6
il suo essere schierato in prima linea con un allora impopolare partito neoguelfo,
se da un lato gli ha procurato ‘fama’ e memoria di clericale retrogado, dall’altro
fece di lui un riferimento costante per la cultura italiana del secondo Ottocento.
Non sempre la popolarità va di pari passo con la simpatia.
Questa tesi non intende affrontare un discorso generale sulla figura di Cantù,
oscillante tra conservazione e progresso
ix
(sarebbe superfluo viste le
innumerevoli biografie e monografie
x
scritte in anni passati dai suoi ‘amici e
nemici’) ma, sebbene non possa prescinderne, si propone di individuare e
approfondire un settore della produzione canturiana che pochi, anzi in
pochissimi, hanno esaminato nell’infinita mole di pagine del “cavaliere delle
libertà”, come lo ha definito Giuseppe Molteni
xi
.
Nella sintesi storiografica che Raffaello Morghen inserisce come
introduzione al capitolo Eresie nel medioevo del suo fondamentale saggio
xii
, il
nome di Cantù non compare nell’arco di tempo che va dalla pubblicazione delle
brevi note di Antonio Muratori
xiii
ai celebri studi specifici di Emilio Comba
xiv
e
generali di Felice Tocco
xv
.
In realtà già nel 1852, basandosi su precedenti ricerche compiute per
realizzare l’immensa e già citata Storia Universale (arsenale da cui ha ricavato,
spesso copiandone interi passi, tutti gli altri suoi lavori), Cantù aveva pubblicato
presso la tipografia Ferrero di Torino, l’Ezelino da Romano, una lunga
monografia tra lavoro storico e romanzo
xvi
, dove, oltre a esporre una compiuta
rappresentazione dell’Italia nella prima metà del secolo XIII
xvii
, dedicava un
intero capitolo all’Eresia-Inquisizione-scomunica, avvisando i suoi lettori di non
voler –ancora- affrontare la storia delle eresie, “lunga come quella della libertà e
degli errori umani”
xviii
. Ma l’intezione di scrivere una completa storia dell’eresia
era già presente in Cantù. Tra il 1865-1866 questo proposito si realizzerà
concretamente con l’uscita dei tre volumi de’ Gli eretici d’Italia, “fra noi il
primo e finora il solo lavoro di tal genere”
xix
, sottolineava l’amico Carlo Cipolla,
di cui il primo dedicato quasi interamente al medioevo. Le rare e brevi
considerazioni di questo saggio furono contrastanti. Per Giovanni Mazzotti si
7
trattava di un’opera storica, imparziale e oggettiva
xx
, al contrario Luigi
Bulferetti la definiva “un’utile fonte quantunque estranea quasi totalmente alla
moderna problematica ideologica connessa all’argomento”
xxi
. Marino Berengo
ne evidenziava l’originalità per il modo di impostare la puntigliosa ricerca
xxii
.
L’impegno di Cantù, sebbene applaudito in Italia nelle riviste e nei giornali
coevi e in Francia, grazie alle traduzioni di Anicet Digard e Edmond Martin
xxiii
,
non è stato premiato dai posteri che condannarono il lavoro a una damnatio
memoriae che continua ancora ai giorni nostri. Lo storico della filosofia Felice
Tocco fu più propenso a evidenziarne gli errori, il medievista Antonino de
Stefano nei suoi Riformatori ed eretici del Medioevo lo cita una sola volta a
proposito degli Umiliati
xxiv
, nessun riferimento, invece, negli anni Cinquanta, di
Ilarino da Milano.
I motivi di questa conscia noncuranza, oltre che nelle accuse di plagio,
rigido moralismo e papismo che la critica moderna ha tracciato intorno
all’inesauribile poligrafo, vanno individuati, più che nel metodo, che non
prescinde dall’esame del documento vivo, nelle finalità propagandistiche, che di
certo non nasconde, con cui Gli eretici d’Italia furono concepiti.
