5
In queste realtà ha un ruolo preminente il cosiddetto self-made
man, cioè quel lavoratore che decide di mettersi in proprio e di "fare
impresa", sfruttando un tessuto economico e sociale che, storicamente,
nelle zone dei distretti industriali, ha favorito l'iniziativa individuale.
Il self made-man è un lavoratore realmente autonomo, con alle
spalle esperienze diverse (ad esempio di artigianato, ma anche di
lavoro dipendente da operaio specializzato), che ha fondato
un'impresa.
Egli rimane il protagonista principale delle aree ad economia
diffusa fino a quando il sistema distrettuale, dopo il periodo della sua
massima crescita, culminata, all'incirca, nella seconda metà degli anni
'80, cambia la propria struttura.
Questa, infatti, oggi si basa non più su un rapporto orizzontale tra
le diverse unità produttive, ma su un modello piramidale, al cui vertice
sono collocate poche aziende, molto forti sul mercato, in relazione con
aziende "di seconda schiera" che detengono quote importanti di
mercato. Alla base, infine, vi è la parte quantitativamente più
consistente, cioè quella costituita da imprese di piccola dimensione
(spesso unipersonali), che sono collegate a quelle più grandi da
rapporti di subfornitura.
Questo modello, risultato dei processi di globalizzazione
dell'economia che impongono, giocoforza, di superare visioni
localistiche dei mercati, si basa su sistemi di produzione sempre più
flessibili. Essi hanno modificato l'impresa, facendole assumere
caratteri più variabili e complessi (Rullani, 1998): si pensi, ad
esempio, ai processi di "esternalizzazione" e "terziarizzazione",
mediante i quali si è instaurata la prassi, da parte delle imprese più
grandi, di coinvolgere (in una posizione che è quasi di
subordinazione) le aziende più piccole nello svolgere funzioni che
precedentemente erano proprie.
Un simile processo di modificazione della produzione genera
profondi cambiamenti nel lavoro che, diventando a sua volta sempre
più flessibile, si scompone (Bonomi, 1997), producendo nuove
6
identità. Ecco allora l'emergere, accanto al self-made man, di nuovi e
diversi lavoratori autonomi: imprese individuali, sub-contractors,
soggetti che hanno una posizione a metà strada fra l'indipendenza e la
dipendenza (Dall'Agata, Grazioli, 1999; Altieri et al., 2000).
Tra questi ultimi predominano in quantità i collaboratori coordinati
e continuativi (o "parasubordinati"), che si concentrano, in particolare,
nelle aree ad economia diffusa, soprattutto in Lombardia, Emilia-
Romagna e Veneto.
Si tratta di lavoratori definiti "atipici", in quanto a causa del loro
inquadramento, sono estranei ad alcune caratteristiche tradizionali del
lavoro, come, ad esempio, la durata relativamente lunga e stabile nel
corso degli anni.
La seconda parte del presente lavoro si concentra proprio sui
lavoratori parasubordinati e mostra i risultati di una ricerca empirica
di tipo qualitativo che abbiamo realizzato a Bologna, intervistando
quattordici soggetti, inseriti nei settori dei servizi alle imprese,
dell'orientamento e formazione professionale.
Attraverso di essa cercheremo di mettere in luce, in primo luogo,
l'evoluzione del lavoro autonomo, analizzando, in particolare,
l'intersezione di elementi di indipendenza con altri di dipendenza.
Tenteremo di far emergere questi aspetti, approfondendo, attraverso le
interviste, problematiche legate ai percorsi che hanno portato i
soggetti a diventare collaboratori coordinati e continuativi, ai
contenuti del lavoro di questi ultimi, alla percezione che essi hanno
della propria posizione professionale, con particolare riferimento ai
fattori di autonomia e di dipendenza.
Analizzeremo, inoltre, i riflessi, positivi e negativi, del lavoro da
parasubordinato, sulla vita individuale. Ci interrogheremo, in
particolare, sul vissuto personale del soggetto al di fuori dell'ambito
lavorativo, sui possibili rischi e sui problemi più importanti nella vita
individuale e nelle relazioni sociali, sui progetti e le aspettative future.
