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piazza scenografiche, con le grandi opere innovatrici intraprese alla fine
del ‘400 da Sisto IV, detto “Restaurator urbis”, e proseguite dai papi
successivi sino al “piano” di Sisto V, nella seconda metà del cinquecento,
con i famosi tracciati realizzati con finalità eminentemente religiosa che
costituirono successivamente l’ossatura della Roma barocca.
Con questi interventi, è la città in quanto tale ad essere considerata luogo
di trasformazioni perenni. Trasformandole in uno spazio stilizzato. Tale
processo investirà nel secolo successivo molte città europee, ed
extraeuropee, che imitarono l'urbanistica scenografica barocca.
Siamo nella fase del passaggio dalla città mercantile alla forma della Città
di Stato nella quale si realizza quella occupazione dello spazio pubblico da
parte dello Stato o della Chiesa. Nella costituzione del nuovo spazio
pubblico le sedi del potere centralizzato sono un elemento decisivo per la
formalizzazione dei nuovi rituali estetici e di potere.
La piazza per esempio era in precedenza ottenuta per effetto della
disposizione di palazzi o monumenti.
Nella concezione dello spazio pubblico tra rinascimento e barocco perciò
consiste nel fatto che nel seicento la nozione di regolarità piuttosto che
all'edificio viene applicata all'area in cui si costruisce. Questo spazio
ricavato tra un architettura e l'altra diventa l'obiettivo principale degli
interventi urbanistici.
La nostra considerazione dello spazio pubblico, nel corso del tempo, è
radicalmente cambiata. E' possibile che gli usi, i costumi e i riti
tradizionali oggi non sono più celebrati nello spazio fisico ma in uno spazio
virtuale, mediatico. Attualmente la nozione di un luogo è messa in
discussione e tuttavia la stessa nozione di non-luogo appare a sua volta,
come abbiamo visto in Augé, frutto di un artificio retorico o, perlomeno, un
concetto ambiguo.
Se le strutture commerciali, il traffico automobilistico lo occupano in
maniera pervasiva contribuendo a rendere incerta la definizione di tale
spazio, se lo interpretano soltanto in chiave competitiva, anche l’arte non
può che tentare di mettere alla prova il suo potere mediante la messa in
campo di strategie di occupazione di quello stesso spazio: sia che si tratti
di un sito reperito nell’ambiente virtuale delle reti di comunicazione.
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Assumendo il sistema della comunicazione urbana come sua propria
referenzialità, anziché opporvisi, questo lavoro tende a mettere in luce le
possibilità di un uso alternativo di questo stesso apparato, lavora
all’interno di un processo spingendolo in avanti, forza il sistema
comunicativo della metropoli contemporanea alla ricerca di momenti
emancipativi. Un luogo antagonistico allo spazio concitato della
comunicazione metropolitana è indubbiamente il parco.
Soprattutto negli Stati Uniti e nel Nord Europa si è diffuso un gusto per gli
spazi residuali, i luoghi abbandonati o desertici di cui vale la pena di
discutere. In effetti ciò che si usa denominare col termine terrain vague è
stato per anni oggetto di preoccupazioni da parte di una cultura che,
affrontando il fenomeno esclusivamente sociale ed economico, ne ha
restituito un’immagine di puro degrado.
È attraverso lo sguardo di alcuni artisti come Mary Miss1 che questi luoghi
abbandonati sono stati presi in considerazione da un punto di vista
estetico, non più come ambiti da cui rifuggire, ma al contrario con una
attitudine romantica tesa alla ricerca del sublime nelle pieghe della civiltà
contemporanea.
A differenza dei minimalisti, che i genere si sono dedicati a singole opere
astratte, Miss ha tentato di costruire non oggetti, ma luoghi. In teoria
questo approccio dovrebbe consentire a spazio e memoria di condensarsi
in forme che comincino a suggerire qualcosa che trascende, ad affermare
qualcosa che non sia soltanto la propria esistenza oggettiva. I progetti di
Miss rappresentano tentativi di coinvolgere l’osservatore riferendosi a
1 Mary Miss è una scultrice che vive e lavora a New York.
Le sue istallazioni sono in diretta relazione con l'ambiente fisico nel quale si collocano, in un certo
senso "nascono dal luogo in cui sono costruite", con l'esplicita intenzione di provocare
un'esperienza emotiva nell'osservatore.
