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Mentre un tempo i divi erano apportatori di valori costituiti, (vedi
Rodolfo Valentino, stereotipo dell’amante ideale) oggi incarnano le
contraddizioni di una società che, in nome della libertà, rifiuta ogni
punto di riferimento a categorie precise e diventano pertanto,
complessi ed ambigui sia nella loro psicologia sia nella loro fisicità.
Non a caso in questi ultimissimi anni si è assistito all’exploit di
Leonardo Di Caprio, proprio grazie alla sua bellezza efebica, ai
lineamenti femminei e delicati e ad una personalità tormentata e ribelle
che prende vita nei suoi personaggi.
Il fenomeno che Di Caprio rappresenta all’interno della società
contemporanea si traduce nella sua ascesa alla dimensione divistica e
costituirà il 2º capitolo di questo studio.
Infatti, i nuovi divi con i “divi tradizionali” non hanno più nulla da
spartire, se non la loro tipologia: perché tutto (dai comportamenti dei
divi stessi al transfert del pubblico) può essere artificialmente dilatato
o ristretto, confermato o sovvertito.
Il divismo attuale è supportato da due fattori essenziali.
Uno, di ordine contestuale consiste nell’avvento di un tipo di società
tecnotronica che realizza l’unità della sua cultura attorno ad un
“nocciolo” essenzialmente tecnologico, costituito soprattutto dallo
sviluppo della elettronica, con le sue infinite applicazioni
all’informazione e alla automazione.
Tale sviluppo permette fughe in avanti e spinte all’indietro, condizioni
di vita avanzatissime ed arcaiche, nel “futuro passato” e nel
“Medioevo prossimo venturo”: perché nella contemporaneità e nella
globalità dell’esperienza elettronica, è possibile tutto e il contrario di
tutto.
Il secondo fattore in grado di facilitare la tecno-struttura divistica
riguarda il polo ricevente della catena massmediologica.
Qui, più che una massa amorfa, come ritengono gli “apocalittici”, noi
troviamo un “universo ricevente” assai articolato, in cui fenomeni
anche opposti possono convivere proprio per le caratteristiche
globalizzanti della società post-moderna.
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Si pensi, ad esempio, alle tendenze alla standardizzazione e all’unicità
sempre più tipiche in questa nostra epoca di “consumi elitari di
massa”: la società attuale «vive secondo criteri individualistici una
realtà già standardizzata: noi comperiamo (e paghiamo) oggetti
standard come se fossero pezzi unici, fatti e pensati esclusivamente per
noi»,(2)
Questo universo ricevente,“masticante”, come lo definisce Ceserani, é
l’humus più favorevole che esista alla trasmigrazione delle mode e dei
relativi consumi, che una larga parte della tecno-struttura divistica
(quella impiantata nelle multinazionali della cosmesi come
dell’abbigliamento, dello hardware elettronico come dei video-games,
insomma di tutti i prodotti promuovibili su larga scala) si è assunta il
compito di propagandare.
Attraverso congegni diversi (dalla pubblicità tout-court alla
sponsorizzazione di eventi culturali, dal merchandising alla campagna
“porta a porta”), sempre con il traino di celebrità vere o presunte, si
immettono sul mercato input che in breve si trasformano in mode.(3)
Per usare le parole di Luhmann, «la decisione (o il comportamento) del
soggetto decisore viene trasferita entro la situazione sociale di un altro
soggetto in modo tale che quest’ultimo, nel prendere ulteriori decisioni
(o nell’assumere comportamenti) deve tenere conto della decisione
precedente come di un presupposto necessario». (4)
Nelle moderne società industriali esistono personaggi pubblici che
sono oggetto della curiosità, dell’interesse, dell’ammirazione e delle
critiche del pubblico, il quale sembra interessato a tutto ciò che fanno,
anche e soprattutto nel settore della loro vita privata, affettiva o intima.
(2) C. Sartori, La fabbrica delle stelle, Mondadori, Milano 1983, pag. 320
(3) Si pensi a come è nata a moda della cura del corpo che ha avuto in Jane
Fonda la sua celebre paladina.
(4) N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Mondadori, Milano 1979, p. 79
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Si tratta il più delle volte di personaggi dello spettacolo, attori
cinematografici, cantanti.
L’interesse del pubblico verso questi personaggi sembra essere messo
in moto essenzialmente dalla loro attività nel campo dello spettacolare,
in quanto grandi cantanti, attori e campioni, ma vi è motivo di
supporre che le loro prestazioni diciamo di “abilità” non siano che uno
dei fattori, anche se indispensabili, del loro particolare ruolo sociale.
