromesso tra autorialità e
bieca logica del profitto che caratterizza il sistema hollywoodiano,
perché proprio quella logica coincide, spesso sfacciatamente, con la
poetica stessa dell’autore, chiudendo il cerchio di un paradosso
spiazzante, spesso irritante, ma sempre coerente.
Negli ultimi anni, a dire il vero, ci pare che questa forma di
osmosi si sia in qualche modo allentata: forse perché Hollywood ha
intrapreso altre strade e incoronato altri re, forse perché la fondazione
di una major (punto di arrivo e di non ritorno della parabola
finanziaria di Spielberg) ha favorito un certo distacco fra il regista e il
produttore, o forse perché semplicemente il passare degli anni ha
generato sottili, ma non trascurabili, variazioni nello sguardo del
cineasta stesso.
Questo lavoro si propone di prendere in esame i tre film del
regista americano che hanno aperto il nuovo decennio (secolo,
millennio): A.I. Intelligenza artificiale (Artificial Intelligence: AI,
2001), Minority Report (id., 2002) e Prova a prendermi (Catch Me If
You Can, 2002). È opportuno spiegare perché abbiamo deciso di
isolare proprio questo segmento della filmografia dell’autore. Non
crediamo, come pensano alcuni, che A.I. abbia inaugurato un nuovo
corso dell’opera spielberghiana, magari sotto le insegne di Kubrick.
Spielberg non è l’erede di Kubrick, e proprio questo film testimonia
l’abisso che li separa: più che un giudizio di valore, si tratta della
semplice osservazione che in gioco ci sono due sguardi, due visioni
del mondo, due temperamenti autoriali lontani, quando non
radicalmente contrapposti, accomunati soltanto dalla passione
ossessiva per la macchina-cinema e per le sue possibilità espressive,
esplorate da entrambi con onnivora voracità.
7
Per comprendere la scelta di queste tre pellicole è necessario,
invece, fare un passo indietro e risalire a quella che li precede, Salvate
il soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998), in cui confluiscono
molte linee-guida del cinema spielberghiano. La seconda guerra
mondiale è un evento su cui Spielberg si è intrattenuto a lungo, dai
nazisti da fumetto del primo e del terzo Indiana Jones al comico
demenziale di 1941: allarme a Hollywood (1941, 1979), dall’odissea
di un bambino nei campi di concentramento giapponesi ne L’impero
del sole (Empire of the Sun, 1987) fino alla messa in scena
dell’Olocausto in Schindler’s List (id., 1994); un evento che trova
nello sbarco in Normandia il suo momento culminante, capace di
riunire l’essere americano e l’essere ebreo dell’autore. In altri termini,
la liberazione dell’Europa dall’incubo del nazifascismo, che proprio
sul popolo ebraico si era accanito maggiormente, rappresenta il
momento fondante della società moderna, nei confronti del quale
Spielberg, come americano e come ebreo, non può che inchinarsi
doppiamente, celebrando il sacrificio di quei soldati con tanto di
bandiera a tutto schermo.
I tre titoli successivi rappresentano un viaggio, una ricognizione
del cammino dell’uomo iniziato tra le macerie di quel conflitto; un
viaggio che parte dalla fine, dal punto d’arrivo in un futuro lontano,
retrocede ad un futuro prossimo venturo e scavalca noi spettatori,
terminando alle nostre spalle, nel nostro recente passato. Ma un
viaggio che possiamo compiere anche invertendo il senso di marcia:
possiamo partire dagli anni Sessanta di Prova a prendermi, dalla
storia di un ragazzo che appartiene alla prima generazione americana
nata dopo la guerra, figlio di un reduce che ha combattuto in Francia,
lasciarci scavalcare nella direzione opposta, ed approdare ad
un’immensa e muta distesa di ghiaccio, in un’escalation di dolore e
angoscia. In mezzo a questo viaggio, qualunque sia il senso di marcia
intrapreso, si colloca Minority Report, l’opera forse più bizzarra del
cinema di Spielberg, un thriller poliziesco ambientato in un futuro così
8
vicino da sembrare domani, da condividere le stesse ansie e le stesse
paure del mondo di oggi.
