2
dell’efficienza, poiché l’attività amministrativa decentrata si dimostra più
efficiente di quella centralizzata. Ma, soprattutto, il principio si connette
con l’idea del primato della libertà e della società civile che richiede che lo
Stato sussidiario debba rendersi funzionale ad esse
1
.
Tale concezione personalista del principio trova storicamente i propri
antecedenti, da un punto di vista filosofico e antropologico in Aristotele e in
San Tommaso d’Aquino, da un punto di vista giuridico, nel diritto naturale,
nella concezione comunitaristica medioevale e in studiosi come Althusius
2
.
Secondo Aristotele, gli uomini, per raggiungere il fine supremo della
felicità, necessitano dell’aiuto dei livelli via via più alti della convivenza
(famiglie, villaggi, città). L’attività politica tuttavia è propria soltanto della
1
Cfr. F. Pizzetti, Il nuovo ordinamento italiano fra riforme amministrative e riforme
costituzionali, Torino, 2002, secondo il quale «il ricorso al principio di sussidiarietà significa
oggettivamente porre al centro del sistema complessivo un punto fermo, e uno soltanto: il
cittadino. Senza questo punto fermo, il principio di sussidiarietà perde ogni significato e si
trasforma solo nel pallidissimo e debolissimo principio della migliore efficacia ed efficienza
dell’azione che i diversi soggetti devono realizzare per il raggiungimento di fini e obiettivi
predefiniti.» (p. 102). E ancora: «Il principio di sussidiarietà assume un proprio chiaro significato,
e non si riduce unicamente a una mera formulazione del principi di efficienza e di efficacia, solo
nella misura in cui non si trascura o, peggio, deliberatamente si ignora l’elemento essenziale che lo
caratterizza: quello, cioè, di essere legato inscindibilmente alla posizione dei cittadini. (…) Nel
quadro del principio di sussidiarietà, cioè, tutta l’azione pubblica deve avere il suo unico
fondamento nella necessità di rispettare i bisogni, le necessità e le domande dei cittadini. Il che
significa che, nella prospettiva del principio di sussidiarietà, le esigenze dei cittadini diventano non
solo il parametro del modo col quale l’azione pubblica deve essere esercitata, ma anche il
fondamento stesso della sua legittimità. Non solo. (…) Infatti, in un contesto rispettoso della loro
libertà e della loro autonomia [cfr. dei cittadini], il principio di sussidiarietà si trasforma nel
principio secondo il quale le decisioni delle scelte pubbliche e le relative modalità di azione
devono essere collocate al livello il più vicino possibile ai cittadini stessi e secondo modalità che
assicurino a questi ultimi la possibilità di decidere il più possibile su come e da chi vogliono che le
loro esigenze e i loro bisogni siano soddisfatti. Ricollocato così nella sua giusta posizione, il
principio di sussidiarietà (…) fa del dovere di rispettare integralmente i bisogni, le necessità e le
esigenze dei cittadini ( e in primo luogo di rispettare la loro volontà nel definire come, e in che
modo, e a che livello, debba essere assicurata tale soddisfazione) il parametro e la misura di tutto
l’ordinamento. (…) Visto secondo la prospettiva qui sottolineata, il principio di sussidiarietà (…)
diventa il principio ordinatore di un sistema che, ponendo al centro il cittadino nella sua
dimensione singola e associata, organizza la distribuzione dei poteri, delle competenze e delle
risorse in maniera tale che la soddisfazione delle necessità e dei bisogni possa avvenire davvero
nel modo “più vicino al cittadino”; e cioè in quel modo che assicura la maggiore soddisfazione e il
maggiore rispetto dei cittadini stessi». (pp. 104-107)
2
Cfr. C. Millon-Delson, Il principio di sussidiarietà, Milano, 2003, pp. 15 ss.; A. Rinella, Il
principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello d’analisi, in Sussidiarietà e
ordinamenti costituzionali. Esperienze a confronto, a cura di A. Rinella, L. Coen e R. Scarciglia,
Padova, 1999, pp. 3 ss.; P. De Carli, Sussidiarietà e governo economico, Milano, 2002, pp. 5 ss.;
L. Violini, Il principio di sussidiarietà, in Sussidiarietà. La riforma possibile, a cura di G.
Vittadini , Milano, 1998, pp. 53 ss.
3
città, organo politico in grado di raggiungere l’autarchia, immagine della
perfezione. Ciò è conforme alla concezione greca per la quale l’“economia”
si distingue dalla politica ed è, secondo la derivazione etimologica della
parola, “regola della casa”, quindi attività privata. Al potere politico
spettano soltanto alcuni compiti (difesa, giustizia, culto). San Tommaso
d’Aquino riprende il pensiero aristotelico inserendovi i concetti cristiani di
“persona” e di “bene comune”: l’uomo, attore primo nella costruzione del
bene comune, non agisce autonomamente ma necessita del subsidium che
gli viene offerto dalle diverse formazioni sociali e, in subordine, dal
pubblico potere, il quale risulta così al contempo utile e limitato; limitato
perché l’uomo in quanto uomo, e non in quanto cittadino, detiene alcuni
diritti (alla vita, alla libertà, alla proprietà, alla professione religiosa ecc.)
anteriori all’organizzazione statale e che costituiscono criterio di giudizio
sulla legittimità dello stesso; limitato inoltre perché il potere pubblico
realizza le proprie finalità solo quando rispetta e promuove le finalità
naturali delle persone, delle famiglie e dei gruppi associati, non quando le
espropria o si sostituisce al loro compito naturale. Per trovare una
conciliazione al perseguimento delle due istanze fondamentali del valore
della persona e di quello del bene comune, il filosofo concepisce quindi il
ricorso all’autorità superiore soltanto nei casi di insufficienza delle istanze
inferiori.