7
Proprio per far emergere il mondo vitale dei lavoratori, le loro
esperienze soggettive e il loro vissuto si è scelto, come anticipato, un
metodo di analisi qualitativo, che si è basato su interviste strutturate.
L'analisi del contenuto di tali interviste ci consentirà di evidenziare
i risultati maggiormente significativi della nostra ricerca e di trarre
alcune valutazioni di sintesi.
8
CAPITOLO 1
LE AREE AD ECONOMIA DIFFUSA ED IL LAVORO
INDIPENDENTE IN ITALIA
1. Premessa
Ad introduzione della nostra riflessione, si intende affrontare il
tema dell'evoluzione del lavoro indipendente in Italia partendo da uno
dei fattori più evidenti di mutamento dei processi produttivi, vale a
dire la crisi del modello di sviluppo industriale taylorista-fordista,
fondato sulla grande impresa e sulla produzione di massa (Magatti,
1998).
Tale modello non può dirsi "unico"; infatti la disomogeneità di
sviluppo e il radicamento di esso nei differenti contesti nazionali è da
ricondurre alla diversità dei capitalismi, legata a fattori e
caratteristiche della società, che influenzano l'economia (Esping-
Andersen, 1990; Regini, 2000).
Consideriamo, ad esempio, il caso degli Stati Uniti d'America, in
cui, nei primi decenni del '900, vi sono almeno due elementi distintivi
rispetto all'Europa: innanzitutto la presenza di un mercato, all'interno
di una nazione di grandi dimensioni e con una popolazione in rapida
crescita, unificato da robuste infrastrutture di comunicazione; in
secondo luogo la forte immigrazione, che porta con sé masse di
lavoratori non specializzati. Questi elementi favoriscono,
rispettivamente, consumi su larga scala di beni standardizzati e
l'utilizzo di metodi di produzione che permettono l'impiego di ampie
quote di manodopera immigrata a bassa qualificazione.
In Europa, dove la realtà sociale è diversa e dove esistono (e in
parte persisteranno negli anni) peculiari forme di produzione, di
origine artigianale e legate a piccole imprese, il fordismo si insedierà
più tardi e si svilupperà in forme diverse (Trigilia, 1998).
9
In Italia il contrasto tra la realtà di numerose aziende piccole e
medie e la presenza di grandi strutture produttive, soprattutto negli
ultimi 20-25 anni del secolo scorso, è emerso con forza; il fenomeno
dei distretti industriali (Bagnasco, Trigilia, 1985; Brusco, 1989;
Becattini, 1998), in particolare, ha mostrato con evidenza come il
sistema di accumulazione capitalistico non sia identificabile col
"fordismo". Quest'ultimo va infatti considerato come un idealtipo,
"che convive sempre con la presenza di settori (...) organizzati su basi
diverse con elevata presenza di imprese piccole e medie a gestione più
tradizionale" (Trigilia, 1998, pag. 362). Grazie a queste, come si
vedrà, si realizza un vero e proprio decentramento produttivo, che
assume forme diverse nel corso del tempo, a seconda del fatto che la
piccola dimensione sia, rispetto alla grande, in una posizione di palese
subordinazione, oppure operi in un regime di piena autonomia e
concorrenza.
Siamo di fronte, dunque, ad un modo di produzione diverso, su
piccola scala, incentrato sull'alta specializzazione dei lavoratori; esso,
infatti, all'inizio dello sviluppo industriale in concorrenza con la
produzione di massa, in seguito soppiantato da quest'ultima, è oggi
una realtà importante. Si tratta di un "modello di specializzazione
flessibile", che meglio si adatta all'attuale incertezza dei mercati e che,
grazie anche alle nuove tecnologie, consente al tempo stesso "alta
produttività e (...) versatilità d'impiego" (Piore, Sabel, 1987, pag. 20).