Assumere A.I. come punto di partenza di questo percorso o come
punto d’arrivo non è una questione da poco: se la fine dell’umanità è
l’approdo del nostro itinerario, la prospettiva si colora di doloroso
pessimismo, di lacerante rassegnazione, e la traiettoria è quella di
un’inesorabile autodistruzione; ma se al contrario l’estinzione della
specie umana viene assunta come punto di partenza, allora resta
un’ombra, un’inquietudine, una paura, uno spettro sbandierato come
monito, una lezione che non rinuncia alla speranza. È lo scarto che
separa il pessimismo di Kubrick dall’ottimismo di Spielberg, la
sfiducia nella capacità dell’uomo di migliorarsi del primo e la
speranza del secondo che quel miglioramento debba essere possibile,
altrimenti non varrebbe nemmeno la pena cercare di stimolarlo.
I due film successivi non alleggeriscono di molto la tensione
autodistruttiva che caratterizza A.I.: parlano di bugie e di paranoia, di
famiglie distrutte, di padri separati dai figli e di figli che cercano di
vendicare i genitori, di un passato che contiene i germi del fallimento
del presente e di un futuro che ha raccolto la fallimentare eredità che il
presente (dello spettatore e del regista) gli ha lasciato. E proprio il
presente, da qualunque direzione di marcia si compia questo viaggio,
rimane sempre l’unica coordinata temporale mancante, in grado però
di accomunare tutte e tre le tappe, uno spazio bianco che i tre titoli
convergono a riempire, dal momento che, per definizione, ogni film,
qualunque sia il genere cui appartiene o il suo pubblico di riferimento,
parla innanzi tutto del proprio presente e del proprio tempo.
L’ultima inquadratura di Prova a prendermi sembra ricollegarsi
là dove eravamo partiti: avevamo lasciato un vecchio reduce, in
lacrime davanti alla tomba del suo salvatore, chiedere alla moglie se
nella vita fosse stato una brava persona, e ritroviamo un ragazzo, che
di quel reduce potrebbe essere il figlio, scegliere di diventare una
brava persona. Il cerchio si chiude con ingenua semplicità. Perché se
9
tutti gli uomini fossero delle brave persone, il mondo sarebbe un posto
migliore. Forse la morale del cinema di Spielberg è tutta qui.
10
CAPITOLO 1
PICCOLA BIOGRAFIA DI UN ENFANT PRODIGE
“There is a fifth dimension beyond that which is known to man.
It is a dimension as vast as space and as timeless as infinity.
It is the middle ground between light and shadow,
between science and superstition,
and it lies between the pit of man's fears and the summit of his knowledge.
This is the dimension of imagination.
It is an area which we call … Ai confini della realtà”
1
(motto d’apertura della serie tv The Twilight Zone).
1.1 La produzione amatoriale e l’apprendistato televisivo
Prima di passare ai tre film che saranno oggetto del nostro studio,
ripercorriamo brevemente la carriera di Steven Spielberg. Nasce il 18
dicembre 1946 a Cincinnati, in Ohio
2
. Cresciuto nei sobborghi di
Haddonfield, nel New Jersey, si stabilisce a Scottsdale, in Arizona,
vicino Phoenix. Il padre, Arnold, è un ingegnere elettronico che si
occupa di computer, mentre la madre Leah è una pianista. Fin da
bambino dimostra una spiccata propensione per il cinema. Munito di
una semplice cinepresa economica a 8 mm., comincia a girare sia
filmini amatoriali (in particolare la documentazione delle gite in
montagna, dove il ragazzino lavora sulla messa in scena, organizzando
1
“C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce. È senza limiti come l’infinito
e senza tempo come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la
superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione
dell’immaginazione, una regione che si trova…ai confini della realtà”.
2
A lungo Spielberg ha lasciato credere e scrivere di essere nato nel 1947, rafforzando l’immagine
di enfant prodige. Si veda: MCBRIDE J., Steven Spielberg. A Biography, Da Capo Press, New York
1999, pp. 35-38.