La descritta concezione dell’uomo e dell’organizzazione statale è ripresa
dal giurista tedesco Giovanni Althusius, il quale offre una costruzione
sociale con un più elaborato tasso di giuridicità e cerca di risolvere il
problema delle condizioni e delle modalità con le quali le istanze e i gruppi
sociali di livello superiore possono sostituirsi a quelli di livello inferiore. La
sua ricerca avviene in un contesto concettuale ancora fortemente
determinato dal pluralismo e dal comunitarismo medioevale: la società
complessiva, pur divisa in gruppi e in ordini sociali, è caratterizzata da una
generale solidarietà, nell’ambito della quale Althusius propone una
4
regolazione pattizia fra i diversi gruppi, secondo la quale il gruppo o
l’istanza sociale inferiore accetta di essere sostituita da quella superiore solo
nello svolgimento dei compiti che ritiene al di sopra delle proprie
possibilità.
Questa tradizione di pensiero non ha, tuttavia, costituito la corrente
principale della filosofia politica europea. Essa è rimasta una corrente
apparentemente soccombente rispetto alla opposta linea di pensiero,
accentratrice e assolutista, fondata sull’esaltazione dell’onnipotenza dello
Stato.
Una progressiva riduzione del pluralismo sociale si è storicamente
verificata con il processo di accentramento della sovranità e l’introduzione,
con lo Stato assoluto, della nozione giuridica di Stato moderno. Ma è con la
Rivoluzione francese e l’affermazione del giacobinismo che l’ostilità verso
il pluralismo diventa radicale (fino a che si arriva in Francia alla sua
abolizione per legge: Loi d’Allarde del 2-17 marzo 1971 e Loi Chapelier
del 14-17 giugno 1971
3
). Proprio nel momento storico in cui il pluralismo
tocca il suo livello più basso, viene tuttavia percepita con maggiore
consapevolezza la necessità di una teorizzazione sociale del principio di
sussidiarietà
4
.
3
Nel 1971, attraverso la Loi d’Allarde e la Loi Chapelier, il legislatore giunse, infatti, a
neutralizzare le attività delle organizzazioni senza scopo di lucro, sopprimendo le corporazioni, le
società benefiche ed educative, le organizzazioni di lavoratori: la nazione doveva essere la sola
associazione legittima. Si decretò, pertanto, che la sfera pubblica poteva assistere solo gli
indigenti. In nome della difesa dell’interesse generale e della libertà del lavoro, veniva interdetto
ad ogni cittadino di difendere gli interessi comuni della stessa professione (in particolare, con la
Loi d’Allarde del 2 marzo 1791 venne sancita la soppressione delle corporazioni, dei gruppi
professionali, dei dazi e delle sovvenzioni, e la creazione delle patenti per l’esercizio delle
professioni; con la Loi Chapelier del 14 giugno 1791, poi, si vietarono gli scioperi e le coalizioni
operaie).
4
Cfr. G. Vittadini, Sussidiarietà. La riforma possibile, Milano, 1998, secondo il quale «C’è in
ogni caso da sottolineare la valenza antitotalitaria della sussidiarietà che viene ad assolvere una
funzione storica analoga a quella che per tanti secoli ha svolto il richiamo al diritto naturale. Come
il richiamo al diritto naturale, infatti, consentiva di difendere i valori originari della persona dalle
prepotenze del potere dei tiranni, così il richiamo al principio di sussidiarierà consente di affermare
la preminenza della persona contro la pretesa moderna del potere statale di porsi come l’esclusiva
fonte di conoscenza dei bisogni dell’individuo e, quindi, come l’unica autorità in grado di
rispondere a questi in modo adeguato. Così la sussidiarietà contesta radicalmente ogni tentativo
“giacobino” da parte di chi si sente interprete della verità del mondo e dall’alto pretende di
imporre violentemente la propria ideologia. Da questo punto di vista l’affermazione del principio
5
Diversi filoni di pensiero vi contribuiscono durante i secoli diciannovesimo
e ventesimo. In particolare, le anime culturali che hanno maggiormente
collaborato allo sviluppo della dottrina giuridica moderna sulla sussidiarietà
sono da far risalire alla dottrina sociale della Chiesa, esplicitata soprattutto
nell’Enciclica “Quadragesimo anno” del 1931, al pensiero liberale e a
quello federalista; si tratta di tradizioni eterogenee, le quali pongono alla
base del principio valori diversi, o comunque non pienamente
sovrapponibili.
1.1. Le tre radici del principio di sussidiarietà
La dottrina sociale della Chiesa
5
fonda la sussidiarietà sul primato
etico della persona rispetto allo Stato, il quale deve lasciare sviluppare
spontaneamente le articolazioni della società senza pretendere di assorbirle.
Il tema da essa evocato è, quindi, quello dei limiti dell’azione legittima
dello Stato.