Il suo lavoro, spesso basato sul legame dialettico tra lo spazio naturale e quello costruito dall'uomo,
intende far esplorare nuovi modi per ridefinire la relazione tra questi due ambienti.
La sua ricerca si e' espressa in istallazioni temporanee all'aperto, in esposizioni in ambito museale,
in strutture urbane permanenti. Le modificazioni di scala, il rapporto con il contesto la relazione con
l'osservatore conferiscono al suo lavoro un carattere fortemente architettonico. I progetti di Mary
Miss godono di riconoscimento a livello internazionale.
"Quello che mi attrae molto è cercare di collegare il noto con l'ignoto. Non mi spingerei a dire che il
mio lavoro è creare un mondo immaginario. Piuttosto mi interessa esplorare i confini - fisici spaziali
o emotivi - che diamo per scontati... (...) Voglio, e questo è il punto fondamentale, che il mio lavoro
abbia un contenuto emotivo o psicologico in qualche modo toccante. (Mary Miss).
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strutture note, in qualche modo cioè chiedendogli di condividere un
linguaggio comune. “Questi artisti”, afferma, “sono più interessati al
coinvolgimento dell’osservatore nelle strutture che alla mera costruzione di
oggetti da guardare. Il loro stile è meno autoritario rispetto a quello degli
scultori che li hanno preceduti; le loro opere non sono più monolitiche, e
l’immaginario cui attingono richiamandosi a ponti, cortili o edicole le rende
accessibili”.
Al centro di numerosi analisi, la città è ormai un oggetto indefinibile anche
per addetti ai lavori come architetti, urbanisti e geografi. In essa come in
un concetto-valigia, rientra un insieme complesso di luoghi, non luoghi,
aree pedonali o dimesse, nuove costruzione, vecchie costruzioni,
copertura, rivestimenti, smantellamenti, percorsi, discorsi e incidenti che a
vario titolo riconduciamo al concetto di città.
In realtà la città è oggi l’immagine stessa del nostro tempo, colossale e
impraticabile metafora. Gli artisti più innovativi mettono a confronto le loro
opere con la città-metafora dello spazio in costante trasformazione.
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LA CITTA’ EUROPEA
“Quello che infonde coraggio ai nostri sogni è
la convinzione di poterli realizzare.”
(Le Corbusier)
La città europea ha una distinta morfologia: essa si caratterizza per la sua
forma compatta e densamente costruita attorno ad un’area centrale ove si
concentrano gli edifici pubblici, le chiese, i monumenti, le aree per il
commercio e gli scambi. A partire da questo centro la città si sviluppa
lungo le linee radiali, articolandosi in strade e piazze che avvicinano edifici
pubblici ed edifici privati e creano spazi pubblici permeati di valori simbolici
e di memorie che gli abitanti condividono.
Fino all’inizio del XX secolo le città europee rimangono addensate attorno
al loro centro e organizzate su uno spazio relativamente limitato. Questa
matrice comune dà vita poi, in tempi più recenti, a forme diverse che si
articolano nel tempo secondo le scelte delle tecnologie di trasporto
pubblico e privato, ma anche in ragione dell’azione dell’autorità statale
che, in ogni paese, lascia sulla forma urbana una sua impronta nazionale,
visibile nello stile degli edifici pubblici, nella impostazione della
pianificazione urbanistica o nelle politiche per la casa.
Concentrazione, compattezza e densità pongono il modello europeo in
netto contrasto con quello americano, ove l’organizzazione della città
nasce incardinata a una griglia geometrica (grid) di isolati di uguali
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dimensioni, che si ripetono all’infinito e dove spazi vuoti e costruiti si
alternano in modo casuale.
Le città europee hanno origini molto antiche, questo significa che
possiedono una straordinaria continuità temporale, che le ha portate ad
accumulare nel tempo edifici e istituzioni che vanno a comporre patrimoni
molto significativi sotto diversi punti di vista.