11
i movimenti dei parenti in funzione delle riprese), sia veri e propri
film a soggetto. Il primo cortometraggio di fiction di cui si ha
testimonianza è The Last Train Wreck (1957), della durata di tre
minuti, in cui l’undicenne cineamatore mostra lo scontro tra due
trenini giocattolo, probabilmente ispirato dalla memoria della sua
prima visione cinematografica, Il più grande spettacolo del mondo
(The Greatest Show on Earth, 1952) di Cecil B. De Mille. Col passare
degli anni questa precoce vocazione si trasforma da hobby in
occupazione ossessiva: tra il 1957 e il 1967 Spielberg gira
ufficialmente una ventina di filmini ispirati ai vari generi americani
(western, fantascienza, guerra, thriller), a discapito della scuola, con
rammarico del padre che avrebbe preferito un figlio più studioso, e
degli altri interessi adolescenziali. Un suo film bellico realizzato
quando aveva quattordici anni, Escape to Nowhere (1962), della
durata di quaranta minuti, vince un concorso amatoriale. A sedici anni
gira invece il fantascientifico Firelight (1964), suo primo
lungometraggio (dura più di due ore), che rappresenta indubbiamente
“la prova generale di quello sguardo rivolto al cielo e in cerca di luce
che darà forza espressiva e immaginifica ai migliori esiti della poetica
dell’autore”
3
.
La produzione amatoriale riveste un’importanza fondamentale
nella formazione del giovane cineasta e anticipa alcune tematiche
destinate a ritornare nella sua filmografia adulta. Tra queste troviamo
sicuramente la passione per la seconda guerra mondiale: come molti
suoi coetanei, Spielberg è affascinato dai racconti di battaglia del
padre, in particolare dalla “sovrapposizione feconda fra vicenda
collettiva e personale, intreccio di verità oggettiva e racconto
inventato che attraverserà, con miscele di diverse proporzioni e varie
tonalità emotive, molto del suo cinema”
4
. Un altro elemento ricorrente
3
COLUMBO M., Tra paura e desiderio. Ritratto di un cineamatore, in: ALBERIONE E. (a cura di),
Incubi e meraviglie. Il cinema di Steven Spielberg, Unicopli, Milano 2002, p. 59. Per la
filmografia della produzione amatoriale di Spielberg si veda: ALBERIONE M. (a cura di),
Filmografia, in: ALBERIONE E. (a cura di), Incubi e meraviglie, op. cit., pp. 237-240.
4
Ivi, p. 54.
12
è quello del volo. Da sempre appassionato di aviazione, a quindici
anni gira Fighter Squad (1960), filmino sui conflitti aerei durante la
seconda guerra mondiale, in cui simula le manovre di un apparecchio
d’epoca senza muoversi da terra, integrando spezzomi
documentaristici di battaglie aeree da alternare ai primi piani dei piloti
ragazzini.
Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, inoltre, il regista
delinea il proprio personale “pantheon” di modelli di riferimento, che
spazia dagli spettacoli dei matinées di provincia, a base di western di
serie B, film di mostri o di fantascienza, pellicole su Tarzan e serial
avventurosi degli anni Trenta e Quaranta (che saranno un punto di
partenza importante per il ciclo di Indiana Jones), al cinema classico
hollywoodiano di De Mille, Lean, Capra, Hawks, Hitchcock, Ford,
senza dimenticare la programmazione televisiva (i varietà, gli sketch
comici di Jerry Lewis, i cartoni animati, i programmi per bambini
della Disney, le saghe d’avventura e di fantascienza spesso ispirate ai
fumetti). Questo corpus di ispirazioni, quanto mai variegato ed
eterogeneo, non influirà soltanto sulla futura attività di cineasta
professionista, ma trova proprio nella produzione amatoriale un primo
banco di prova. Già in quegli anni, ad esempio, Spielberg sperimenta i
barocchismi linguistici di Orson Welles, e molte trovate visive del
periodo appaiono debitrici dei virtuosismi di Gregg Toland, il direttore
della fotografia di Quarto potere (Citizen Kane, 1941)
5
.