Nel tentativo operato dalla Chiesa stessa di opporsi alla condanna liberale
dei c.d. “corpi intermedi” tra l’individuo e lo Stato – condanna che
rappresentò, anche se con esiti spesso differenti, una caratteristica costante
nella progressiva edificazione degli Stati rappresentativi che, dopo le
di sussidiarietà arriva a mettere in discussione la premessa stessa su cui si fonda una certa (e per
molti aspetti divenuta storicamente vincente) concezione dello Stato moderno. E’ la concezione di
stampo hegeliano che vede lo Stato come compimento assoluto della libertà e fonte di ogni diritto
della persona, rispetto alla quale si pone in una posizione di superiorità assiologica» (p. 2). V.
altresì F. X. Kauffmann, Il principio di sussidiarietà: punto di vista di un sociologo delle
organizzazioni, in AA.VV., Natura e futuro delle conferenze episcopali. Atti del colloquio
internazionale di Salamanca, 3-8 gennaio 1988, Bologna, 1988, secondo il quale «ciò che colpisce
prima di tutto è l’emergere così tardivo di questo principio di diritto naturale. Perché non si era
sentito il bisogno di formulare prima un principio così fondamentale? Questo può essere capito se
accettiamo l’idea che la sua formulazione è una reazione contro gli sviluppi caratteristici della
società moderna, cioè che l’idea di sussidiarietà non è problematica nelle società tradizionali» (p.
301). E ancora: «Il valore del principio di sussidiarietà – considerato dal lato della efficacia storica
– è stato provato meno dall’applicabilità ai casi concreti che non nella sua funzione critica nei
confronti delle ideologie individualiste e collettivistiche» (p. 303).
5
La letteratura in materia è assai vasta. Cfr. per esempio L. Violini, Il principio di sussidiarietà,
cit., pp. 54 ss.; I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà: profili storici e costituzionali, Napoli,
2003, pp. 4 ss.; A. D’Atena, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quad. cost., 2001, pp. 14
ss.; dello stesso A., L’Italia verso il federalismo, Milano, 2001, pp. 319 ss; P. De Carli,
Sussidiarietà e governo economico, cit., pp. 11 ss.
6
esperienze rivoluzionarie, avevano cominciato il processo di
smantellamento degli antichi istituti dell’anciem regime
6
– Pio XI promulgò
il 15 maggio 1931 l’Enciclica “Quadragesimo anno”, nella quale viene
valorizzato per la prima volta in modo espresso il principio di sussidiarietà,
con una formulazione considerata ancora oggi classica
7
e che merita quindi
di essere citata testualmente.
Dopo aver constatato che, a causa dell’individualismo, «Le cose si trovano
ridotte a tal punto che, abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita
sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse,
restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. E siffatta deformazione
6
Con specifico riferimento al principio di sussidiarietà, cfr. A. Colombo - S. Zaninelli, Stato e
formazioni sociali nell’Italia contemporanea: storia di una competenza negata, in Sussidiarietà.
La riforma possibile, cit., pp. 5 ss., secondo cui «l’equilibrio tipico del pluralismo politico
medievale, nel quale erano le comunità originarie a sostanziare e a rappresentare l’universitas del
popolo di fronte al sovrano, venne progressivamente a rompersi con la nascita e l’affermazione
dello Stato moderno, per il quale l’autonomia delle formazioni sociali è configurata non più come
una risorsa, quanto piuttosto come un ostacolo da eliminare».
7
Cfr. I. Massa Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit., secondo la quale «E’ la proclamazione di
una sussidiarietà che si potrebbe definire “esterna”, per distinguerla da una “interna”, che pure
esiste in quanto riferibile alle medesime istituzioni ecclesiastiche. La qualificazione della
sussidiarietà che qui si propone come “esterna” o “interna” è sempre riferita al punto di vista –
quello della Chiesa cattolica – che originariamente l’ha invocata. Per quanto riguarda il significato
“interno” occorre ricordare che il 20 febbraio 1946, in un “discorso ai nuovi cardinali sulla
funzione della Chiesa per la ricostruzione della società umana”, dopo un preciso richiamo al
principio di sussidiarietà formulato dal suo predecessore, il pontefice Pio XII affermò che tale
principio è valido per “per la vita sociale in tutti i suoi gradi, ed anche per la vita della Chiesa,
senza pregiudizio della sua struttura gerarchica” [in AAS 38 (1946), p. 145]. In entrambi i casi la
formula lessicale è dunque di matrice cattolica: nel primo, il principio è invocato dalla Chiesa per
qualificare come meramente compensativo e ausiliario l’intervento degli organismi sociali
maggiori – per lo più dello Stato o di istituzioni utilitaristiche organizzate – a favore dei gruppi
sociali minori; nel secondo, il principio è invocato dalla Chiesa stessa per qualificarlo come valido
pure per la sua stessa organizzazione interna». E ancora: « In ogni caso, il principio di sussidiarietà
è espressamente richiamato nella prefatio al codice di diritto canonico del 1983 tra i principi
normativi di fondo enucleati come guida per la riforma dell’intero codice: “4) Affinché il Supremo
Legislatore e i Vescovi prestino la loro concorde opera nella cura delle anime e l’ufficio dei pastori
appaia in forma più positiva, diventino ordinarie le facoltà di dispensa dalle leggi generali che
finora erano considerate facoltà straordinarie, riservando alla Suprema Autorità della Chiesa
universale e alle altre autorità superiori soltanto quelle cause che, per il bene comune, esigano una
eccezione. 5) Si badi opportunamente al principio che deriva dal precedente, e che si chiama il
principio di sussidiarietà, da applicare tanto più nella Chiesa, in quanto l’ufficio dei Vescovi con le
potestà annesse è di diritto divino. In forza di questo principio, mentre si mantengono l’unità
legislativa e il diritto universale e generale, si propugnano anche la convenienza e la necessità di
provvedere all’utilità dei singoli istituti, in modo speciale, attraverso i diritti particolari e una sana
autonomia della potestà esecutiva particolare ad essi riconosciuta. Fondandosi adunque sul
medesimo principio, il nuovo Codice demandi, sia ai diritti particolari, sia alla potestà esecutiva,
ciò che non è necessario all’unità della disciplina della Chiesa universale, cosicché si provveda
opportunamente al cosiddetto sano “decentramento”, allontanando il pericolo della disgregazione o
della costituzione di Chiese nazionali”» (pp. 10-13).
