7
(vedremo allora perché accade questo). Con un approccio che si avvicina
all’analisi delle politiche pubbliche, andrò quindi a definire gli elementi
di peculiarità del modello di policy “originario” [Gualmini, 1998], la rete
degli attori e delle relazioni rilevanti e delle attività implementate,
attraverso anche la ricostruzione di alcuni casi empirici di studio, per
arrivare a definire da un lato i progressi raggiunti, dall’altro le sfide
ancora irrisolte.
Più in dettaglio, i primi due capitoli sono dedicati alla definizione del
contesto di riferimento obbligato per le politiche di genere, ovvero
all’analisi dell’integrazione del principio della parità tra i sessi nel policy
making comunitario. Nel primo capitolo, in particolare, verranno
ripercorse le fasi più significative di questo processo. Nel secondo, dopo
aver analizzato lo sviluppo delle politiche di genere in chiave sociale, si
procederà allo studio di alcune delle problematiche vissute dalle donne
nel mondo del lavoro e delle relative proposte di soluzione.
Nel capitolo che segue, attraverso un’ampia contestualizzazione della
normativa e del processo di institution building, procederò alla
ricostruzione delle caratteristiche del modello di policy italiano, e di
come questo è mutato alla luce delle pressioni adattive provenienti dal
livello sovranazionale. L’esempio dell’Emilia-Romagna, nel quarto
capitolo, mette in luce il mancato salto di qualità nell’approccio alle
politiche di genere, malgrado rappresenti uno dei contesti regionali più
avanzati e gender sensitive. A questo proposito, i casi empirici di studio
presentati, basati sulle interviste che ho condotto con responsabili delle
amministrazioni regionali, provinciali e comunali della nostra regione,
mostrano, a fronte di innovazioni di policy, la persistenza di forti legacies
culturali.
Nelle conclusioni, verranno quindi ricostruite, a mo’ di risultato di
questa ricerca, le caratteristiche del processo di mutamento di policy
italiano e del problema di fondo che impedisce la piena partecipazione
femminile al mercato del lavoro.
9
I CAPITOLO
LA GRADUALE INTEGRAZIONE DELLE POLITICHE
DI GENERE NEL POLICY MAKING COMUNITARIO
1. Il lavoro femminile nella costruzione europea
Uno degli ambiti di policy più sviluppati e prolifici dell’Unione
Europea è oggi quello della politica di genere
1
, in particolare nella
versione applicata al mercato del lavoro, di cui ormai costituisce la
chiave di volta [CNEL, 2002]. Si tratta anche di uno dei settori che più è
riuscito, rendendola sempre più europea [Donà, 2004], a indirizzare
l’azione degli Stati membri, anche perché molti di essi erano sprovvisti di
una regolamentazione antecedente alle iniziative comunitarie in materia.
Il policy making europeo ha così influenzato, in parte, l’imprinting dei
suoi membri, in particolare di quelli più in ritardo nell’avviare
un’organica politica di parità, prima, e di pari opportunità, poi. Le
difficoltà e i pregiudizi incontrati per ampliare l’importanza di questo
settore all’interno del processo di integrazione europea sono stati
rilevanti, e non si può dire che siano stati superati completamente.
Nonostante i progressi che si sono prodotti parallelamente e in seguito
all’aumentata partecipazione femminile al lavoro negli ultimi 30-40 anni,
la parità di opportunità in campo professionale è un traguardo ancora da
raggiungere. Perciò è utile ripercorrere il cammino di sviluppo di
quest’area di intervento che si intreccia con la politica sociale, visti gli
1
Il termine genere traduce l’inglese gender. Presente nella letteratura anglosassone dagli anni ’70, il
vocabolo è utilizzato “per significare non tanto le differenze biologiche tra uomini e donne, quanto il
fatto che donne e uomini rivestono ruoli differenti nella società ed hanno relazioni sociali differenti a
seconda delle determinanti storiche, religiose, etniche, economiche e culturali, e che comunque in
queste relazioni sociali le donne vengono sistematicamente subordinate” [citazione tratta da B.