A vent’anni Spielberg si trasferisce a Los Angeles, con
l’intenzione di frequentare il corso di cinema della prestigiosa
University of Southern California. A causa dei voti insufficienti per
l’ammissione, è costretto però a ripiegare sulla California State
University, a Long Beach, dove non esiste nemmeno un vero e proprio
dipartimento di cinema, ma almeno si tengono corsi di critica a
produzione radiotelevisiva. In quegli anni incomincia a frequentare i
vicini studi della Universal e ha modo di ampliare la propria cultura
13
cinematografica, avvicinandosi ai classici europei (Bergman, Fellini e,
soprattutto, Truffaut), proiettati nelle numerose sale losangeline. Nel
1969 incontra Denis Hoffman, il quale finanzia la produzione del suo
primo film girato in 35 mm., Amblin’ (26 minuti di durata e 15.000
dollari di budget). Il cortometraggio vince premi ai festival di Venice
e Atlanta e colpisce l’attenzione di Sid Sheinberg, dirigente della
Universal, che fa firmare all’appena ventiduenne regista un contratto
di sette anni per la MCA-TV, la sezione televisiva della casa di
produzione. Sebbene oggi sia disprezzato dall’autore, Amblin’
rappresentò indubbiamente il suo viatico verso il professionismo.
Quando si parla della generazione dei Movie Brats, si intende, per
consuetudine, “il gruppo di cineasti di estrazione colta, provenienti dai
corsi di cinema istituiti nelle Università. Ovvero, secondo un’altra
formulazione, la Film School Generation. Più comunemente, la Nuova
Hollywood”
6
. Spielberg fu certamente uno dei “marmocchi del
cinema”
7
, ma rispetto ai suoi colleghi Coppola, Lucas, De Palma e
Scorsese, i quali frequentarono tutti prestigiose scuole di cinema
8
,
rimase sostanzialmente un autodidatta. La vera scuola del regista
furono gli Universal Studios. Leggiamo cosa scrive a questo proposito
De Bernardinis:
L’apprendistato televisivo alla Universal, l’unico studio che in qualche
modo funzionava secondo i dettami della vecchia Hollywood classica,
produsse un’esperienza diretta, sul campo, capace di mandare di pari passo
la “personalità” del cineasta con il rispetto delle regole e “convenzioni”. Le
smanie demiurgiche di Coppola, la cinefilia intransigente di Scorsese, la
frenesia godardiana di De Palma e l’isolamento quasi imperiale di Lucas
5
Spielberg ha sempre manifestato una vera e propria venerazione per Welles, considerandolo
secondo solo alla perfetta economia dello sguardo di Ford, modello assoluto di classicità. Di
Quarto potere Spielberg possiede il famoso slittino Rosebud e la sceneggiatura originale.
6
DE BERNARDINIS F., I cinque dell’occhio selvaggio. Spielberg e gli altri Movie Brats (Lucas,
Coppola, Scorsese, De Palma), in: ALBERIONE E. (a cura di), Incubi e meraviglie, op. cit., p. 87.
Sulla questione dei Movie Brats si veda anche: MICHAEL PYE, LYNDA MILES, The Movie Brats:
How the Film Generation Took Over Hollywood, Holt, Rinehart and Winston, New York 1979.
7
Ibidem.
8
Coppola frequentò la University of California at Los Angeles (UCLA), Lucas la University of
Southern California (USC), Scorsese la New York University (NYU), De Palma la Columbia
Univesrsity.
14
affascinarono certamente Spielberg, senza costituire parte integrante del suo
apprendistato
9
.
È importante ricordare che quella che un critico francese
definisce la “tragica divisione”
10
tra fiction televisiva e
cinematografica, che in generale negli Stati Uniti non è percepita
nettamente come in Europa, all’epoca era comunque meno marcata.