7
dell’ordine sociale reca un non piccolo danno allo Stato medesimo, sul
quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non
possono più portare, onde si trova oppresso da una infinità di carichi e di
affari». Su tali premesse Pio XI proclamò la definizione del principio di
sussidiarietà:
«E’ vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione
delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi
associazioni, laddove prima si eseguivano anche da piccole. Ma deve
tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale [in
philosophia sociali gravissimum illud principium, è con questa dizione
generale che si fa riferimento al principio di sussidiarietà, non
espressamente chiamato con questo nome]: che come è illecito togliere agli
individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria
per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più
alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è
questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della
società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società
stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [subsidium afferre] le
membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle». Di
conseguenza, a giudizio del pontefice, «è necessario che l’autorità suprema
dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari
e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che
mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed
efficacia le parti che a lei sola spettano, perché essa sola può compierle; di
direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei
casi e delle necessità». Gli uomini di governo sono quindi esortati a
persuadersi che «quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine
gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione
suppletiva [servato hoc “subsidiari” officii principio] dell’attività sociale,
8
tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale e perciò anche più
felice e più prospera la condizione dello Stato stesso»
8
.
E’ stato così formulato un principio generale sull’ordinamento della vita
sociale: ciò che gli uomini possono fare da sé con le proprie forze non può
essere loro tolto e rimesso alla società, e ciò che vale per il singolo rispetto
alla società vale altresì per le società minori nei confronti delle maggiori (è
questo il caso del rapporto tra le formazioni sociali e lo Stato). Principio di
ordine interno, quindi, nell’ambito di qualsiasi società nei confronti dei suoi
componenti, ma anche principio di ordine esterno, nei confronti delle varie
società tra di loro: come la società non deve sostituirsi ai singoli in ciò che
questi possono fare da sé, così le società maggiori non devono assumere
compiti che possono essere svolti dalle società minori.
La Dottrina sociale della Chiesa farà successivamente ampio riferimento a
questa fondamentale formulazione, sviluppandola sino ad estendere in
modo esplicito il riferimento e l’applicazione del principio di sussidiarietà a
campi ed aspetti particolari. In particolare, va ricordata l’Enciclica Mater et
Magistra di Giovanni XXIII, dove il principio è richiamato integralmente
con la formula di Pio XI e applicato specificamente all’economia; in essa si
specifica che «il mondo economico è creazione dell’iniziativa personale dei
singoli cittadini, operanti individualmente o variamente associati per il
perseguimento di interessi comuni. Però in esso, per le ragioni già addotte
dai nostri predecessori devono altresì essere presenti i poteri pubblici allo
scopo di promuovere, nei debiti modi, lo sviluppo produttivo in funzione
del progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini. La loro azione, che ha
carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di
integrazione deve ispirarsi al principio di sussidiarietà» e «la presenza dello
Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per
ridurre sempre di più la sfera di libertà dell’iniziativa personale dei singoli
cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza
8
In Encheiridion delle Encicliche, 5, Dehoniane Bologna, 1994, pp. 745 ss.
9
possibile nella effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali
della persona».
9
Il principio di sussidiarietà è ampiamente richiamato anche nella
regolazione dei rapporti tra poteri pubblici delle singole Comunità politiche
e poteri pubblici della Comunità mondiale, in particolare dall’Enciclica
Pacem in terris di papa Giovanni XXIII
10
.
Come detto, la Dottrina sociale della Chiesa dall’enciclica Quadragesimo
anno in poi ha approfondito il principio di sussidiarietà e soprattutto con il
pontificato di Giovanni Paolo II ha moltiplicato i riferimenti ad esso
11
; in
molti documenti, inoltre, il principio è messo in stretto collegamento con il
principio di solidarietà: entrambi cooperano ad assicurare la dignità della
persona umana. Così, dall’Istruzione della Congregazione per la dottrina
della fede Libertatis conscientia, il principio di sussidiarietà è definito,
9
Giovanni XXIII, Enciclica Mater et Magistra (15 maggio 1961), n. 57 segg., in I documenti
sociali della Chiesa, a cura di R. Spiazzi, Milano, 1988, pp. 653 ss.
10
Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963), in I documenti sociali della Chiesa,
cit., pp. 771 ss.: «Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i poteri pubblici delle
rispettive comunità politiche, nell’interno delle medesime, vanno regolati secondo il principio di
sussidiarietà, così nella luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti fra i poteri
pubblici delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale. Ciò significa
che i poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto
economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per
la loro ampiezza, complessità ed urgenza i poteri pubblici delle singole comunità politiche non
sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive. I poteri pubblici della comunità
mondiale non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici delle singole comunità
politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su
piano mondiale, di un ambiente nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i
rispettivi cittadini e i corpi intermedi possono svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri,
esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza».
11
Così il principio è richiamato dall’Enciclica Familiaris Consortio di papa Giovanni Paolo II, del
22 novembre 1981, n. 45, in I documenti sociali della Chiesa, cit., p. 1395: «Ma la società e più
specificamente lo Stato devono riconoscere che la famiglia è “una società che gode di un diritto
proprio e primordiale” e quindi nelle loro relazioni con la famiglia sono gravemente obbligati ad
attenersi al principio di sussidiarietà. In forza di tale principio lo Stato non può né deve sottrarre
alle famiglie quei compiti che esse possono egualmente svolgere bene da sole o liberamente
associate, ma favorire e sollecitare al massimo l’iniziativa responsabile delle famiglie». Giovanni
Paolo II riprende ancora il principio di sussidiarietà nell’Enciclica Centesimus annus ricordando
come «secondo la Rerum novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo
non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia
fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana,
hanno – sempre dentro il bene comune – la loro propria autonomia». Di conseguenza in ogni
ambito si impone il rispetto del principio di sussidirietà: «una società di ordine superiore non deve
interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma
deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle
altre componenti sociali, in vista del bene comune».