In Italia il processo di crescita urbana si caratterizza, rispetto agli
altri paesi industrializzati, per due aspetti: da una parte, per il ritardo e la
lentezza con cui si è svolto e, dall’altra parte, per la presenza di forti
differenziazioni territoriali.
Ripercorrendo le dinamiche del processo di urbanizzazione
dall’Unità d’Italia ad oggi, si possono distinguere due fasi temporali. La
prima fase va dagli anni sessanta dell’ottocento, in questo periodo
l’assetto urbano che si era stabilito negli Stati preunitari evolve con una
certa lentezza e linearità, e la crescita urbana assume ritmi più intensi solo
in alcune regioni, in corrispondenza a periodi di accelerata crescita
industriale che si localizzano in ben delineate aree del paese. La seconda
fase del processo di urbanizzazione, che va dal secondo dopoguerra a
oggi, è invece caratterizzata da una modificazione più veloce e profonda
dell’asseto urbano del paese e vede l’emergere e il consolidarsi di sistemi
insediativi nuovi di tipo metropolitano. Questa seconda fase, è
caratterizzata, oltre che da una crescita più veloce, anche dall’emergere di
una nuova forma di insediamento umano sul territorio – le aree
metropolitane – che si sovrappongono alla rete urbana preesistente. Ne
risulta un sistema reticolare caratterizzato da una elevata densità di
popolazione, dalla molteplicità e vicinanza dei centri, dalla presenza di
aree metropolitane che hanno una stretta relazione di tipo sistemico con le
regioni circostanti.
Sono gli anni che vedono una profonda trasformazione della
struttura economica del paese. Il boom economico degli anni ’50 e ’60
interessa principalmente le grandi città che costituiscono i poli delle
maggiori aree metropolitane e vi produce conseguenze rilevanti in tutti i
campi della realtà urbana: dalle dimensione demografica agli aspetti
urbanistici e architettonici, dal livello di reddito prodotto alla struttura
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sociale, dalla localizzazione delle attività produttive ai flussi migratori,
questi confluiscono verso le grandi città o le aree vicine ad esse.
La forte crescita della popolazione urbana nel periodo tra la metà
degli anni ’50 e la fine degli anni ’60 è peraltro dovuta non tanto al saldo
naturale della popolazione residente quanto a migrazioni interne
imponenti, sia per dimensione sia per la distanza.
A metà degli anni sessanta avviene il “sorpasso” della popolazione urbana
rispetto a quella rurale. Successivamente si registra un rallentamento
seguito da un calo: nel 2001 la popolazione urbana costituisce il 52% della
popolazione italiana. Dall’Unità alla Seconda guerra mondiale crescono le
grandi città e con esse l’insieme della rete urbana. Nel dopoguerra la
crescita si concentra nelle aree metropolitane : in un primo tempo nei
“poli” e successivamente nelle “cinture” metropolitane.
Ricordiamo che le aree metropolitane, che costituiscono la forma
insediativa caratteristica dei paesi ad economia avanzata, sono sistemi a
base territoriale nei quali è importante certamente la dimensione
demografica del polo e dell’area nel suo complesso, ma lo è soprattutto la
presenza di funzioni specializzate collegate – appunto, un sistema – tra di
loro. Nelle aree metropolitane italiane possiamo riconoscere la varie fasi
che si susseguono nel processo di crescita metropolitana, come sono
state ipotizzate dalle teorie sul “ciclo di crescita metropolitana”. In una
prima fase, urbanizzazione, si verifica una crescita delle grandi città a
scapito delle cinture, dalle quali si spostano “in città” gli abitanti espulsi dal
settore agricolo a dall’artigianato ed attratti dalla forte crescita
dell’industria e del terziario. La seconda fase, definita come
suburbanizzazione, il polo metropolitano cresce, ma a un tasso inferiore a
quello delle cinture metropolitane, nelle quali si concentrano la
popolazione immigrata e le attività produttive. Questa fase è legata alla
nascita o allo spostamento nei comuni della cintura di attività produttive
industriali, ed è caratterizzata dal fenomeno del pendolarismo per lavoro.