Pomeranzi, Prospettiva Pechino, “DWF”, n. 1, 1985, ripresa da L. Migale, Imprenditoria femminile e
sviluppo economico, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996, p. 17]. L’analisi condotta a partire dal
genere permette uno studio più completo e preciso della realtà, in quanto significa guardare “not only
at the category “women” – since that is only half the story – but at women in relation to men, and the
way in which relations between these categories are socially constructed” [citazione tratta da C.
Moser, Gender planning and development, London-New York, Routledge, 1993, riportata in Migale,
ivi, p. 42].
10
effetti che la maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro
produce sulle dinamiche della società.
1.1. Le origini
Fin dal Trattato di Roma (1957) la Comunità europea si è occupata
espressamente del problema della disuguaglianza di genere, stabilendo
nell’unico articolo che si occupa di questo tema il “principio della parità
delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso
femminile per uno stesso lavoro” (art. 119)
2
. Tuttavia la disposizione,
inserita in seguito alle pressioni del governo francese
3
piuttosto che per
esprimere il riconoscimento di un diritto delle donne da parte degli Stati
membri, non ha portato allo sviluppo immediato di una politica di pari
opportunità “a tutto campo”, ma è rimasta all’ombra delle esigenze e dei
bisogni economici, perché l’idea era che la costruzione del mercato unico
avrebbe poi generato dei vantaggi anche per tutti i lavoratori europei. Si
tratta di una norma dalla doppia “anima”: da una parte è collocata nelle
disposizioni di carattere sociale, dall’altra rientra nel disegno del mercato
comune, siccome vuole evitare che l’utilizzo di manodopera femminile
meno costosa rispetto a quella maschile possa falsare la concorrenza. Il
maggior spazio lasciato dal Trattato alle disposizioni di carattere
economico, rispetto a quelle di carattere sociale, si spiega a partire dal
fatto che uno sviluppo armonioso delle attività economiche era ritenuto
premessa indispensabile, e a volte anche sufficiente, per risolvere le
questioni sociali (v. art. 117): la concentrazione dell’attenzione e degli
sforzi sull’obiettivo dell’integrazione, quindi, non è fine a se stessa, ma è
considerata un mezzo per realizzare un miglioramento sempre più rapido
del tenore di vita. Per lo stesso motivo, l’iniziativa legislativa della
Commissione europea era consentita esclusivamente in ambiti “che
2
Oggi art. 141 TCE che aggiunge: “o per un lavoro di pari valore”.
3
La Francia, dotata di una legislazione che fissava la parità salariale tra uomo e donna, temeva di
soffrire uno “svantaggio competitivo” se gli altri Stati membri non avessero osservato la stessa regola
normativa.
11
[avessero] incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del
mercato comune” (art. 100).
Sebbene in questa prima fase le donne vengano in rilievo solo come
potenziali elementi di distorsione della concorrenza, anziché come
soggetti discriminati, il passaggio dalle affermazioni di principio
all’attuazione non è stato né rapido né facile; lo dimostra il fatto che,
nonostante l’inadempienza degli Stati membri nel recepire la normativa
comunitaria, le prime iniziative risalgono a circa 20 anni dopo la nascita
della CEE. Infatti è solo del 1974 la Risoluzione del Consiglio dei
Ministri che, nell’ambito di un Piano Sociale d’Azione, introduce azioni
dirette a realizzare la parità di trattamento fra uomo e donna e, nelle
materie considerate (accesso al lavoro, formazione, promozione
professionale, condizioni di lavoro, salute e sicurezza dei lavoratori), i
primi standard minimi e la spinta verso una collaborazione fra paesi. In
seguito, grazie anche all’intervento sempre più attivo della Corte di
giustizia europea, il principio di non discriminazione viene collegato agli
obiettivi sociali del Trattato
4
e inizia così a vedere esteso (lentamente) il
suo significato attraverso l’adozione di Direttive
5
, le prime delle quali
recepiscono sentenze della Corte stessa.