Proprio su tale modello, che, evidentemente, si differenzia in modo
netto dal modo di produzione fordista, si basa il successo delle
imprese industriali distrettuali, che non può essere considerato un
fenomeno episodico né residuale; al contrario, esso va interpretato
tenendo conto delle sue radici nel contesto sociale delle aree in cui si è
manifestato e nel quadro dello sviluppo industriale dominante, del
quale abbiamo delineato in precedenza i tratti salienti.
Pertanto riteniamo utile fornire di seguito una rassegna dei
maggiori contributi circa l'interpretazione, da un punto di vista
sociologico, del "modello distrettuale", cercando di evidenziare, nella
10
nostra ottica, le sue modalità di organizzazione interna e le
componenti sociali che hanno favorito lo sviluppo
dell'imprenditorialità, perno del lavoro indipendente. In particolare si
ricorderà, in una prospettiva sociologica, appunto, il ruolo della
fiducia interpersonale, la quale ha senza dubbio alimentato un
orientamento alla collaborazione, che ha inciso profondamente anche
nei rapporti di mercato; si è inoltre posto l'accento sui fattori familiari
ed extra-familiari che, nelle aree distrettuali, hanno generato tale
orientamento fiduciario (Paci, 1999).
Metteremo in luce, inoltre, il processo di evoluzione del modello
delle aree ad economia diffusa, che porta con sé mutamenti del
sistema produttivo e, soprattutto, delle forme di lavoro autonomo. I
caratteri dei protagonisti distrettuali riflettono i mutamenti e la messa
in discussione del sistema fordista; essi, soprattutto nella fase di
massima espansione, fanno riferimento ad istanze di autonomia, di
autorealizzazione, di creatività.
E tuttavia, oggi, molto è cambiato: la struttura dei distretti
industriali sembra essere sempre più piramidale, con poche imprese
molto forti e tante più deboli (Harrison, 1999); il lavoratore-simbolo
non è più il self-made man, ma sta assumendo volti diversi e nuovi
rispetto al passato. Nei distretti industriali trova un terreno fertile
l'attuale scomposizione delle soggettività del lavoro (Bologna,
Fumagalli, 1997), in particolare del lavoro indipendente, nella forma
della polverizzazione dell'attività imprenditoriale (Magatti, 1998) o
dell'occupazione che si colloca all'interno di una linea di confine tra
dipendenza ed autonomia, come ad esempio il lavoro parasubordinato
(Dall'Agata, Grazioli, 1999; Altieri et al., 2000) (cui faremo
particolarmente riferimento nel corso del nostro approfondimento
empirico).
11
2. Crisi del modello fordista e ruolo dei distretti industriali
Gli anni '70 del XX secolo rappresentano un punto di svolta nella
moderna organizzazione produttiva dei Paesi ad economia di mercato.
In quel periodo il modello taylorista-fordista e le politiche economiche
keynesiane, che lo avevano accompagnato a partire dagli anni
successivi alla Seconda Guerra Mondiale, entrano in crisi,
evidenziando la loro incapacità di far fronte alle trasformazioni e alle
contraddizioni del capitalismo. I fattori più importanti di tale crisi
possono essere così delineati per larga sintesi: saturazione del mercato
dei beni di massa, aumento della concorrenza (da parte dei Paesi di
più recente industrializzazione), impennata dei prezzi delle materie
prime e, in particolare, del petrolio.
Proprio dopo la crisi petrolifera (e la recessione) del 1973 il tasso
di crescita dell'economia mondiale, ma in particolare quello dei Paesi
più sviluppati, inizia a scendere. Negli Stati Uniti, ad esempio, il tasso
di crescita del PIL per occupato scende dall' 1,96 del periodo 1950-
1973 allo 0,03 del periodo 1973-79; negli anni successivi questo
rallentamento, anche se in misura minore, continuerà. Viene così a
crollare uno dei presupposti fondamentali del modello fordista, cioè
quello di una crescita forte e costante della produttività del lavoro
(Revelli, 1997). Cade quindi il sogno di uno sviluppo continuo, senza
limiti per i consumi, per lo sfruttamento di materie prime, per l'utilizzo
di forza-lavoro. Tramonta anche l'idea di un'accumulazione illimitata,
che vuol dire, secondo la logica delle economie di scala, produzione
sempre crescente, massificata, di un bene standardizzato e offerta di
esso a prezzi sempre più bassi. Da parte dei consumatori, inoltre, si
sviluppa, grazie all'aumento dei redditi e all'emergere di nuovi stili di
vita e modelli di consumo, una domanda sempre più diversificata e
qualificata di beni e servizi; pertanto, da parte delle imprese inizia a
realizzarsi un nuovo tipo di accumulazione, quella che Harvey
definisce "flessibile" (in antitesi con le rigidità, appena richiamate, del
modello fordista), caratterizzata dall'emergere di "settori di
12
produzione completamente nuovi (...) nuovi mercati e, soprattutto,
tassi più elevati di innovazione commerciale, tecnologica e
amministrativa" (Harvey, 1993, pag. 165).