Il 1864 fu un anno cruciale per la Chiesa, il nuovo Parlamento italiano, “in
quelle sale avvezze da parecchi anni ad ascoltare diatribe e calunnie”
xxv
, metteva
in discussione il potere temporale e l’indipendenza territoriale della Curia
romana con l’unico scopo di appropriarsi legalmente dei suoi beni. Oltre che
come deputato, anche nella sua carriera letteraria Cantù ha difeso sempre le
libertates ecclesiae contro i novi haeretici, i moderni ghibellini rivoluzionar-
liberticidi della sua neonata nazione. Con slancio romantico, nonostante il
mutare dei tempi, rispondendo all’appello degli Annali cattolici
xxvi
, l’autore si è
sentito depositario di una missione morale, pedagogica, palingenetica: elevare
gli animi, illuminare le coscienze di una società che, come denunciato nella
prefazione a Gli eretici d’Italia, persa unicamente nei suoi rivolgimenti politici,
dimentica le verità cristiane, le sue radici e il suo passato cattolico.
Il suo interesse verso i movimenti ereticali del medioevo non fu dunque
8
oggettivo ed imparziale. Cesare Cantù si sentiva giudice morale di fatti e grandi
personaggi della storia, condannandoli ed assolvendoli senza timori reverenziali.
Esplose in polemiche religioso-politiche rivolte al presente, in tributi al dogma,
alla Chiesa infallibile e agli ordini mendicanti, coronati da lunghe
manifestazioni d’erudizione e virtuosismi letterari.
In quest’ottica gli eretici diventano lo strumento ideale per riaffermare ed
elogiare quel ruolo sopra le coscienze di una Chiesa creatrice e dispensatrice di
civiltà, custode di verità e tradizione, a discapito di un’analisi seria e calibrata
delle loro dottrine, del perché nacquero e si diffusero in un dato contesto storico
sociale.
Come giustamente affermava Gioacchino Volpe, “per l’eresia medievale, il
Cantù, che le ha dedicato un volume, ha avuto solo malanimo e giudizi angusti.
Nel miglior caso, essa è per lui manifestazione di orgoglio umano impaziente di
freni”
xxvii
.
Un’onesta valutazione di quest’opera deve comunque tener conto dello
spirito partigiano del tempo, lontanissimo dai metodi d’indagine e d’analisi
rigorosamente scientifiche del secolo successivo.
Solo in tempi più recenti, grazie al contributo di Attilio Agnoletto
all’edizione di Cesare Cantù nella vita italiana dell’Ottocento
xxviii
e all’articolo
di Giorgio Cracco, Eresiologi d’Italia tra Otto e Novecento
xxix
, ha cominciato ad
affacciarsi timidamente l’idea di un Cantù storico del cristianesimo e dei
movimenti ereticali. Malgrado questo, la ripresa degli studi, avviata da emeriti
professori e ricercatori nelle serie di conferenze tenutesi per il bicentenario della
nascita presso il Palazzo Comunale di Brivio e la Biblioteca Ambrosiana di
Milano (i cui Atti sono ancora in corso di pubblicazione) non ha tenuto in debita
considerazione questo nuovo e interessante scenario dell’‘infinito canturiano’.
Premesso ciò, due sono le tematiche affrontate in questo lavoro di ricerca.
La prima analizza i più importanti movimenti ereticali discussi dall’autore nei
suoi grandi tomi enciclopedici, evidenziandone riflessioni, contraddizioni e
conclusioni. La seconda cerca di chiarire il pensiero di Cantù sull’Inquisizione e
9
sulle cosidette “eresie pratiche e politiche”.
Fine ultimo di questa tesi è rispondere ad una domanda che ancora pochi si
sono posti: è corretto ascrivere il nome di Cesare Cantù tra gli eresiologi
d’Italia?
12
PARTE PRIMA
LE ERESIE MEDIEVALI
La prima trattazione che Cesare Cantù dedica all’eresia
xxx
medievale è
contenuta nella Storia della città e della diocesi di Como
xxxi
del 1829. Questo
grande intellettuale, che considera “ogni storia vacua senza il documento
vivo”
xxxii
, già in queste poche pagine sostiene un metodo di ricerca basato, oltre
che sulla storiografia di fine Settecento e prima metà dell’Ottocento, quasi
esclusivamente sullo studio di fonti polemiche e inquisitoriali, spesso coeve alle
vicende narrate
xxxiii
. Ne consegue un approccio a senso unico, ingannevole, che
esclude le dirette interpretazioni del cristianesimo da parte degli eretici
medievali, lo studio delle cui dottrine può completarsi solo grazie ad
un’indagine storica e filologica della loro, se pur rara, letteratura specifica.