La Direttiva 75/117/CEE
6
si inserisce nel dibattito circa
l’interpretazione e la portata dell’art. 119, chiarendo che il principio della
parità salariale è da intendersi sia letteralmente “per uno stesso lavoro”
sia nel senso più ampio “per un lavoro al quale è attribuito uguale valore”
(comparable worth). Può sembrare una specificazione di poco conto, ma
occorre pensare a quanto il lavoro femminile fosse tenuto in scarsa
4
La CGE nella sentenza Defrenne II, 8 aprile 1976, causa 43/75, afferma infatti che la Comunità “non
si limita all’unione economica, ma deve garantire al tempo stesso, mediante un’azione comune, il
progresso sociale e promuovere il costante miglioramento delle condizioni di vita dei popoli europei”
[citazione riportata in Mengozzi, 1997, p. 330].
5
Si tratta di provvedimenti vincolanti aventi carattere generale che però necessitano (a differenza dei
Regolamenti) di essere recepiti negli ordinamenti nazionali. Le Direttive indicano gli obiettivi ed i
tempi per raggiungerli, ma lasciano agli Stati la libertà di decidere sulle forme e sui modi di attuazione.
6
Il provvedimento si occupa del riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative
all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra lavoratori e lavoratrici.
12
considerazione, anche dalle stesse teorie economiche
7
, sulla base di
caratteristiche che venivano associate alla forza lavoro femminile (quali
ad esempio una minore produttività, un minor attaccamento al lavoro,
una minore disponibilità a cambiamenti di orario, una maggiore
probabilità di assenze o interruzioni), rendendola meno affidabile e
sistematicamente più costosa. Questa disposizione ha richiesto un’ampia
revisione dei sistemi di classificazione e di valutazione professionale,
rimuovendo ogni discriminazione basata sul sesso, eppure le difficoltà
nell’applicazione del principio non sono diminuite dato che la Direttiva
non tiene conto a sufficienza di quella che è la condizione di partenza
della donna nel mondo del lavoro: formazione professionale inadeguata,
segregazione orizzontale e verticale
8
, discriminazioni in materia di
sicurezza sociale e di condizioni lavorative. Sulla base di queste
considerazioni è stata adottata la Direttiva 76/207/CEE
9
sull’uguaglianza
di accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e
delle condizioni di lavoro. Per ciò che riguarda l’accesso al lavoro,
vengono considerati anche i criteri di selezione del personale, tra i quali
viene considerato nullo l’accertamento dello “stato matrimoniale o di
famiglia”. La definizione di discriminazione, dunque, si amplia fino a
comprendere le forme indirette. Con questa Direttiva, inoltre, si rendono
legittime le azioni positive, dato che la semplice statuizione della parità
formale non è sufficiente da sola per raggiungere la parità sostanziale.
Per azioni positive si intendono tutte quelle misure di sostegno e
promozionali che intendono neutralizzare o compensare gli effetti
prodotti sull’occupazione femminile dalle discriminazioni passate,
eliminare le discriminazioni ancora presenti, sostenere la parità di
opportunità (non più solo di trattamento) tra i sessi. Tra gli interventi
ritenuti più efficaci rientrano quelli destinati al sistema educativo e di
formazione professionale, in modo da orientare le scelte femminili allo
7
Per una rassegna critica delle principali teorie si veda L. Abburrà, L’occupazione femminile dal
declino alla crescita. Problemi risolti, soluzioni problematiche, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989.
8
Per segregazione orizzontale si intende la concentrazione di forza lavoro femminile in determinati
settori (in particolare in quelli meno qualificati), mentre con l’espressione segregazione verticale si fa
riferimento alle difficoltà di carriera e di progressione verso l’alto, riscontrate dalle donne.
9
Modificata dalla Direttiva 2002/73/CE.