10
insieme al principio di solidarietà, «intimamente legato» alla stessa «dignità
dell’uomo» e criterio fondamentale «per valutare le situazioni, le strutture e
i sistemi sociali». «In virtù del primo [cfr. il principio di solidarietà],
l’uomo deve contribuire con i suoi simili al bene comune della società, a
tutti i livelli. (…) In virtù del secondo [cfr. il principio di sussidiarietà], né
lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa e alla
responsabilità delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in
cui esse possono agire, né distruggere lo spazio necessario alla loro
libertà»
12
.
Abbiamo detto che il principio di sussidiarietà è giunto sino a noi lungo tre
filoni fondamentali: oltre alla dottrina sociale della Chiesa, l’altra grande
anima culturale che ha collaborato allo sviluppo del principio è
rappresentata dal pensiero liberale, che pone al centro della sua costruzione
la libertà individuale. Una testimonianza particolarmente significativa di
questa impostazione è offerta da una lettera indirizzata da Thomas Jefferson
a Joseph C. Cabell il 2 febbraio 1816, nella quale viene delineato un assetto
organizzativo che dalla fattoria – cioè dalla realtà che il proprietario può
controllare direttamente – giunge alla “grande repubblica nazionale”,
passando attraverso istanze sempre più ampie, dominate dal principio
secondo il quale l’istanza superiore può intervenire solo laddove quella
inferiore non sia in grado di provvedere
13
.
12
Cfr. Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione “Libertà cristiana e
liberazione”, 22 marzo 1986, par. 73, in I documenti sociali della Chiesa, cit., p. 1455.
13
T. Jefferson, Il decentramento del potere, in Antologia degli scritti politici di Thomas Jefferson,
a cura di A. Aquarone, Bologna, 1961, p. 109, nella quale è anche evocata la tematica del
federalismo. Si legge, in particolare: « E’ dividendo e suddividendo la grande repubblica nazionale
in queste repubbliche minori da un estremo all’altro della gerarchia, finché si giunga
all’amministrazione da parte di ciascuno individuo della propria fattoria, attribuendo ad ognuno la
direzione di ciò che il suo occhio riesce a sorvegliare direttamente, che tutto verrà realizzato per il
meglio. (…) Io sono convinto che, se l’Onnipotente non ha decretato che l’uomo non debba mai
essere libero (e sarebbe bestemmia il crederlo), si scoprirà che il segreto consiste nel farsi egli
stesso depositario dei poteri che si riferiscono a lui, nella misura in cui è capace di esercitarli, e nel
delegare soltanto quelli che sono al di là delle sue capacità, mediante un processo sintetico, a gradi
sempre più elevati di funzionari, in modo da conferire sempre meno poteri a mano a mano che i
delegati rappresentano sempre più un’oligarchia».
11
Nel pensiero liberale, l’idea di sussidiarietà assume quindi un connotato
essenzialmente negativo, volto a ridurre l’intervento della Stato preservando
il principio di non ingerenza; considerandosi l’iniziativa economica privata
uno dei principali corollari della libertà umana, la sussidiarietà è vista in
stretto collegamento con i rapporti economici
14
– di qui la particolare
attenzione rivolta al rapporto Stato-mercato – ed è considerata in definitiva
un mezzo per preservare l’autonoma capacità di iniziativa degli individui: i
diretti interventi dello Stato in economia si giustificano infatti, secondo
questa prospettiva, solo se il mercato non è in grado di operare
efficientemente
15
.
Il terzo filone è costituito dalla riflessione sul federalismo. Le radici del
rapporto tra sussidiarietà e federalismo possono essere fatte risalire al
giurista tedesco G. Althusius
16
.
Nella letteratura tedesca, soprattutto, si sottolinea spesso che il federalismo
ha altresì una funzione garantistica, in quanto si osserva che più il potere è
concentrato più è pericoloso
17
. Di qui la diffusa interpretazione del
14
V. in argomento, nella letteratura italiana più recente, S. Zamagni, La sussidiarietà, l’economia
e la nuova carta costituzionale, in Sussidiarietà. La riforma possibile, cit., pp. 41 ss.; P. De Carli,
Sussidiarietà e governo economico, cit., pp. 244 ss.
15
In questa linea si collocano, ad esempio, le leggi comunali tedesche, nelle quali talvolta si
prevede che il Comune può svolgere attività d’impresa solo se è in grado di farlo a condizioni
economicamente più vantaggiose di quelle assicurate dal mercato. Così l’art. 98 della legge
comunale della Baviera, che al primo comma sancisce: «Il Comune può costituire, rilevare e
ampliare imprese economiche solo alle seguenti condizioni: 1) se l’attività imprenditoriale è
richiesta dal fine pubblico; 2) se l’impresa, per natura e dimensioni, si trova in un adeguato
rapporto con le capacità operative del comune; 3) se lo scopo non è né può essere perseguito,
altrettanto bene od in modo parimenti economico, da altri». Al fine poi di garantire
l’imprenditorialità privata nei confronti di quella pubblica, il secondo comma aggiunge che: «Le
imprese comunali non debbono provocare alcun sostanziale pregiudizio a carico delle imprese
private operanti nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato, del commercio e dell’industria, né
debbono assorbirle».