Quando parliamo della produzione televisiva di Spielberg, ci riferiamo
ad opere girate in pellicola, da troupe spesso cinematografiche e da
attori di alta professionalità. Come osserva Raffaella Giancristofaro,
“l’opera televisiva non è solo una tappa di apprendistato giovanile, ma
un percorso che – non solo come regista, ma anche e soprattutto come
produttore – prosegue parallelo fino a oggi, a quello della regia
cinematografica”
11
. Da questo punto di vista l’esempio più lampante è
certamente Duel (id., 1971), tv-movie che ha avuto una distribuzione
nelle sale dopo la messa in onda televisiva e che Spielberg considera a
tutti gli effetti il suo primo film, dal momento che venne girato come
se fosse per il cinema. Opera estremamente complessa e suscettibile di
molteplici interpretazioni, Duel, come sostiene Gianni Canova,
“imposta quello che da lì in poi sarà il tema spielberghiano per
eccellenza (l’incontro/scontro con l’alterità) attraverso la maschera
inquietante della minacciosità”
12
.
Il suo primo lavoro alla Universal è comunque un episodio della
serie Night Gallery, intitolato Eyes (1969). L’esordio è importante
perché segna l’incontro con Rod Serling, geniale ideatore di serial
fantastici, tra cui il celebre The Twilight Zone, ritenuto una sorta di
9
Ibidem.
10
GODARD J., Steven Spielberg, Rivages, Paris 1994, p. 22. Allo stesso modo di Spielberg, anche
cineasti come Sam Peckinpah, Sidney Lumet, Clint Eastwood, Arthur Penn, John Frankenheimer
provengono dalla regia televisiva.
11
GIANCRISTOFARO R., Totem e tebù. Spielberg e la televisione, in: ALBERIONE E. (a cura di),
Incubi e meraviglie, op. cit., p. 72
12
CANOVA G., Duel: l’epifania dell’alterità, in: ALBERIONE E. (a cura di), Incubi e meraviglie, op.
cit., p. 106.
15
“padre spirituale” di Spielberg
13
: molti temi caratteristici delle serie di
Serling, come la fantascienza, l’ingresso dell’alieno nella dimensione
quotidiana, il rapporto con l’invisibile, il senso del mistero, hanno da
sempre affascinato il regista e attraversato la sua opera
14
. Dopo Eyes,
Spielberg gira un altro episodio di Night Gallery (Make me Laugh,
1971) e lavora su altri celebri serial dell’epoca (Marcus Welby, M. D.,
The Name of the Game, The Psichiatrist, Owen Marshall: Counselor
at Law), tra cui spicca la prima puntata del Tenente Colombo (Murder
by the Book, in italiano Un giallo da manuale). Oltre a Duel il regista
gira altri due tv movie: Something Evil (1972, trasmesso anche in Italia
con il titolo Il signore delle tenebre), un horror demoniaco che
Spielberg considera il suo lavoro televisivo più personale, e Savage
(1973), dopo il quale “il giovane talento può finalmente uscire da un
ambiente nel quale non solo ha dovuto scontare il suo status di ultimo
arrivato, ma dove fondamentalmente non è ancora riuscito a realizzare
un progetto che sia davvero suo”
15
.
13
The Twilight Zone andò in onda per cinque anni, dal 1959 al 1964. Night Gallery, invece, venne
trasmesso dal 1969 al 1973: rispetto alla serie precedente, si distingueva per una maggiore
tendenza al macabro e all’orrorifico, piuttosto che al soprannaturale e fantascientifico.
14
Una testimonianza di questo legame è certamente Ai confini della realtà (Twilight Zone: The
Movie, 1983), film a episodi girato con John Landis, Joe Dante e George Miller ed ispirato al serial
di culto di Serling, di cui Spielberg diresse il secondo segmento, intitolato Kick the Can. Da
segnalare anche la serie Amazing Stories, prodotta nel 1985 per la NBC, per la quale il cineasta
reclutò un esercito di professionisti (tra gli altri Martin Scorsese, Clint Eastwood, Danny De Vito,
Robert Zemeckis, Joe Dante, il compositore John Williams, lo scenografo Rick Carter). Molti dei
quarantacinque episodi erano scritti dallo stesso Spielberg (che ne diresse due, Ghost Train e The
Mission) e supervisionati da Richard Matheson, coautore di The Twilight Zone insieme a Serling.