13
scopo di garantire alle future lavoratrici nuovi sbocchi e un ventaglio più
ampio di opportunità lavorative
10
. La Direttiva 79/7/CEE relativa alla
parità in materia di sicurezza sociale obbligatoria chiude questa prima
“ondata legislativa”
11
che mostra come si stiano superando le motivazioni
iniziali di parificazione delle condizioni della concorrenza per dirigersi
più verso il versante sociale della questione.
1.1.1. La “paralisi neoliberale”
Nel frattempo, la Commissione, dagli anni ’80, si è dotata di un
quadro istituzionalizzato composto da un Comitato consultivo per
l’uguaglianza di opportunità tra donne e uomini
12
, in vista di
consultazioni regolari e di condivisione delle informazioni con le parti
responsabili in materia degli Stati membri, e da Programmi d’azione a
medio termine per le pari opportunità (il primo partito nel 1981, con una
durata di 5 anni ciascuno). Questi ultimi possono “definirsi come
quell’insieme di obiettivi programmatici che rappresentano i punti di
riferimento di quanto disposto dai vari interventi di natura normativa,
adottati o da adottare dagli organi e dagli Stati membri della Comunità
europea, in un quadro di concretizzazione di azioni positive, tendenti alla
progressiva realizzazione della parità di opportunità tra uomini e donne”
[Fasano e Mancarelli, 2001, p. 32]. Le prime linee d’intervento, previste
10
Questi concetti verranno ripresi dal Consiglio nella Raccomandazione 635/CEE del 13 dicembre
1984, nella quale si prende atto dell’inadeguatezza della normativa nell’eliminare le disparità di fatto e
della necessità di correggere il funzionamento del mercato del lavoro qualora si presentino situazioni
discriminatorie. Si chiede pertanto di incoraggiare la partecipazione femminile nelle diverse attività
professionali, anche attraverso il ricorso alle azioni positive (di cui viene fornito un elenco
esemplificativo) e con la collaborazione delle parti sociali.
11
Seguiranno poi: Direttiva 86/378/CEE sulla parità nei regimi professionali e di sicurezza sociale,
modificata dalla Direttiva 96/97/CE che aggiunge la nozione di molestie sessuali tra le discriminazioni
basate sul sesso; Direttiva 86/613/CEE che applica il principio di parità di trattamento al lavoro
autonomo; Direttiva 92/85/CEE sulla sicurezza e sulla salute sul lavoro in relazione al tema della
maternità; Direttiva 96/34/CE in cui si parla di congedi parentali; Direttiva 97/80/CE relativa all’onere
della prova in caso di discriminazione basata sul sesso, modificata dalla Direttiva 98/52/CE; Direttiva
97/81/CE sul lavoro a tempo parziale; Direttiva 2004/113/CE sull’accesso a beni e servizi (primo
provvedimento ad estendere il principio di parità al di là dell’ambito lavorativo).
12
Istituito con Decisione 82/43/CEE della Commissione del 9 dicembre 1981, modificato con
Decisione 95/420/CE della Commissione del 19 luglio 1995.
14
da questi programmi a sostegno dell’occupazione e della formazione
femminile, sono rivolte più che altro a creare un nuovo ambito di studio e
d’azione, controllando l’applicazione delle Direttive sulla parità, aiutando
le donne a prendere coscienza dei loro diritti, migliorando la conoscenza
del mondo del lavoro al femminile anche attraverso l’elaborazione di dati
statistici disaggregati per sesso, dando impulso alle azioni positive a
favore dell’integrazione delle donne nel mercato del lavoro, sviluppando
uno scambio di informazioni, armonizzando politiche generali e azioni
specifiche, migliorando la posizione sociale delle donne nella società.