16
Come detto, il giurista, nel tentativo di individuare le condizioni che consentono alle istanze e ai
gruppi sociali superiori di sostituirsi a quelli inferiori, propone una regolazione pattizia fra i diversi
gruppi che compongono la società complessiva, regolazione che si colloca nell’ambito di una
generale solidarietà che caratterizza la società stessa, nonostante le sue divisioni interne, e che
costituisce un legame di natura; regolazione secondo la quale l’istanza sociale inferiore accetta di
essere sostituita da quella superiore solo nello svolgimento dei compiti che ritiene al di sopra delle
proprie possibilità.
17
Lettura questa che ha trovato conferme nella stessa storia della Germania del secolo scorso,
dove uno dei primi atti della politica costituzionale del nazionalsocialismo è consistito proprio
nell’abolizione del federalismo, ossia di uno dei caratteri strutturali del costituzionalismo tedesco;
12
federalismo come tecnica di divisione verticale del potere, nonché l’idea
che, in un sistema federale, l’allocazione delle funzioni debba avvenire in
base al principio di sussidiarietà, riservando al centro i soli compiti che non
possono essere svolti in periferia
18
.
Il rapporto federalismo-sussidiarietà si presenta anche sotto un altro aspetto,
sviluppato soprattutto in Svizzera, dove si sostiene che il federalismo è
espressione di una democrazia più compiuta di quella propria degli Stati
unitari centralizzati: si osserva, infatti, che i cittadini sono in grado di
partecipare più attivamente alla vita del proprio comune che a quella dello
Stato. Di qui l’idea che la sussidiarietà sia strettamente legata alla
democrazia, che troverebbe così le proprie più intense esplicazioni negli
ordinamenti di minore dimensione.
Occorre precisare, però, che la sussidiarietà appare sì intimamente collegata
all’incremento del ruolo e del peso delle formazioni sociali minori, in
particolare delle comunità locali, ma il perseguimento del federalismo non
coincide col perseguimento della sussidiarietà. Nella prima nozione è
presente l’individuazione e la valorizzazione di un livello particolare di
governo e di amministrazione (normalmente individuato con il livello
geografico regionale) che invece manca nella seconda: nel concetto di
sussidiarietà vi è il rilievo delle comunità od enti, locali o funzionali; ma il
principio non può essere ridotto alla semplice allocazione delle decisioni
pubbliche al livello più vicino ai cittadini interessati, in quanto racchiude
una più complessa valutazione del ruolo delle comunità o degli enti locali e
della loro capacità di farsi carico di un bisogno sociale e pubblico
19
.
al termine della guerra, poi, le forze alleate hanno esercitato pressioni affinché la Germania
ritornasse, come successivamente è avvenuto, alla sua tradizione federale.
18
Il modello delle esigenze garantistiche sottese alla divisione verticale dei poteri è largamente
teorizzato dalla dottrina giuspubblicistica tedesca e ripreso in Italia, per il regionalismo, da A.
Bardusco, Lo Stato regionale italiano, Milano, 1980, pp. 209 ss.
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Anticipando quanto verrà approfondito in seguito, in merito cfr. L. Violini, Il principio di
sussidiarietà, cit., pp. 57-58: «Sul piano più strettamente giuridico, il principio di sussidiarietà ha
una duplice valenza: esso indica sia un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato, formazioni
sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di distribuzione delle competenze tra
Stato e autonomie locali (sussidiarietà verticale). In quest’ultima accezione esso ripropone la
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Il federalismo racchiude alcuni valori della sussidiarietà
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, ma non ne offre
da solo il conseguimento. La sussidiarietà – intesa come il riconoscimento
dimensione federale propria dello Stato, secondo la quale la ripartizione del potere tra diversi
livelli territoriali è essenziale per realizzare quella vicinanza dei governanti ai governati, valore
primario della democrazia. Al principio federale tradizionale il principio di sussidiaretà verticale
aggiunge un elemento importante, costituito dalla necessità di giustificare l’esercizio, da parte del
livello di governo superiore, delle competenze attribuite per costituzione sulla base di accertate
inadeguatezze del livello inferiore. Cade così uno dei dogmi classici della teoria dello Stato di
stampo ottocentesco, quello secondo cui la decisione del legislatore non richiede giustificazioni,
essendo questi, a priori, l’interprete della “volontà generale”. Sussidiarietà verticale, invece,
significa valutazione dello stato dei fatti, perseguimento di efficienza, valorizzazione di iniziative
decentrate, in vista di una realizzazione effettiva e non presunta del bene comune. (…) Nel suo
significato di sussidiarietà orizzontale questo principio, affermando che lo Stato interviene solo
quando l’autonomia della società risulti inefficace, si contrappone all’idea di una cittadinanza di
mera partecipazione e promuove invece una cittadinanza di azione in cui è valorizzata la genialità
creativa dei singoli e delle formazioni sociali. Così viene riconosciuto alla persona il diritto di
iniziativa, se ne afferma a un tempo la responsabilità sociale e si valorizza la persona stessa come
protagonista della vita associata, soggetto capace di rispondere, nella libera associazione con altri,
a esigenze e bisogni della società. In questa sua valenza antistatalistica e antiassistenzialista il
principio di sussidiarietà non è tuttavia esauribile nell’ipotesi neoliberale dello “Stato minimo”,
che dovrebbe limitarsi ad assicurare le condizioni esterne per l’ordine pubblico e per la sovranità
internazionale della nazione. (…) la sussidiarietà fonda un’idea di Stato che implica la necessità
dell’intervento promozionale o ordinatore e coordinatore dello Stato stesso a favore
dell’incremento e dell’incentivazione di una cultura della responsabilità. (…) Se dunque
sussidiarietà verticale è più di federalismo, sussidiarietà orizzontale è più di liberismo, cosicché
entrambe convergono a identificare una nuova e originale concezione dello Stato e dei rapporti che
esso deve istituire con la società, tale per cui l’azione del primo si affianca a quella dei vari
soggetti sociali nel perseguimento del bene comune».