Infatti noi vediamo che, accanto a questi personaggi dello spettacolo,
ve ne sono altri, come i primi famosi e oggetto di interesse, che non
eccellono per alcuna particolare abilità e che devono la loro posizione
ad altre loro caratteristiche quali la ricchezza o l’eccezionalità del loro
modo di essere.
I personaggi di cui abbiamo parlato in Italia vengono chiamati, nel
linguaggio corrente, divi.
Quando si parla di divismo e di divi noi pensiamo soprattutto ai
fenomeni di ammirazione incondizionata o fanatica che le folle
tributano ai loro “idoli” sia nei momenti in cui viene celebrato il loro
trionfo, sia in seguito, come testimonianza di un duraturo rapporto di
ammirazione e di desiderio di contatto.
In questo rapporto con il divo possono essere individuate con facilità
due componenti: la componente carismatica e quella amorosa.
Il divo appare, cioè, come un essere superiore che si differenzia dagli
altri per una qualità straordinaria (carisma) che si impone
all’ammirazione e induce sentimenti di dipendenza e di gratitudine.
Nello stesso tempo egli è oggetto di un amore da lontano che, come ha
messo in evidenza Morin (5), assume un carattere di adorazione
proprio perché la possibilità di possesso dell’oggetto di amore è
preclusa.
Portando la loro attenzione su questi due aspetti del fenomeno, gli
autori che si sono occupati di divismo lo hanno descritto come
fenomeno sui generis, proprio della nostra epoca, come un “mito” di
(5) E. Morin, I divi, Mondadori, Milano 1963, pp. 219, 220
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questa o come forma di una religiosità blasfema che testimonia il
liberarsi di forze irrazionali, data l’incapacità della società a pervenire
ad una matura sintesi religiosa o ad un umanesimo razionale.
Come afferma Morin, infatti «La storia delle Star ripropone la storia
degli Dei».
Prima degli dei e prima delle star, l’universo mitico, dello schermo, era
popolato da spettri o fantasmi, veicoli della fascinazione del doppio.
Progressivamente, alcune di queste presenze prendono corpo e
sostanza, vengono esaltate, originando dei e dee.
E come certi grandi dei di antichi pantheon si metamorfizzano in dei-
eroi di salvezza, così le star-divinità si umanizzano, diventano inedite
mediatrici tra il mondo fantastico dei sogni e la vita quotidiana.
L’evoluzione degli dei antichi corrisponde a una profonda evoluzione
sociologica.
Il processo di affermazione dell’individualità umana avviene secondo
un impulso nel quale entra in gioco l’aspirazione a vivere a immagine
degli dei, e se possibile a eguagliarli.
I re furono i primi a collocarsi sullo stesso piano degli dei, cioè a
considerarsi “uomini totali”.
In seguito furono i cittadini, poi la plebe, poi gli schiavi che
rivendicarono quell’individualità che gli uomini inizialmente
accordarono al loro “doppio”, ai loro dei e ai loro re.
Essere riconosciuto come uomo significa prima di tutto vedersi
riconosciuto il diritto di imitare gli dei.
Le nuove star “assimilabili”, star modelli di vita, corrispondono alla
richiesta sempre più profonda delle masse di una salvezza individuale,
e le esigenze, a questo nuovo stadio d’individualità, si concretizzano in
un nuovo sistema di rapporti tra il reale e l’immaginario.
Si comprenderà ora tutto il significato dell’acuta sintesi di Margaret
Thorp: «il desiderio di riportare sulla terra le star è una delle tendenze
essenziali di questo tempo».(6)
(6) E. Morin, Le star, Ed. Olivares, Milano 1972, pag. 52
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Ciò che ha sconcertato e sconcerta in questo fenomeno non è infatti
tanto l’intensità della passione, quanto il tipo di oggetti verso cui la
passione si volge, la discordanza evidente fra i valori etici a cui la
società dichiara di ispirarsi e i valori di fatto incarnati in tali
personaggi.
Costoro non sono delle guide carismatiche come si sono succedute nel
corso della storia, non sono infatti né eroi, né capi politici e neppure
dei santi o dei profeti, sono degli attori , senza interessi nella vita
pubblica, che non hanno alcun messaggio da dare, alcuna meta da
additare.
D’altra parte, l’interesse e l’ammirazione che il pubblico prova nei
loro riguardi non ha a che fare esclusivamente con la loro abilità, ma
come abbiamo visto, si rivolge anche alla loro vita , al modi di essere e
di agire.
Un divo non è un divo esclusivamente in quanto attore, il pubblico non
ricerca solo le occasioni in cui può vederlo sullo schermo ma va a
vederlo di persona, legge ciò che i giornali scrivono sulla sua vita
privata, sui suoi amori e suoi vestiti.