Nel 1991, poi, all’interno del contesto dei Fondi Strutturali (FS), la
Commissione ha avviato l’Iniziativa Comunitaria NOW (New
Opportunities for Women) che propone azioni in campi in cui le donne
registrano un tasso di partecipazione piuttosto basso e che si rivolge a:
giovani disoccupate poco qualificate, disoccupate di lunga durata, donne
che vogliono rientrare nel mondo del lavoro, lavoratrici disoccupate o
minacciate dalla disoccupazione nelle regioni in ritardo di sviluppo. Il
tentativo è quello di una riqualificazione professionale delle interessate,
accanto a una serie di misure di appoggio, quali la creazione di strutture
di supporto nella cura dei figli. Si tratta di interventi innovativi in quanto
da un lato sono i primi a tentare di ridurre la segregazione occupazionale
e dall’altro coinvolgono i diversi attori, pubblici e privati, che possono
influire sulla condizione femminile nel mondo del lavoro.
I progetti e le idee non mancano, ma, poiché per questa materia nel
Consiglio è richiesta l’unanimità
13
, la loro realizzazione è in gran parte
paralizzata e/o ridimensionata dal veto inglese
14
all’ampliamento delle
competenze sociali della Comunità. È in questo periodo che, in mancanza
di nuove regole legislative relative al mercato del lavoro (soprattutto in
seguito alle resistenze britanniche), si afferma la rilevanza della
13
Neanche con l’Atto Unico europeo il vincolo del voto unanime viene superato, perché le votazioni a
maggioranza sono ammesse solo nelle materie riguardanti la salute e la sicurezza dell’ambiente di
lavoro (art. 118A), mentre sono esplicitamente escluse quelle relative a diritti e interessi dei lavoratori
(art. 100A.2).
14
Negli anni ’80 la Gran Bretagna, arroccata su posizioni neoliberiste ed euroscettiche, si opponeva
alla regolamentazione della vita lavorativa, bocciando le ripetute proposte della Commissione,
facendosi invece portatrice di istanze di deregolamentazione.
15
partecipazione dei partner sociali, in qualità di soggetti per
l’implementazione delle politiche del lavoro, all’attività politica della
Comunità attraverso i cosiddetti Pareri comuni [Antonelli e Paganetto,
1999]. Il fatto che il Trattato non preveda consultazioni tra attori pubblici
e parti sociali non ha impedito a queste ultime di diventare, in via
consuetudinaria, “interlocutori sistematici” delle autorità comunitarie
[Roccella e Treu, 2002]. L’Atto Unico Europeo recepisce questo
sviluppo, stabilendo all’art. 118B l’impegno della Commissione a
sviluppare il dialogo tra le parti sociali (detto anche sussidiarietà
orizzontale), con la possibilità per queste di definire relazioni
convenzionali, ovvero veri e propri contratti collettivi a livello
comunitario [Fasano e Mancarelli, 2001].
Con l’arrivo di Jacques Delors alla Presidenza della Commissione, il
tema delle condizioni e delle politiche sociali e del lavoro ottiene uno
status paritario rispetto all’obiettivo del mercato unico, anzi i due aspetti
vengono collegati in modo da rafforzarsi a vicenda: “la realizzazione del
mercato interno costituisce il mezzo più efficace per creare posti di
lavoro e per assicurare il massimo benessere nella Comunità; lo sviluppo
e la creazione di posti di lavoro devono costituire l’obiettivo prioritario
nella realizzazione del mercato interno”
15
. Questa parziale modifica nel
modo di pensare avviene perché i dati relativi al mercato del lavoro negli
Stati membri, con un ritardo nel tasso d’occupazione di oltre dieci punti
percentuali rispetto agli Stati Uniti e al Giappone e un tasso di
disoccupazione in aumento, cominciano a destare preoccupazione, visto
che il loro andamento mina non solo la “dimensione sociale” (nel 1985
sono 15 milioni i disoccupati, ovvero i cittadini che rischiano di
trasformarsi in una categoria di esclusi dalla società) ma anche, proprio in
vista dell’unificazione economica e monetaria, la competitività europea. I
progressi verso un mercato e una moneta unici non trovano un riscontro
equivalente sul versante dell’occupazione: nonostante una fase espansiva
dell’economia di circa 5 anni, all’inizio degli anni ’90 la disoccupazione
continua a interessare comunque più di 12 milioni di persone, mostrando
15
Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, Strasburgo, 9 dicembre 1989,
approvata da 11 Paesi escluso il Regno Unito [citazione riportata in Deidda, 1991, p. 29].