In tale quadro le nuove tecnologie elettroniche assumono un ruolo
fondamentale, nel passaggio ad una produzione di beni diversificati, di
qualità e a costi bassi. Le ricadute di tali trasformazioni sulle forme e
sulle condizioni di lavoro sono evidenti: l'immagine dell'operaio della
catena di montaggio, chiamato a svolgere una sequenza di mansioni
semplici e ripetitive, appare oggi come un simbolo del passato; ma,
soprattutto, accumulazione flessibile vuol dire anche lavoro flessibile,
cioè instabile, soggetto a continui mutamenti, con prospettive molto
limitate nel tempo (Bologna, Fumagalli, 1997).
Occorre tuttavia precisare che la separazione tra la produzione di
massa delle grandi imprese e quella di beni non standardizzati non è
stata (e non è) netta e totale. Anche nella fase di pieno sviluppo del
modello fordista, infatti, permane una domanda di beni non
standardizzati: si tratta sia di beni intermedi, come ad esempio gli
speciali macchinari, prodotti in numero limitato, necessari per la
grande industria taylorista, sia di beni di consumo, quali
l'abbigliamento o i mobili, che, essendo legati a particolari fenomeni
come le nuove mode o i diversi gusti, sono caratterizzati da un'estrema
variabilità. D'altro canto, nella fase attuale, sebbene prevalga la
diversificazione dei prodotti, la produzione di massa non scompare del
tutto, ma cerca, soprattutto attraverso l'innovazione tecnologica e la
multinazionalizzazione (che favorisce costi più bassi), di continuare a
mantenere un "suo" spazio. Da ciò consegue che i termini "fordismo"
e "post-fordismo" vanno usati con attenzione, tenendo presente che i
paradigmi socio-economici e le forme di lavoro da essi indicati non
sono rappresentabili in modo univoco: oggi (come e ancor più di ieri)
osserviamo così una pluralità di situazioni e di soggetti che
concorrono a creare la realtà del mondo produttivo e del lavoro (Piore,
Sabel, 1987).
13
Resta tuttavia il dato di fatto che, circa un quarto di secolo fa, nei
Paesi più sviluppati si è avviato un processo di grandi cambiamenti
del sistema produttivo. In Italia esso comincia dopo la metà degli anni
'70, quando le grandi imprese del triangolo industriale attuano un
decentramento della produzione (Bologna, Fumagalli, 1997). E' in
questa fase che inizia a prendere quota una rete di piccole imprese,
che svolgono, attraverso attività di subfornitura e contoterzismo, un
ruolo complementare alla grande impresa o, per meglio dire,
dipendente da essa. Si tende quindi al superamento della integrazione
verticale, ovvero della inclusione all'interno di una stessa fabbrica
delle molte, diverse fasi della produzione.
Un primo motivo che ha determinato questa scelta è quello di
limitare il potere dei sindacati, tradizionalmente più forti e radicati
all'interno delle grandi imprese; una minore sindacalizzazione si
traduce in minori rivendicazioni salariali e in una maggiore
possibilità, da parte del datore di lavoro, di meglio "adattare" la forza-
lavoro (attraverso, ad esempio, lo straordinario, il lavoro a tempo
parziale, le nuove assunzioni, i licenziamenti
1
), quindi di ottenere
maggiore flessibilità. Un altro dei motivi del decentramento
produttivo che merita di essere ricordato è quello che Brusco e Sabel
hanno indicato nella eliminazione del rischio collegato a un
investimento a lungo termine (Brusco, 1989); ciò si verifica, ad
esempio, quando un'impresa acquista solo i beni intermedi necessari
per un nuovo prodotto e demanda all'esterno la produzione delle parti
più standardizzate.