L’evoluzione della produzione industriale e la crescente presenza dello
Stato nella vita economica e sociale trasformano profondamente la città,
sia nella sua morfologia che nella sua struttura sociale. Dal punto di vista
fisico, la città conosce una grande espansione che travalica i confini
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comunali e interessa le aree immediatamente adiacenti. Si tratta di un
processo, come abbiamo appena visto, di suburbanizzazione, per cui la
città perde la compattezza e i confini precisi che l’avevano caratterizzata
in passato.
Qui si creano sobborghi e quartieri satellite, principalmente abitati da
lavoratori occupati nella città centrale o nelle aree periferiche, che si
svuotano durante l‘orario di lavoro e si ripopolano nelle ore notturne.
Progressivamente, la città centrale, le sue periferie e gli insediamenti
esterni si saldano in un’unica entità territoriale, una conurbazione che si
estende senza soluzione di continuità per un’area che, dal punto di vista
amministrativo, comprende diversi comuni a corona del polo urbano
centrale.
In una terza fase, definita come disurbanizzazione, ll polo metropolitano
perde popolazione, e la crescita delle cinture non è tale da
controbilanciarla , per cui l’area metropolitana nel suo complesso perde
popolazione: questa fase è legata alla crisi della grande industria fordista
che sovente si era localizzata nelle grandi città, che nel tempo erano
diventate i poli delle aree metropolitane, e nelle loro cinture. Le attività
produttive si localizzano in aree più lontane, le trasformazioni nel settore
economico e le possibilità offerte dalle innovazioni nel settore delle
comunicazioni e dei trasporti permette una diffusione territoriale delle
attività economiche e delle residenze.
La fase successiva, definita riurbanizzazione, vede un arresto del calo
demografico, e talora una crescita, nei poli metropolitani, ma soprattutto
una rivitalizzazione per quanto riguarda gli aspetti economici, finanziari,
politici e culturali. Le città attraggono in modo selettivo gruppi sociali
innovativi, si caratterizzano come le “culle” della formazione superiore,
della cultura e delle arti, sono l’incubatore delle attività economiche di
punta, nel settore finanziario, della new economy, dell’informazione.
Milano è l’area metropolitana italiana di maggiore dimensione
(secondo la stima dello SVIMEZ comprende 670 comuni appartenenti non
solo alla provincia di Milano, ma anche quelle di Lodi, Pavia, Lecco,
Varese, Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova, Lecco e Novara).
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Anche Milano, come i poli delle altre aree metropolitane italiane, ha
vissuto un’intensa cresce demografica negli anni del boom economico e
delle imponenti migrazioni interne: negli anni ’50 la popolazione è
cresciuta circa un quarto, e negli anni ’60 quasi di un decimo. Nello stesso
periodo è stata ancora più forte la crescita edilizia. In questo periodo si
possono individuare due fasi per quanto riguarda l’occupazione del suolo:
nel primo decennio la crescita si è manifestata attraverso un’espansione
delle zone edificate, mentre nel secolo è cresciuto il peso della
trasformazione del tessuto urbanistico già esistente attraverso, ad
esempio, il fenomeno della dismissione di aree industriali dovuta alla
chiusura di circa 250 aziende.
Nel complesso emerge un quadro territoriale variegato, nel quale
si possono riconoscere una molteplicità di ambiti, caratterizzati dalla
presenza di modelli insediativi che svolgono funzioni specializzate tra loro
indipendenti (Centro sudi Pim 2003).
Alla luce dello scenario delineato, alcuni temi acquisiscono
particolare rilevanza per il futuro di Milano e dell’area metropolitana nel
suo complesso. In primo luogo la riqualificazione e il potenziamento dei
sistemi di mobilità, riguardanti i cosiddetti legami di rete di lunga distanza,
che comprendono il trasporto ferroviario ad alta capacità e i trasporto
merci e gli interventi di equilibrio ambientale di valorizzazione del
patrimonio culturale, di sviluppo e riqualificazione urbana in Milano. Si
tratta di progetti rivolti a un ampio ventaglio di settori, ma accomunati dal
fatto di rivolgersi ad aree dimesse industriali oppure ex scali ferroviari e di
essere fortemente orientati alla localizzazione di funzioni “eccellenti” e di
urban amenities, cioè di interventi di miglioramento del contesto
urbanistico-architettonico, della qualità della vita, della sicurezza sociale,
che si pongono l’obbiettivo di rafforzare il posizionamento di Milano nella
competizione tra città a livello internazionale.