16
così la sua persistenza al di là del ciclo economico e la necessità di porre
rimedio al problema “seriamente”. Il periodo di crisi che è seguito ha poi
cancellato la metà dei posti di lavoro creati alla fine degli anni ’80. È in
questo contesto che si inserisce l’analisi della Commissione nel suo più
noto e commentato Libro Bianco, quello dedicato al trinomio crescita,
competitività e occupazione
16
.
1.2. Il Libro Bianco di Delors
A più di un decennio di distanza, si può dire che l’importanza di
questo Libro Bianco non risiede tanto nella sua applicazione diretta,
quanto nella sua capacità di alimentare la riflessione, chiarendo le radici
del problema disoccupazione e proponendo una serie di soluzioni, che,
come si vedrà, verranno riprese mano a mano dai successivi vertici
europei. Il documento ha aperto la strada, anche se dietro l’urgenza della
crisi economica, ad un approccio di livello comunitario, prima di tutto, e
poi che si preoccupi “della qualità, e non più solo della quantità, […]
dello sviluppo economico”
17
.
La recessione dei primi anni ’90 non ha fatto che aggravare un
fenomeno che ha iniziato a manifestarsi dalla metà degli anni ’70, quello
della jobless growth, per cui le economie europee, nei periodi di crescita,
non riescono nemmeno a riassorbire le perdite di posti di lavoro avvenute
nelle fasi discendenti del ciclo. I fattori individuati a spiegazione di
questa “sindrome”, e sui quali occorre quindi intervenire, sono:
▪ mercati europei del lavoro strutturalmente poco flessibili;
▪ scarsa attenzione al livello di qualificazione della forza lavoro da
parte delle politiche per l’occupazione;
▪ elevati costi del lavoro, in particolare per i lavoratori meno
qualificati, associati ad una
16
Commissione Europea, Libro bianco: Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da
percorrere per entrare nel XXI secolo, Bruxelles, Comunità Europee, 1993.
17
E. Balboni, in E. Balboni, E. Gualmini e F. Timpano (a cura di), Coesione sociale e politiche attive
del lavoro nelle regioni d’Europa, Forlì, Fondazione Ruffilli, 2003, p. 14.
17
▪ specializzazione in settori tradizionali e poco innovativi, perciò più
esposti ad una concorrenza internazionale basata sui costi di
produzione, che ha portato ad una
▪ inadeguata capacità di adattamento della struttura economica.
Le proposte, partendo dall’inviolabilità del cd. “modello sociale
europeo”
18
e dal fatto che la ripresa economica da sola non avrebbe
effetto senza un corrispondente incremento nell’intensità occupazionale
della crescita stessa, vanno a delineare una strategia comunitaria che
ruota attorno a due grandi temi: il rilancio degli investimenti pubblici e
privati e il cambiamento delle condizioni del mercato del lavoro.
Un aumento degli investimenti avrebbe l’effetto di accrescere la
competitività e la capacità produttiva del sistema, invertendo
l’andamento del suo tasso di crescita potenziale
19
che dal 4,5% degli anni
’60 è passato ad appena il 2% negli anni ’90 [Antonelli e Paganetto,
1999]. I progetti verso cui questi investimenti vanno direzionati sono la
ricerca e lo sviluppo, i settori tecnologicamente più avanzati (la
biotecnologia, l’elettronica, gli audiovisivi, le reti d’informazione e
telecomunicazione), la realizzazione di reti transeuropee di infrastrutture,
la promozione di una crescita sostenibile sia dal punto di vista della
stabilità monetaria che da quello ambientale. Proprio la protezione e la
conservazione delle zone naturali, degli spazi pubblici, delle aree urbane
vengono individuate, insieme ai servizi personali, di assistenza, di
custodia, culturali, ricreativi, alle attività sociali, come uno dei possibili
nuovi bacini d’impiego, in seguito a nuovi bisogni generati dal
cambiamento degli stili di vita, dalla trasformazione delle relazioni, dal
progressivo invecchiamento della popolazione.