Va tuttavia precisato che, attraverso il decentramento produttivo, le
piccole imprese acquisiscono esperienza e competenza e accrescono la
loro competitività sul mercato, fino a diventare in alcuni casi
concorrenti delle grandi. Inizia, quindi (tra la fine degli anni '70 e il
principio degli anni '80), una nuova fase, definita del "decentramento
1
Ricordiamo che la legislazione vigente (l. n.604/1966 e l. n.300/1970) prevede, per
le piccole imprese fino a 15 dipendenti, una disciplina dei licenziamenti meno
restrittiva di quella per le imprese di dimensioni superiori.
14
indipendente" (Ibidem, pag. 306); esso si realizza in Italia
particolarmente (ma non esclusivamente) nelle regioni del nord-est e
del centro, dove un già solido tessuto di imprese di dimensioni ridotte
si specializza in singoli settori, organizzandosi in distretti: tale area è
quella che Bagnasco (1977) ha chiamato "terza Italia", per distinguerla
da un lato dal nord-ovest, in cui si è avuta la prima
industrializzazione, quella delle grandi imprese, e dall'altro dal sud,
dove l'industria si è sviluppata in modo "marginale".
3. I distretti industriali: un'identità in mutamento
I mutamenti del sistema produttivo fin qui ricordati non vanno
tuttavia interpretati secondo una logica evoluzionistica, in cui ogni
fase genera, automaticamente, l'inizio della successiva. Il "traguardo"
dei distretti industriali è in realtà il risultato non solo di un processo
economico, ma anche e soprattutto della combinazione di variabili
sociali, storico-culturali e istituzionali.
Come già detto, i distretti industriali si sono sviluppati in
prevalenza nelle zone nord-orientali e centrali italiane. Essi si
concentrano, infatti, soprattutto in Lombardia, Veneto, Emilia-
Romagna, Piemonte, Marche, Toscana; inoltre sfruttano, in
particolare, il ruolo delle città medio-piccole, che diventano "centro",
ridimensionando quello delle metropoli, sinonimo di "periferia"
(Trigilia, 1998).
Ci si può chiedere il perché di tale distribuzione geografica. Per
tentare di dare una risposta, un primo fattore da evidenziare riguarda
ciò che c'era prima dell'industrializzazione, cioè l'agricoltura, in
particolare quel tipo di agricoltura che, nelle aree non metropolitane
della "terza Italia", era fondata, più che altrove, sulla mezzadria e sulla
piccola proprietà contadina (Brusco, 1989). Nella maggior parte dei
casi era proprio la famiglia appoderata a gestire il lavoro nelle
campagne, in termini sia di controllo delle entrate e delle uscite, sia di
15
valutazione in merito a cosa e come produrre, sia di creazione e
mantenimento di una rete di rapporti, all'interno della comunità, con
parenti, amici, conoscenti: i "fornitori" e gli "acquirenti"; sono queste
alcune delle peculiarità proprie della gestione delle future piccole
imprese.
Un secondo fattore da sottolineare è quello della presenza di centri
urbanizzati, in cui erano presenti tradizioni di commercio e di
artigianato che la grande industrializzazione non ha poi cancellato; a
tale riguardo ricordiamo la figura dell'artigiano tradizionale, primo
modello, secondo Brusco e Sabel (Ibidem), di piccola impresa e
quindi "progenitore" dei distretti industriali.
Un terzo elemento è dato dalla presenza, nelle aree di maggiore
diffusione delle piccole imprese, di buone scuole tecniche (un
esempio per tutte: l' "Aldini-Valeriani" di Bologna).