Fin prima della pace di Costanza erano rivissuti errori antichi, nelle varie sette dei Catari,
dei Patarini, Fraticelli, Concorezzi, Poveri di Lione, Credenti di Milano, Arnaldisti e d’altri
nomi, che non ebbero un capo, non fecero un libro
xxxiv
.
Cantù, ben consapevole di questo vuoto documentario che sarà colmato, in
parte, nel secolo successivo
xxxv
, nell’ultima edizione della Storia Universale
xxxvi
,
parlando degli albigesi, scrive:
Né facile è il sapere appunto i loro errori, o se avessero un fondo comune, sotto l’infinita
che è propria dell’errore. Un libro, come oggidì si dice, simbolico, depositario di loro
credenze, non ebbero, o a noi non arrivò […]. Ristretti ai libri che li confutano, e alle
imputazioni che gli storici raccolsero da un volgo pregiudicato, ci troviamo fra dottrine e colpe
contraddittorie; ora proclamando creatore Iddio, ora il demonio; ora predicando un Dio
materiale, ora che Cristo fu ombra e null’altro; chi li fa ammettere alla fede tutti i mortali, chi
escludere le donne dall’eterna felicità; chi semplificare il culto, chi ordinare cento
13
genuflessioni il giorno; chi proclamare lecite le voluttà più grossolane, chi riprovarle persino
nel matrimonio
xxxvii
.
Proprio questa unilateralità lo obbliga spesso a considerare le credenze di
ariani, manichei, pauliciani, bogomili, catari, valdesi e patarini, un’unica
ininterotta eresia dualistica, senza distinzioni, come dimostra la confusione
terminologica nelle definizioni di “Poveri di Lione o Catari”
xxxviii
, “Catari o
Patarini”
xxxix
oppure “Patarini o Valdesi”
xl
, e lo porta spesso a cadere in
contraddizioni
xli
che Felice Tocco
xlii
più volte evidenzia.
Altro aspetto da non sottovalutare per affrontare correttamente l’eresiologia
di Cesare Cantù è la sua indiscutibile fede ortodossa che Benedetto Croce, nella
Storia della Storiografia nel secolo decimonono, denuncia come vincolo al
doveroso rigore scientifico della ricerca storica:
Cantù era cattolico e, oltre al dovere di accordare tra loro i suoi concetti, avrebbe avuto
l’altro di accordarli con la sua fede: arduo travaglio interiore, al quale egli preferiva l’interiore
guazzabuglio
xliii
.
Ispirato dalla sua visione manzoniana della storia Cantù ritiene che solo
nell’armonia cristiana e nella totale fede al cattolicisimo l’Italia poteva
progredire in un paese civile e duraturo
xliv
.
Questo bagaglio ideologico, frutto della “scuola cattolico-liberale”
xlv
, fa
muovere apertamente Cantù nel quadro di un confessionalismo romano e
papale, con l’obiettivo di divulgare il messaggio di una Chiesa istituzionalizzata
e infallibile che, “dimenticata dal suo secolo”
xlvi
, ha il compito di tenere
nell’unità coloro che dall’arbitrio individuale sarebbero indotti alla varietà e al
fallo. In ciò la Chiesa fa sentire la sua podestà costituita sopra le coscienze
xlvii
.
Sempre ed integralmente guelfo
xlviii
, ottimo cultore di storia lombarda
xlix
,
Cantù, nei suoi grandi progetti di Storia Universale e d’Illustrazione del
Lombardo-Veneto
l
, incontrerà l’eresia, oltre che nelle raccolte di fonti dei secoli
14
precedenti, nei documenti degli archivi di Roma, Venezia, Firenze e Milano (di
cui sarà nominato direttore il 26 marzo del 1873, succedendo a Luigi Osio
li
).
18
I
“Poveri di Lione o Catari”: dal Mondo Illustrato
a Gli eretici d’Italia
Il 4 marzo 1848, con la nona uscita del Mondo Illustrato
lii
, compare un
articolo di Cesare Cantù, intitolato, genericamente, I Valdesi. È la prima volta
che lo scrittore esamina un’eresia specifica, e lo fa appositamente su una rivista
che, sotto la maschera di un settimanale di varietà, nasconde una forte impronta
risorgimentale. La scelta non è casuale in quanto Cantù, “mentre ci narrava il
passato più remoto, sempre ebbe l’occhio al presente ed ai suoi problemi”
liii
.