15
GIANCRISTOFARO R., Totem e Tabù. Spielberg e la televisione, in: ALBERIONE E. (a cura di),
Incubi e meraviglie, op. cit., p. 114.
16
1.2 Gli anni Settanta
L’opera seconda di Spielberg è Sugarland Express (The
Sugarland Express, 1974). Basato su un fatto di cronaca avvenuto in
Texas nel 1969, il film è un road movie a basso budget, girato quasi
interamente on location sulle strade texane. Luisella Farinotti nota
che, sebbene Sugarland Express possa a prima vista sembrare “molto
vicino al nuovo cinema americano degli anni Settanta che ha come
obbiettivo la denuncia delle contraddizioni dell’ideologia americana,
di una democrazia che si regge su un impasto di repressione e
follia”
16
, è in realtà lontano “dal ribellismo antisistema di quel cinema
– di cui pure assume la forma peculiare del road movie – e se ne
allontana sia nei toni – quel continuo confondersi di farsa e tragedia
che segna la storia, almeno fino alla conclusione – sia, soprattutto,
nella costruzione dei personaggi”
17
: nel film l’unico eroe positivo è
proprio il poliziotto Slide, l’ostaggio rapito dalla coppia in fuga,
mentre i Poplin, più che autentici ribelli, appaiono infantili e
irresponsabili.
Dopo Sugarland Express, Spielberg gira Lo squalo (Jaws, 1975),
il suo primo film ad alto budget (otto milioni di dollari) e il suo primo
grande successo commerciale (più di cento milioni di dollari
d’incasso), ma soprattutto il primo film in cui il regista ha la libertà di
agire come vuole sulla sceneggiatura e sul set. Aldilà degli evidenti
echi letterari (su tutti Moby Dick), l’idea originale della pellicola è
quella di non mostrare lo squalo per buona parte del film. Sebbene
dovuta quasi certamente alle difficoltà riscontrate sul set nella
costruzione di un modello credibile di pescecane, questa scelta
richiama la celebre distinzione hitchcockiana tra sorpresa e suspence:
la reticenza visiva aumenta la tensione, grazie anche ad un uso
particolare della colonna sonora, che, come suggerisce Franco La
16
FARINOTTI L., Sugarland Express o l’impossibilità del ritorno, in: ALBERIONE E. (a cura di),
Incubi e meraviglie, op. cit., p. 114.
17
Ibidem.
17
Polla, funziona in senso “metonimico”
18
(lo spettatore non vede lo
squalo, ma sente la musica che è associata alla sua presenza).
Il successo de Lo Squalo consente a Spielberg di realizzare
Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third
Kind, 1977), che insieme al coevo Guerre Stellari (Star Wars, 1977)
di Lucas, contribuisce alla fine degli anni Settanta al rilancio del
cinema di fantascienza. La pellicola esemplifica quello che La Polla
considera il nucleo centrale della poetica spielberghiana, celebrato dal
motto “persone ordinarie in circostanze straordinarie” (non a caso una
battuta pronunciata in Incontri ravvicinati da François Truffaut). A
questo proposito, scrive lo studioso:
Le “circostanze straordinarie” rivestono un’importanza che va al di là del
fascino dell’avventura, del suo pericolo, della sua stessa lettura in chiave
sociale (come in fondo era stato possibile per gli altri suoi film). Qui
Spielberg fa dell’irrazionale non tanto il veicolo di un’allegoria o di un
apologo, ma la sostanza stessa di una vera e propria visione del mondo. Se
Lo squalo era stato in parte anche uno studio del comportamento collettivo,
Incontri ravvicinati tocca valori assoluti, profondità archetipe, spazi ignoti
non solo del cosmo ma soprattutto dello spirito
19
.
Ma del film del 1977 avremo modo di parlare in seguito.