Vi è infine un quarto aspetto che spiega i meccanismi di
formazione del tessuto dei distretti industriali, cioè quello della
disintegrazione di una o più grandi imprese in tante più piccole (ad
esempio la Fiat Trattori e le Officine Reggiane sono state
fondamentali per la nascita del distretto delle macchine agricole
nell'area di Reggio Emilia).
Quello che Bagnasco e Trigilia (1985) chiamano "serbatoio di
imprenditorialità", cioè "un'ampia disponibilità di persone dotate di
risorse materiali e culturali specifiche per l'attivazione di piccole
imprese" (Ibidem, pag. 46) presuppone, quindi, particolari tradizioni
(agricolo-comunitarie, artigiane, formative, industriali). Ebbene i
distretti industriali sono espressione proprio di queste tradizioni che,
radicatesi nel corso dei decenni, si sono adattate alle nuove forme
economiche e hanno creato un comune senso di appartenenza, basato
su un accumulo da parte delle comunità locali di relazioni fiduciarie,
competenze e capacità imprenditoriali (Paci, 1999). Quando, in
regioni come il Veneto e l'Emilia Romagna, la concentrazione di
artigiani e di piccole imprese si mantiene costantemente a livelli molto
elevati, si osserva che quasi tutti sanno bene cosa significa gestire
16
un'impresa, affrontarne i problemi, conoscere i bisogni degli
acquirenti, competere ma anche collaborare con gli altri imprenditori
della zona; si tratta quindi di conoscenze ben radicate nel tessuto
sociale, che favoriscono, in quel particolare contesto, l'iniziativa
privata del piccolo imprenditore.
Rispetto a questi fattori socio-culturali relativi alla formazione e
allo sviluppo dei distretti industriali (e che riprenderemo in seguito,
nella analisi dei protagonisti distrettuali), restano sullo sfondo le
variabili prettamente economiche e quelle istituzionali. Sul ruolo delle
istituzioni politiche e, in particolare, delle amministrazioni locali i
massimi studiosi dei distretti industriali hanno preso posizioni
differenziate; c'è chi ritiene, come Brusco (1989), che le Giunte
"rosse" (dell' Emilia Romagna e della Toscana) abbiano amministrato
meglio di quelle di altre regioni, curando in particolare il controllo
dell'inquinamento e i servizi alle famiglie; chi, come Becattini (1998),
ha rimproverato al maggior partito della sinistra italiana (PCI-PDS-
DS) di aver trascurato i distretti; chi, infine, sostiene, come Bagnasco
e Trigilia (1985), che le amministrazioni locali abbiano operato, a
prescindere dal loro colore politico, soprattutto nella direzione di
consolidare il modello distrettuale.
Questi due autori, in particolare, si soffermano sulla "subcultura
rossa" presente in alcune zone della "terza Italia", sottolineandone, fra
le altre cose, l'orientamento a preservare quelle istituzioni
fondamentali per lo sviluppo piccolo-imprenditoriale, come la
famiglia e la comunità locale; osservano, inoltre, che nella fase di
sviluppo e stabilizzazione del modello distrettuale le risorse
provenienti dalle strutture sociali già consolidate sono state integrate
da risorse politico-istituzionali a livello di governo locale: il risultato è
stato un "elevato grado di accettazione sociale" del modello
distrettuale (Ibidem, cap. 2).
A questo punto occorre cercare di capire come si caratterizzano e
come funzionano i distretti industriali. Innanzitutto è utile interrogarsi
su cosa essi producano. Un'indagine a largo raggio (Becattini, 1998,
17
pag. 110 e segg.) ci aiuta a tracciare un quadro chiaro della fisionomia
produttiva dei distretti industriali. Nei 65 distretti analizzati prevale la
produzione di beni di consumo durevoli per la persona (come ad
esempio abbigliamento, calzature e pelletterie) e di beni intermedi per
essi necessari (tessuti, cuoio, pelli, oltre alle macchine specializzate
per quella produzione); un secondo gruppo di prodotti riguarda i beni
durevoli per la casa (pavimenti, mobili, sanitari, ecc.) ed i macchinari
necessari per la loro produzione; un terzo gruppo è dato dai prodotti
alimentari (soprattutto prosciutto e formaggio) e di beni connessi
(bilance, affettatrici, ecc.). Vi sono poi beni, come le macchine
agricole, non inquadrabili in alcuno dei suddetti blocchi.