Oltre a creare nuove tipologie di impiego, è indispensabile una
profonda riforma del mercato del lavoro a partire dal costo elevato del
lavoro, specialmente di quello a basso livello di qualificazione, la cui
domanda, invece, subisce un costante e generalizzato declino (questo
18
Con questa etichetta si fa riferimento a un modello di sviluppo fondato sulla ricerca tanto della piena
occupazione quanto di una maggiore coesione sociale [ERVET, 2006].
19
Definito come tasso al quale l’economia può crescere senza subire carenze di capacità produttiva o
tensioni inflazionistiche.
18
obiettivo rientra nel piano più generale di semplificazione del contesto
normativo e fiscale per le imprese, in particolare per favorire il
dinamismo delle piccole e medie imprese). Delors, per far capire quanto
gli oneri non salariali che gravano su questo tipo di occupazioni siano
sproporzionati, fa notare come il lavoro, che è la risorsa più abbondante,
sia anche la più tassata, mentre l’ambiente, che è la risorsa più scarsa, sia
la meno gravata da imposte. Inoltre, scegliendo un apprendimento lungo
tutto l’arco della vita, occorre puntare ad elevare il livello di istruzione e
formazione, dal momento che esiste una correlazione tra la qualità dei
sistemi educativi e il numero di giovani disoccupati [Delors, 1994]. Un
alto livello di professionalità dei lavoratori permetterà, poi, di ridurre
l’incidenza della disoccupazione di lunga durata, che è una delle
maggiori cause di esclusione sociale. In aiuto dovranno arrivare anche
politiche attive del lavoro, spostando le risorse dalle tradizionali politiche
di assistenza ai disoccupati (indennità e sussidi di disoccupazione) a
interventi di workfare, ovvero di promozione all’accesso o al rientro nel
mondo del lavoro con un potenziamento dei servizi all’impiego,
ottenendo così il doppio risultato di contenere la durata della
disoccupazione e di incrementare il tasso d’occupazione.
All’interno di questo quadro, ancora il lavoro femminile non è trattato
come capitolo a sé stante, ma il tema viene in larga parte incluso in
quello più ampio delle categorie svantaggiate, insieme ai giovani, agli
anziani, ai lavoratori poco qualificati, e ai disoccupati di lunga durata. Di
conseguenza le misure proposte in parte si ritrovano in quelle avanzate
per promuovere la solidarietà tra le generazioni, tra le regioni e per
rimuovere la contrapposizione tra insiders e outsiders, in parte accennano
all’esigenza di conciliazione tra vita famigliare e vita professionale,
tramite ad esempio servizi di assistenza all’infanzia.
19
1.3. Il “metodo di Essen”
A partire dal vertice di Essen del 1994, si inizia a delineare una vera
strategia coordinata fra i Paesi membri in tema di occupazione. Chiamato
a definire linee d’intervento di breve e medio periodo sul versante della
crescita economica e dei posti di lavoro, il Consiglio Europeo
20
ribadisce
la centralità di uno dei pilastri del modello europeo, il dialogo e la
negoziazione tra le parti sociali e il mondo politico, e, anche se non
propone azioni specifiche per le donne, afferma che i due compiti
principali, presenti e futuri, dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri
sono la lotta alla disoccupazione e la parità di opportunità tra donne e
uomini. Il programma di interventi individua alcuni settori chiave su cui
concentrare l’azione: investimenti nella formazione e nella
riqualificazione delle risorse umane per migliorare le prospettive
d’assunzione, coinvolgendo soprattutto le categorie più colpite dalla
disoccupazione, in particolare da quella di lunga durata (giovani, donne,
lavoratori anziani, lavoratori poco qualificati); incremento del contenuto
occupazionale della crescita attraverso strumenti di supporto allo
sviluppo locale e un’organizzazione più flessibile del tempo, dei contratti
e delle negoziazioni salariali; riduzione dei costi salariali indiretti per
favorire lo sviluppo imprenditoriale; aumento dell’efficienza dei servizi
all’impiego e maggiore raccordo tra i sistemi della formazione e
dell’impiego; creazione di posti di lavoro in nuovi settori, quali
l’ambiente e i servizi sociali.