A centro pagina una bella xilografia ottocentesca delle Alpi Piemontesi,
ammirate sotto un magnifico pergolato da tre donne vestite con abiti semplici, fa
da cornice ad un discorso breve e sintetico sulla storia e sulla dottrina dei
valdesi, dalle origini fino al XIX secolo.
Nella prima parte dell’articolo Cantù descrive in maniera pittoresca e
romantica le “Valli valdesi o de’ Protestanti del Piemonte”
liv
:
Chi da Torino procede a libeccio verso l’Alpi Cozie, giunto a Pinerolo vede aprirsi allo
sguardo una serie di valli, chiuse fra monti più o meno selvaggi
lv
.
La ricostruzione è geograficamente precisa e dettagliata: i valdesi vivono
nelle valli del Pinerolese, sotto le Alpi Cozie, tra la valle del Pragelato, la più
settentrionale, e, seguendo il torrente Chisone, quella di Perosa o di San
Martino. Ad occidente la valle di Lucerna, che s’interna con quella d’Angrogna,
e ad oriente quella di Rorà, la più piccola e la più elevata, chiudono il cerchio di
queste terre estese per dodici miglia da ovest ad est, e altrettante da nord a sud
lvi
.
Dopo una breve divagazione bucolico-poetica sulla vita semplice e pastorale
dell’attuale popolazione, Cantù, con un violento strappo stilistico, passa ad un
19
giudizio severo sulle antiche comunità che abitavano questi luoghi ameni:
Una delle centinaia di Sette procreate dalla ragione umana, quando, invece di
sottomettersi all’autorità, si arroga d’interpretare i libri santi e la volontà divina. La dialettica
sviluppata dalla scolastica nelle università in appoggio al dogma cattolico, contro questo
cominciò a ritorcesi nel XII secolo, e infondere la presunzione della potenza individuale, per
modo che virtù e verità furono ridotte a mere forme di raziocinio, e ciascuno credea poter fare
e disfare le religioni
lvii
.
“Scolastica”, “forme di raziocinio”, “dogmi”, pare da questo passo che
questa “secta”
abbia avuto fin dalle origini una “schola”
lviii
e sia stata
decisamente “litterata”. Aspetto poi singolare è che i valdesi, secondo lo storico,
erano in grado di utilizzare tutti gli strumenti della dialettica e della retorica per
affermare le proprie idee in campo teologico, contro una Chiesa dominante che
ne rivendicava il monopolio. L’autore, andando al di là delle proprie fonti, e mi
riferisco in particolare all’inquisitore domenicano Stefano di Borbone o da
Belleville
lix
(parte della cui opera e biografia trova pubblicata tra gli Scriptores
Ordinis Praedicatorum
lx
raccolti da Jacobus Echard e l’omonimo Quietif),
sfiora un inconsueto e interessante punto di vista, ponendo un problema che
verrà sviluppato più di un secolo dopo sia da Amedeo Molnár
lxi
che da Grado
Giovanni Merlo
lxii
. Questo raziocinio dottrinale è ben evidente in una delle
opere che lo stesso Cantù, in Gli eretici d’Italia (“opera originale per ricerca e
impostazione di problemi”
lxiii
) afferma di aver consultato e da cui,
probabilmente, ha preso spunto per questa sua sintesi. L’opera è il Dizionario
dell’eresie
lxiv
di Francois André Adrien Pluquet che alla voce Valdesi scrive:
I Valdesi sapevano la Scrittura, erano di costumi mortificati, ed ogni Proselito diventava
dottore. Dall’altra parte il maggior numero nel Clero era senza cognizione, di cattivi costumi,
né sapeva opporre ai Valdesi, che la sua autorità
lxv
.
Ritornando all’articolo, il vero ‘caposetta’ di tali esperienze religiose
20
sarebbe stato, secondo l’autore, Pietro di Bruis
lxvi
. Cantù incontra questo
personaggio nelle pagine del famoso trattato Contro Petrobrusianos
hereticos
lxvii
: un lungo scritto in forma di lettera che Pietro il Venerabile (abate
di Cluny, negli anni trenta del XII secolo) indirizza ai vescovi delle zone
interessate dall’eresia.