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Per una ricostruzione degli elementi di “federalismo” che appaiono connessi con il principio di
sussidiarietà, cfr. P. De Carli, Sussidiarietà e governo economico, cit., in particolare: «Vi è un
contenuto profondo che è comune ai valori richiamati di “federalismo” e “sussidiarietà”, che va al
di là dei meccanismi costituzionali e che attinge alle radici storiche delle popolazioni e alle loro
peculiari caratteristiche etniche e culturali. (…) il vero fondamento del termine “federalismo” è di
tipo “culturale”. La preservazione e la valorizzazione del pluralismo e delle diversità culturali sono
elementi essenziali presenti al livello costituzionale di diversi ordinamenti. Connessa con il
fondamento “culturale” del “federalismo” sta la regola procedimentale della sua “derivazione dal
basso”. Le minori comunità debbono potere dimostrare la propria volontà e capacità di
autoregolamentazione e nella misura del possibile, devono esse stesse definire l’area e la quantità
di attribuzioni che ritengono di essere in grado di gestire. Si affaccia qui un aspetto che non rientra
soltanto nella lata nozione di federalismo ma che è intimamente connesso con il concetto di
sussidiarietà dell’intervento dello Stato centrale. (…) I due principi fondamentali sopraespressi
comportano inoltre la riduzione ad un grado minimo della predeterminazione normativa delle
competenze e delle attività dei singoli livelli. La limitazione massima degli interventi normativi
preventivi dei livelli superiori diretti alla delimitazione e al ritaglio delle competenze dei livelli
inferiori porta ad un federalismo calato nel concreto, e si dimostra particolarmente consonante col
principio di sussidiarietà che implica in molti casi la preservazione degli “spazi bianchi” della
legislazione e la tutela di essi. Non appare conforme a codesta prospettiva addivenire ad elenchi
chiusi di competenze anche con meccanismo residuale, ma redigere elenchi solo delle funzioni che
sicuramente possono spettare ora al livello statale ora a quello locale». Altri «elementi del
federalismo particolarmente consonanti con il principio di sussidiarietà» sono individuati dall’A.
nella necessità di «tutele garantistiche di tipo giuridico e politico dei livelli statali o regionali»
(anche sotto questo profilo infatti i due valori mostrano analoghe esigenze), nonché nella
«possibilità del riconoscimento (politico-amministrativo) degli enti territoriali minori nel livello
regionale intermedio». In particolare, in riferimento a quest’ultimo aspetto l’A. specifica che «Se il
concetto di federalismo fonda sull’aspetto culturale e sulla derivazione dal basso, occorre sia
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alle minori comunità della possibilità di svolgere i compiti e le attività che
sono in grado di realizzare da sole, così che le decisioni siano assunte dalle
autorità più vicine ai cittadini interessati – è un processo autonomo che
volge nella stessa direzione del federalismo, ma non si esaurisce in esso
21
.
preservata la possibilità della solidarietà fra enti locali (…). Una piatta pariordinazione
amministrativa fra enti territoriali, così come un collegamento amministrativo degli enti locali allo
Stato, privilegiato rispetto al collegamento alla Regione, rischiano di provocare appiattimenti verso
il basso, riducendo in sostanza le capacità aggregative, le sinergie e in definitiva la valenza della
stessa autonomia. La pariordinazione così come i collegamenti e le dipendenze privilegiati, con
salti e omissioni dei livelli intermedi, si pongono anche, con tutta evidenza, in contrasto col
principio di sussidiarietà che non si basa sulla specializzazione delle competenze e non ammette
salti di livello fra enti territoriali a carattere rappresentativo. Il principio autonomistico e quello
della sussidiarietà, proprio perché fondano originariamente sulle caratteristiche storico-culturali ed
etniche delle popolazioni, che non sono frazionabili secondo i confini amministrativi degli enti
locali costituiti, importano la possibilità della cooperazione e della solidarietà fra gli stessi. La
solidarietà fra enti territoriali, basata sui comuni elementi culturali, è complementare
all’applicazione della sussidiarietà e implicata da questa ed è condizione e modalità essenziale
perché l’autonomia possa costituirsi “dal basso”» (pp. 47 ss.).