Per la prima volta si prevede una procedura multilaterale di
monitoraggio del settore dell’occupazione mediante due richieste: la
Commissione viene invitata a riferire annualmente al Consiglio Europeo
sui progressi nel mercato del lavoro, mentre agli Stati membri viene
chiesto di elaborare dei piani pluriennali. Questa procedura, attraverso il
confronto e la diffusione delle pratiche più efficaci, finendo così per
fissare dei parametri di riferimento (benchmarks), dovrebbe favorire una
convergenza delle diverse politiche nazionali.
20
Consiglio Europeo, Conclusioni della Presidenza, Essen, 9-10 dicembre 1994.
20
In realtà, gli effetti in termini di coordinamento e di avvicinamento
delle posizioni nazionali non sono immediatamente percepibili, dato che i
primi rapporti degli Stati membri si limitano ad esporre ciò che i governi
stanno già facendo, quindi difettano di una vera programmazione
pluriennale. Va comunque rilevata l’importanza dell’intero processo in
quanto base su cui si innesterà la Strategia Europea per l’Occupazione
21
(infra, § 3).
21
Va inoltre ricordata la costituzione di un gruppo di lavoro per studiare le modalità di inserimento del
tema dell’occupazione in previsione di una revisione dei trattati.
21
2. L’integrazione delle pari opportunità nelle politiche europee
Dalla metà degli anni ’90, grazie agli stimoli derivanti dalle
conferenze internazionali e alle rinnovate pressioni dei gruppi di interesse
femminili, si assiste ad una svolta e la politica di parità entra in modo
stabile nell’agenda politica dell’Unione, e di riflesso degli Stati membri,
fino ad ottenere una solida base giuridica con il Trattato di Amsterdam.
2.1. Da Pechino a Dublino
Un altro tassello verso la SEO è rappresentato dall’adozione del
gender mainstreaming come risultato scaturito dalla IV Conferenza
mondiale delle Nazioni Unite sulle donne (1995). Nella Piattaforma
d’Azione (Platform for Action) adottata a Pechino si riconoscono due
principi base, empowerment e mainstreaming, che permettono un salto di
qualità a livello concettuale nella politica di genere “rimpiazzando” le
parole chiave fino a quel momento, e cioè discriminazione e pari
opportunità. La disuguaglianza di genere ostacola lo sviluppo dal
momento che, assegnando ruoli predeterminati senza valutare le effettive
competenze o le aspirazioni dei singoli, “sperpera il capitale umano
facendo un uso inefficiente delle capacità individuali” [UNFPA, 2005, p.
1]. L’empowerment femminile (ovvero attribuire alle donne
responsabilità e potere, valorizzare le loro abilità e competenze e
migliorare la loro condizione sociale, perché possano partecipare
attivamente al mondo economico, sociale e politico), oltre ad essere un
valore ed un fine in sé, va a vantaggio dell’intera collettività, in quanto
motore propulsore per realizzare appieno le potenzialità dello sviluppo
economico, politico e sociale. Il secondo punto fondamentale è
l’importanza di introdurre una dimensione di genere “nella corrente
principale” del policy making, perché nessuna decisione politica
costituisce un processo neutrale, anzi qualsiasi intervento pubblico agisce