Uscito dalle Alpi a mezzo il secolo XII, […] predicando contro il culto e contro i preti
[…]; il venerdì santo a Saint-Gilles (si vuole) ergesse un rogo di croci, d’immagine, d’altari, e
fattone un fuoco, v’abbrustolisse carni che poi spartiva a mangiare, in oltraggio del comandato
digiuno. Gli abitanti indignati della profanazione, lui stesso gettarono sul rogo
lxviii
.
Sed post rogum Petri de Bruis, quo apud Sanctum Aegidium zelus fedelium flammas
Dominicae crucis ab eo succensas, eum concreando ultus est
lxix
.
Lo scrittore lombardo riesce così a ricostruire la figura di questo ex chierico
fattosi predicatore: un iconoclasta, dissacratore di croci (strumento di tortura del
Cristo)
lxx
, che ha sfidato apertamente l’autorità della Curia romana, infondendo
nel popolo “la presunzione della potenza individuale”
lxxi
e, di conseguenza,
dell’inutilità di templi, altari e preti
lxxii
.
Ma i roghi non distruggono le opinioni, e campione di queste si presentò Pietro Valdo
lxxiii
.
Secondo Cantù, come lo “scolaro Enrico
lxxiv
di Losanna, […] da San
Bernardo convertito”
lxxv
, in una linea di continuità dottrinale che giungerà,
tramandandosi di generazione in generazione, fino al protestantesimo (eresia
riassuntrice delle vecchie e fondamento delle posteriori
lxxvi
), Valdesio di Lione è
stato “campione” dei Pietrobrusiani.
Di questa grandissima figura, trasportato dalla corrente degli studiosi di
matrice cattolica, Cantù offre un profilo meno violento e non demonizzato: una
sorta di Francesco d’Assisi mancato
lxxvii
.
21
Pietro Valdo, mercante di Lione, venduti gli averi suoi come poi fece san Francesco,
s’eresse riformatore dei costumi come questo, ma non sottoponendo la propria alla volontà
della Chiesa, anzi asserendo questa avere traviato dal vangelo, e volersi richiamarla alla
semplicità primitiva
lxxviii
.
Una scelta di povertà assoluta e una vita votata all’imitazione dei primi
apostoli
lxxix
non potevano certo portare ad una condanna per eresia. Suo unico,
ma gravissimo errore, come afferma anche Jacques Bénigne Bossuet
lxxx
, è stata
la disobbedienza
lxxxi
.
Nell’articolo sul Mondo Illustrato Valdesio viene figurato come un laico
che, convertito dopo la morte improvvisa di un amico giurante il falso, si è
dedicato alla preghiera, al digiuno, all’imitazione di Cristo
lxxxii
e alla
predicazione non di “dogmi astrusi, ma intelligibili ad ogni senno”
lxxxiii
.
Valdesio riprovava i giuramenti, intimava la povertà, negava ai magistrati il
diritto di condannare a morte
lxxxiv
ma, soprattutto, accusava la Curia di
corruzione, richiamandola alla semplicità apostolica.
“Non più lusso di culto, non ricchezza di preti, non potenza temporale dei
papi”
lxxxv
.
Quale è quel rivoluzionario che non comincia dal domandar riforme? Anche Waldo, circa
il 1180, cominciò a criticare la Chiesa visibile: gli antichi decreti di essa e la sentenza dei Padri
non aver nulla più che le scomuniche e l’assoluzione e l’indulgenze e l’acqua benedetta e i
pellegrinaggi; nessun santo eccetto gli apostoli; prestigi i miracoli; inutilità le feste e
l’invocazione dei santi, essendo Cristo unico mediatore tra Dio e gli uomini: quantunque
riprovasse le imagini, pure conservava il Crocifisso, ma croce mozza in forma di T all’antica, e
coi piedi confitti un sopra l’altro, lo che parea scandalo quando faceansi sempre con quattro
chiodi
lxxxvi
.