Il decennio viene chiuso da 1941: allarme a Hollywood (1941,
1979), film che, come osserva Vincenzo Buccheri, “segna il passaggio
dal primo Spielberg, moderatamente iconoclasta, al secondo, diviso
tra puro intrattenimento e «impegno» da romanzo civile”
20
. Al di là
dell’insuccesso commerciale (uno dei pochi nella carriera del regista),
1941 presenta alcuni tratti assolutamente determinanti per
comprendere la poetica spielberghiana. In particolare colpisce la
ricchezza di “rimandi metalinguistici, di citazioni, di ammiccamenti
18
LA POLLA F., Steven Spielberg, L’Unità/Il Castoro, Milano 1995, p. 56.
19
Ivi, p. 58.
20
BUCCHERI V., 1941 - Allarme a Hollywood: piangere per Dumbo, in: ALBERIONE E. (a cura di),
Incubi e meraviglie, op. cit., p. 132.
18
ironici ai cliché dei film classici, oltre che ai propri”
21
: si veda la
sequenza iniziale (che cita l’apertura de Lo squalo), gli omaggi a Walt
Disney e a Jerry Lewis, gli scherzi, le citazioni private dei film degli
amici (Lucas, John Landis, il trio Zucker-Abrahams-Zucker) e le
citazioni viventi (Robert Stack, interprete di decine di film bellici,
Toshirô Mifune, Samuel Fuller, Christopher Lee). Il film inoltre si
diverte a giocare con la commistione dei generi, “alleggerendo il war
movie attraverso la contaminazione con la commedia e il musical”
22
e
riuscendo a fondere lo slapstick con la moderna comicità demenziale
(garantita dalla presenza di John Belushi e Dan Aykroyd). Anche per
La Polla, del resto, “gli assi della pellicola sono: il meccanismo delle
reazioni causati da un evento accidentale, la parodia della retorica
bellica e nazionalistica, il continuo riferimento metalinguistico al
cinema americano”
23
.
21
Ibidem.
22
Ibidem.
23
LA POLLA F., Steven Spielberg, op. cit., p. 72.
19
1.3 Gli anni Ottanta
Se gli anni Settanta si chiudono con un insuccesso, il decennio
successivo si apre invece con uno dei più grandi trionfi della carriera
del cineasta, I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark,
1981), primo capitolo di una delle più fortunate trilogie della storia del
cinema, insieme ai successivi Indiana Jones e il tempio maledetto
(Indiana Jones and the Temple of Doom, 1984) e Indiana Jones e
l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade, 1989),
entrambi dello stesso Spielberg. Frutto della collaborazione con
l’amico Lucas (a cui si deve l’idea del personaggio di Indiana), i tre
film mettono in luce “il procedimento di riepilogazione-
accumulazione-rivisitazione che sostanzia l’idea e la prassi del cinema
dei due signori di Hollywood, ma che, in maniera anche più ampia,
caratterizza il cosiddetto cinema postmoderno”
24
. Nonostante la
ricchezza di citazioni, implicazioni culturali (serial avventurosi degli
anni Trenta e Quaranta, fumetti, narrativa popolare, classici
hollywoodiani) e procedimenti metalinguistici (la trasformazione del
logo della Paramount in un elemento interno alla narrazione, la
sequenza musicale che apre il Tempio maledetto), si è affermata nel
corso degli anni l’idea che la trilogia rappresenti sostanzialmente
un’operazione di virtuosismo tecnico, un divertissement d’autore. La
Polla ad esempio sostiene che, ne I predatori, “per la prima volta
Spielberg sceglie la via di un altro cinema, rinnega ogni spessore
metaforico per costruire un’opera chiusa in se stessa”
25
, definendo il
film “una tipica pellicola a due dimensioni: perfetta, brillante,
sostenuta, veloce, ma assolutamente gratuita, inutile”
26
. Aldilà
dell’aspetto ludico e autoreferenziale (certamente di impronta
lucasiana, più che spielberghiana), Alberione osserva però che
“l’operazione compiuta dai due si configura come una difesa della
24
ALBERIONE E., Indiana Jones: il mito e l’incognita, in: ID., Incubi e meraviglie, op. cit., p. 138.
25
LA POLLA F., Steven Spielberg, op. cit., p. 81.
26
Ibidem.