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IL TERRITORIO DIVERSO DELLA CITTA’ ATTUALE
“Fu per me uno choc. Mi trovavo in distese sconfinate
della terra e di tanto in tanto, quando camminavo
all’aperto o sfrecciavo in macchina lungo una strada, la
luce sferzava un particolare e per pochi minuti gli scenari
si trasformavano”.
(Stephen Shore, Uncommon Places)
Cosa avviene nei luoghi del nostro vivere dal momento che la
globalizzazione trasforma i territori da luoghi a non-luoghi, da locali a
globali?
I territori sempre più flessibili sono i modi in cui una comunità si
costituisce, si riconosce e si racconta, i luoghi in cui si strutturano l’identità.
Non hanno una realtà solo concreta ma linguistica e simbolica, e sociale:
vivono nei percorsi, nei nomi, nelle immagini e negli immaginari, nei
racconti, nei canti e nelle vedute urbane degli artisti.
La ristrutturazione globale determina un imponente processo di
trasformazioni anzitutto dei sistemi urbani. Con le nuove tecniche di
comunicazione e i nuovi linguaggi muta il modo di organizzare e di
pensare lo spazio: investe e modifica i modi consolidati di abitare, di
lavorare, di conoscere. Ridefinisce i confini, rendendoli fluidi, spazi del
cammino, in cui si sta a “traverso”. E, collocandoci insieme nel locale e nel
globale, non elimina il territorio e la territorietà, ma ridefinisce le logiche
dell’ancoraggio territoriale. Recide i legami tra città e regione e
sovrappone una nuova rete sopranazionale di dipendenze e di
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concorrenze, immettendo un nuovo modello spaziale policentrico,
orizzontale, a reti e nodi. Lo spazio non si presenta più a reticoli fissi, ma
in continuo rifacimento e si caratterizza per la sua percorribilità, per la sua
espansione e connettività.
Le forme di città che ci furono precedentemente erano in
relazione col territorio circostante, ma soprattutto erano “comunità”, realtà
condivise e assunte con propria partecipazione e responsabilità di quanti
le abitavano. Anche la città moderna ha sempre coniugato presente e
passato, magari per mantenersi in bilico fra essi, facendone anzi il suo
tratto distintivo. È un mondo, una mescolanza di combinazione di luoghi,
o, come dice Augé è “uno spazio a valenza simbolica, con suoi punti di
riferimento, i suoi monumenti, la sua forza evocativa”. E permane come
mondo, pur essendo una realtà fluida in cui coabitano l’appartenenza dei
luoghi e la libertà dei non luoghi.
La metropoli attuale si estende al mondo intero: è una realtà totalizzante
che si svincola dal territorio e dissolve la stessa città moderna produttiva e
residenziale. È un sistema di espansione indefinita: la città diffusa della
moltitudine atomizzata, dell’anomia e delle reti lunghe della società della
competizione, che non ha più porte e dilaga nei sobborghi, nei ghetti,negli
slums, nelle bidonvilles, nelle favelas, nei campi di profughi. Il suo spazio
omnicomprensivo, sconfinato, privo di intervalli, in cui tutto è artificiale e
ripetitivo, non offre un equivalente dei luoghi prodotti dalla storia.
I non luoghi sopravanzano i luoghi.
I non luoghi sono gli spazi della circolazione, del consumo, dello
spettacolo, della comunicazione, i luoghi di passaggio e dell’anomia. E
con i non luoghi lo spazio urbano perde le sue frontiere e in una certa
misura la sua forma. Diviene allora impossibile per la città postmoderna
cogliersi nel suo fondamento come spazio e tempo, come luogo in cui
riconoscersi.
La città è ora una realtà fuori misura: dilaniata su spazi enormi, è una città
non finita, in cui stanno fianco a fianco le modernissime tecniche e logiche
di sviluppo e i luoghi dimessi.
Sempre più in essa l’appartenenza è senza luogo e la comunità è
l’impossibilità di fare comunità.