Un simile attacco alla supremazia teologica e alla temporalità della Chiesa
bastava, per un deputato che più volte fu costretto a difenderla strenuamente in
22
Parlamento
lxxxvii
, a legittimare la condanna delle pretese del ricco cittadino
lionese e a inserirlo tra Gli eretici d’Italia.
Nella seconda parte dell’articolo l’autore passa ad una breve sintesi di storia
valdese, soffermandosi sulle sue origini.
A differenza di una delle fonti principale cui attinge (lo stesso frate
Predicatore di Bellaville scrive “Waldenses autem dicti sunt a primo heresis
auctore, qui nominatus fuit Valdensis”
lxxxviii
), Cantù pone la nascita di questo
importante movimento ereticale prima della predicazione di Valdesio,
adducendo come prova un manoscritto
lxxxix
di Cambrige che “vorrebbesi del
1100”
xc
dove, per la prima volta, compare il termine Vaudés:
Que non vollía, ni jurar, ni mentir,
Ni avourtar, ni ancire, ni prende de l’autrui
Ni venjar de li sio endemie
Illi dison quel és Vaudés, e degne de mourir
xci
.
Come Samuel Morland, lo scopritore della Nobla Leiçon, anche Cesare
Cantù, insieme a molti altri studiosi ottocenteschi, data il manoscritto 1100,
interpretando erroneamente i versi 6 e 7 dello stesso poemetto:
Ben ha mil e cent anç compli entierament
Que fi [e]scripta l’ora; c’ar sen al derier temp
xcii
.
Solo nel 1963 Amedeo Molnàr, in un suo breve saggio
xciii
, considerando
l’ora “que fi scripta” il 324 d.C., anno della presunta Donazione di Costantino
(324), e non l’inizio dell’era cristiana, perviene, aggiungendo 1100 anni, al
1424, data molto probabile per la composizione finale del poemetto
xciv
.
Paradossalmente Cantù sposa, in questo caso, le tesi protestanti
xcv
di fine
Settecento e inizi Ottocento che non riconoscevano in “Valdo” il padre
fondatore dei valdesi e che Andrea Charvaz, l’allora cattolicissimo vescovo di
23
Pinerolo, nel primo capitolo delle Origini dei Valdesi
xcvi
, si sforza di dimostrare
inesatte.
In questo caso solo ci diranno, stando sui generali, che ella (la “setta”) è antica di guisa che
sarebbe impossibile indicare per punto il tempo in cui apparve; che ella risale almeno e
indubitatamente insino a Claudio vescovo di Torino, che viveva nel principio del secolo IX, o
sino a san Silvestro, contemporaneo dell’imperatore Costantino o anche insino a san Paolo di
cui si vantano discepoli
xcvii
.
Cantù distingue i valdesi, il cui nome “forse viene da wald, foresta”
xcviii
(e
non, come “narrano alcuni”
xcix
, da “Pietro Valdo”) dai cosiddetti “Poveri di
Lione o Catari, cioè puri”: veri discepoli del predicatore lionese. Tale
differenziazione si ritrova nell’opera di Muston
c
che ha tentato di liberare sé e i
suoi dal nome di Lionisti e Poveri di Lione
ci
. Forzando la Summa de Catharis et
Leonistis
cii
di frate Raniero
ciii
, lo storico protestante afferma che l’inquisitore
convertito, nel capitolo intitolato De haeresi Leonistarum seu Pauperum de
Lugdano
civ
, parla di una “nuova setta” non riconducibile all’‘antico’ movimento
valdese. Così anche Peyran
cv
“vuole darci ad intendere che Reiniero, parlando
dei discepoli di Valdo, non dice che essi si chiamano Valdesi, ma Poveri di
Lione o Leonisti, e che esso Reiniero non avrebbe omessa questa
denominazione, se ella avesse avuto alcun fondamento”
cvi
. Certamente anche
l’erudito italiano aveva potuto utilizzare la Summa del frate domenicano,
compilata nel 1250, recuperandola, come chiarisce in una nota
cvii
, dal tomo V
del Thesaurus novus anecdoctorum di Martene e Durand.
In questo volume troverà anche il fazioso, ma importantissimo, Tractatus de
Haeresi Pauperum de Lugduno dello Pseudo-Davide d’Asburgo
cviii
, che Cantù
attribuisce a Stefano di Borbone, da cui prenderà gran parte dei fondamenti
della dottrina valdese.