In ciascun distretto industriale "la produzione si svolge nel quadro
di un processo produttivo sociale (locale) in cui tutte le unità
partecipanti hanno (e sono più o meno consapevoli di avere) un ruolo
non inessenziale" (Ibidem, pag. 110); tante imprese (grandi, medie e
piccole) e tanti lavoratori autonomi, spesso altamente
professionalizzati, interagiscono fra di loro, nella consapevolezza che
le sorti del loro lavoro dipendono non solo dai processi economici e
dall'andamento del mercato globale, ma anche dal funzionamento
generale dell'organismo territoriale produttivo in cui sono inseriti.
Si ottiene così un buon funzionamento dell'intero tessuto socio-
economico se ogni singola parte (impresa, lavoratore indipendente) si
impegna a fondo per il massimo del successo sul mercato. Per
raggiungere questo obiettivo la piccola impresa, proprio in quanto
indipendente, non si conforma alla domanda mediata dalla grande; ciò
si verifica nell'apogeo dei distretti industriali, collocabile più o meno
nella prima metà degli anni '80, quando non vi è una situazione (oggi
invece molto diffusa) in cui, da un lato una grande azienda, da una
posizione di leadership, guida l'intero sistema produttivo e, dall'altro,
le imprese più piccole (l' "indotto") la seguono uniformandosi ai suoi
dettami.
La singola impresa, al contrario, cerca lei stessa di creare nuovi
bisogni e di soddisfarli e questa capacità innovativa è forse la
18
caratteristica più importante dell'impresa distrettuale. Essa è stata ben
spiegata da Brusco e Sabel alla luce di tre elementi: i suoi rapporti con
i clienti, la particolare organizzazione interna dell'impresa, la
collaborazione con le altre imprese (Brusco, 1989).
I clienti (che possono essere, anch'essi, produttori, oppure
semplicemente rivenditori) molto spesso si presentano portando
problemi da risolvere. La piccola impresa cercherà di trovare una
soluzione modificando, ad esempio, i suoi macchinari con
l'introduzione di innovazioni tecniche, che richiederanno
aggiustamenti successivi e continui ritocchi. Si avrà, quindi, un nuovo
prodotto, magari di grande successo sul mercato.
Questo "processo innovatore", però, è il risultato della
combinazione di lavoro intellettuale e manuale, di progettazione ed
esecuzione, cioè della collaborazione, della consultazione, del contatto
continuo tra i tecnici e gli operai: ciò è possibile se proprietari,
ingegneri, responsabili, operai specializzati sono in rapporti non
eccessivamente gerarchizzati e se tra loro la divisione del lavoro non è
rigida. I rapporti con le altre imprese distrettuali sono altrettanto
importanti per l'innovazione: "ogni impresa è gelosa della propria
autonomia, molto orgogliosa delle sue capacità, ma pienamente
consapevole del fatto che il suo successo e la sua stessa sopravvivenza
sono legati agli sforzi collettivi della comunità di cui fa parte e il cui
benessere economico essa deve difendere" (Ibidem, pag. 310).
In particolare la singola impresa avrà bisogno dell'aiuto delle altre
quando, andando oltre la sua specializzazione iniziale, inizierà a
cercare di espandersi, incrementando la gamma e la raffinatezza dei
suoi prodotti. A tal fine dovrà rinnovare i macchinari, quindi investire
rischiando, ma con la consapevolezza di ricevere fiducia dalle imprese
"collegate", le quali trasmetteranno ordini anche senza riceverne un
vantaggio immediato. Vi é un intreccio tra concorrenza e
collaborazione, nel senso che la prima presuppone e alimenta la
seconda, spesso con modalità di cui gli agenti del distretto non sono
del tutto consapevoli. Ad esempio, quando un produttore di macchine