Mentre la sua abilità è dal punto di vista di tutti gli altri valori sociali,
neutrale, l’agire e l’ambiente sociale in cui il divo agisce non lo sono
altrettanto.
In ampia misura, anzi, i personaggi del mondo dello spettacolo
testimoniano con la loro vita l’esistenza di disvalori sociali: essi
appaiono frequentemente ricchi e avidi, impudichi e capricciosi,
dissoluti e indifferenti alle regoli morali che valgono entro la comunità
generale, preoccupati solo di fare denaro.
Nella società moderna, assai profondamente permeata dai valori della
eguaglianza e delle ricompense secondo il merito, in cui le classi
lavoratrici difendono il valore del lavoro contro il facile guadagno e lo
spreco, costoro testimoniano la disuguaglianza, lo spreco e
l’irresponsabilità politica.
Di qui un problema che nasce da una matrice etica, ma che si pone
come problema sociologico: come è possibile ciò?
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Come è possibile che quelle stesse persone che lottano sul fronte
sindacale e politico per la giustizia e l’eguaglianza ammirino e si
delizino nel contemplare questi opulenti e dissoluti privilegiati?
La prima spiegazione o teoria, che chiameremo psicologica, ha avuto
molte formulazioni, la più scientificamente elaborata e oggi assai
diffusa fra psicologi è però la seguente: i divi non sono dei personaggi
reali, sono dei personaggi immaginari, certo esistono in realtà, ma
come personaggi in carne ed ossa, non in quanto divi.
La società è in un modo e i divi sono nell’altro perché essi sono una
fantasia della società, fra essi ed il sociale concreto c’è lo stesso
rapporto che c’è fra il sogno e la vita diurna.
Il primo esprime le tensioni, le aspirazioni, i desideri inconsci, che tali
sono appunto perché la vita diurna è disciplinata e responsabile,
costruita tenendoli a freno.
Essi sono la proiezione dei desideri degli uomini che, nella loro vita
reale, rinunciano alla loro soddisfazione.
I divi sono liberi dai freni morali perché gli uomini si liberano, nella
fantasia, da questi freni, sono ricchi perché gli uomini, anche quelli
che si sentono parte di una classe in lotta, aspirano alla ricchezza e così
via.
Vi è chi, sostenendo tale teoria, ritiene che ciò non sia affatto un male,
dato che, se non si esprimessero in tal modo, le tensioni troverebbero
senz’altro un’altra via, più pericolosa, con cui manifestarsi.
C’è invece chi dalle stesse considerazioni trae conclusioni
pessimistiche.
Se ciò avviene, egli osserva, è perché gli uomini della società sono
insoddisfatti o nevrotici.
Il mito, infatti, secondo Freud, corrisponde all’esigenza dell’uomo di
appagare dei desideri (inconsci o preconsci) che nella vita reale
trovano l’opposizione della censura offrendo «soddisfacimenti
sostitutivi per le più antiche rinunce imposte dalla civiltà».(7)
(7) S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino1929, pag. 82
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Inoltre, il mito concepito e assimilato come appagamento di desiderio
diviene un modo per correggere la realtà che frustra le nostre
aspirazioni.
E’, quindi, mediazione fra “principio di piacere”, proprio della
psicologia infantile e “principio di realtà”, propria ,invece, di quella
dell’adulto.(8)
I divi appaiono, infatti, oggetto di proiezione e di identificazione: la
loro vita costituisce una modalità consciamente o inconsciamente
sognata da molti membri della società.
La debolezza della teoria però risiede nel fatto che essa è una teoria
puramente psicologica, non sociologica.
Essa non è in condizione di spiegare perché solo alcuni personaggi
diventano una fantasia della società, mentre altri, ugualmente pubblici,
non lo diventano, ma anzi sono oggetto di critiche, valutazioni spietate
e razionali.
La seconda teoria è di tipo sociologico-politico e spiega la
contraddizione divistica riportandola ad una “contraddizione” della
società.
Il fenomeno, come dice Alberoni: «può essere attribuito ad un
affievolirsi delle virtù domestico-contadine in seguito al prevalere del
macchinismo industriale».(9)
Una teoria di origine Marxista più scientificamente elaborata, invece,
sostiene che il sistema socio-economico capitalista ha in sé
innumerevoli contraddizioni, ma tutte riconducibili al fatto che, pur
assicurando giuridicamente l’eguaglianza dei cittadini, di fatto e
proprio grazie a ciò, perpetua una divisione fra sfruttatori e sfruttati e
cerca continuamente di impedire ai secondi di prendere coscienza della
propria condizione di sfruttamento e quindi della propria reale natura
umana, cioè sociale.
(8) Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della Psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1981,
pag. 150
(9) F. Alberoni, L’elite senza potere, Bompiani, Milano 1973, pag. 42