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Cfr. F. Benvenuti, Intervento al Convegno Sussidiarietà e Pubbliche Amministrazioni, Bologna
25-26 settembre 1995, in Sussidiarietà e Pubbliche Amministrazioni, Rimini, 1997, pp. 45 ss.,
dove si sottolinea l’inerenza del principio con l’amministrazione e l’organizzazione
amministrativa: «Dirò subito che il principio di sussidiarietà non può non essere posto a base per
chiunque voglia scrutare l’amministrazione nella sua realtà. La sussidiarietà è, in effetti, il
principio finale dell’evoluzione, nella quale noi stiamo vivendo come società civile,
giuridicamente ordinata. Se si tratta, allora, di un principio informatore della società, ne deriva
anche che esso non può non essere principio informatore dell’organizzazione amministrativa, se è
valida la formula secondo la quale “l’amministrazione è funzione della funzione”, estendendosi
così il concetto da amministrazione ad organizzazione». Sul rapporto federalismo-sussidiarietà,
cfr. P. Koslowski, La società civile nell’epoca postmoderna, in P. Donati (a cura di), L’etica civile
alla fine del XX secolo, Milano, 1997, pp. 45 ss.: «L’onus probandi, l’onere della prova, riguardo
ai vantaggi del trasferimento di una funzione da una comunità più piccola a una più grande spetta
alla più grande. Il principio di sussidiarietà è un principio per strutturare il mondo sociale, che
combina un principio di fatto (la struttura della competenza e della responsabilità deve discendere
dalla natura della questione che si affronta, e non dalla decisione di un’autorità centrale) con un
principio di distribuzione dell’onere della prova (ogni centralizzazione di un compito deve
dimostrare la sua superiorità rispetto alla soluzione decentralizzata). Il principio di sussidiarietà,
pertanto, non è identico al principio di decentralizzazione, o al federalismo. Il principio di
sussidiarietà può richiedere il decentramento in certe circostanze, ma in altre può invece implicare
la realizzazione di strutture centralizzate, quando questa soluzione sia consigliata dalla natura delle
questioni (…). Il decentramento è solo una precondizione del principio di sussidiarietà» (pp. 74-
75). Sullo stesso argomento, v. altresì R. Bin, I decreti di attuazione della «legge Bassanini» e la
«sussidiarietà verticale», in Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali. Esperienze a confronto,
cit., pp. 183 ss., secondo il quale «sussidiarietà» e «federalismo»: «Spesso le due parole sono state
usate assieme, come se si integrassero, se non addirittura sovrapponessero. E’ difficile dire se così
sia, dato che si tratta di due termini molto evocativi, ma di assai difficile definizione nel linguaggio
tecnico-giuridico: e forse oggi, nell’uso che se ne sta facendo nel linguaggio politico e legislativo, i
due termini stanno ormai assumendo addirittura ruoli conflittuali, concorrenziali. (…) In Germania
i Lander hanno assunto la sussidiarietà come chiave della difesa del proprio ruolo contro il
pericolo che la nascita dell’Unione europea giustificasse una espansione delle funzioni degli
organi comunitari e del Bund a loro danno: da qui la richiesta di inserire la sussidiarietà prima nel
Trattato di Maastricht, poi nella novella del Grundgesetz. Nel lessico tedesco, quindi, sussidiarietà
si coniuga a federalismo: è il Trattato dell’Unione europea , il primo livello, a garantire i Lander, il
terzo livello, nei confronti del Bund, secondo livello. In Italia la sussidiarietà presenta la stessa
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2. Il nucleo essenziale del principio ed il criterio di preferenza che ne è
alla base
Come visto, diverse sono le radici del principio di sussidiarietà ed
eterogenei i valori posti alla sua base: in sintesi, il valore (etico) del primato
della persona, cui fa riferimento la dottrina sociale cattolica (soprattutto a
partire dall’Enciclica “Quadragesimo anno” del 1931); i valori della libertà
individuale e del mercato, secondo la tradizione liberale; i diversi valori, di
volta in volta, posti alla base degli assetti federali, come il principio
democratico o come le esigenze garantistiche sottese al modello della
divisione verticale dei poteri.
E’ possibile comunque individuare un nucleo essenziale del principio,
sintetizzabile nell’idea che nei rapporti tra entità istituzionali e sociali di
diversa dimensione, la preferenza sia da accordare a quelle minori, e che gli
interventi delle entità maggiori si giustifichino solo in quanto siano rivolti a
sopperire ad eventuali inadeguatezze delle prime
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.
Può rilevarsi, dunque, che il principio di sussidiarietà presenta anzitutto un
carattere essenzialmente “relazionale”, applicandosi ai rapporti tra entità
struttura triadica del sandwich, solo che il dibattito è sceso di un piano: la sussidiarietà è stata
impiegata dalle rappresentanze nazionali degli enti locali (ANCI, UPI, ecc.) per chiedere allo Stato
protezione e garanzie contro le Regioni. Sussidiarietà, quindi, nel nostro lessico “vigente” si
oppone a federalismo, perché qualsiasi versione di federalismo che si voglia predicare vede
comunque le Regioni come soggetto co-protagonista, accanto allo Stato federale. Il percorso che la
Camera ha fatto dal federalismo alla sussidiarietà è stato quindi un percorso dall’esaltazione del
ruolo delle Regioni all’esaltazione del ruolo dei Comuni e degli altri enti locali» (p. 187).
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Da questa (generalissima) definizione traspare la carica garantistica del principio stesso, in
merito alla quale cfr. A. D’Atena, L’Italia verso il federalismo, cit., p. 321, secondo cui il principio
di sussidiarietà «si pone in tensione dialettica con uno dei principi fondanti del costituzionalismo
moderno e contemporaneo: il principio maggioritario, dal momento che il modello della
sussidiarietà è rivolto a salvaguardare l’autonomia di gruppi minoritari nei confronti della
collettività generale e delle maggioranze politiche che in essa si enucleano». V. altresì I. Massa
Pinto, Il principio di sussidiarietà, cit., pp. 38-39: «il principio di sussidiarietà, come principio
generale di organizzazione sociale, viene formulato in aperta polemica con i principi dello Stato
liberale moderno. La filosofia politica di cui il principio di sussidiarietà risulta essere un mero
corollario è dunque da ricercare nelle teorie controrivoluzionarie che sin dall’inizio si opposero a
quei principi». E ancora: «il principio di sussidiarietà negli ordinamenti moderni (…) spesso
invocato quale strumento alternativo a quello della rappresentanza politica moderna propria dello
Stato-nazione e necessario al fine di elaborare nuove forme di presunte entità ordinamentali
postmoderne (come l’Unione europea)».