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Ma il poco spazio che riceve nelle opere generali l’ampliamento
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha suscitato in chi scrive il
desiderio di conoscere meglio la vicenda della candidatura italiana.
Tale curiosità, unita all’esigenza di comprendere in prospettiva storica
l’attuale ruolo italiano nell’ONU proprio mentre l’Italia sta oggi
conducendo una battaglia per non venir relegata nel ruolo di potenza
di ultim’ordine entro l’Organizzazione, ha fornito lo spunto al presente
studio.
L’aspirazione italiana a ottenere accoglienza tra le Nazioni Unite,
sebbene venisse discussa per la prima volta in forma ufficiale solo nel
1947, rispecchiava un desiderio nato già nel 1945, quando l’Italia aveva
appena ripristinato le relazioni diplomatiche con le principali potenze.
Ma le ambizioni italiane contrastavano con le colpe delle quali Roma si
era macchiata nel passato recente: dei Tre Grandi, solo gli Stati Uniti,
che del resto non avevano subìto gravi aggressioni da parte del nostro
paese, potevano e volevano sostenere una rapida rinascita dell’Italia.
La differenza di vedute tra gli alleati circa la politica da seguire nei
confronti dell’Italia appariva ancor più evidente per quanto concerne il
recupero di dignità morale e di prestigio cui anelava l’Italia: gli Stati
Uniti vollero sostituire per primi la resa incondizionata italiana con un
nuovo accordo provvisorio meno gravoso, in attesa di firmare
rapidamente un trattato di pace. Il presidente Roosevelt in persona
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cominciò presto a interessarsi al problema, seguìto con coerenza dal
suo successore Truman.
Di contro la Gran Bretagna governata dal premier Winston
Churchill teneva a mente alcuni fatti che non potevano non spingere gli
inglesi a desiderare una rivincita contro l’Italia: primo tra tutti la
partecipazione italiana alla Battaglia d’Inghilterra dell’estate del 1940,
quando alcuni aeroplani della Regia Aeronautica, volando nei cieli
della Manica, si erano spinti fino a bombardare Londra. Per di più gli
italiani avevano osato sfidare l’egemonia navale inglese nel
Mediterraneo, e si erano lasciati andare a mire espansionistiche in
Africa. Ebbene, nel 1945 Churchill riteneva che il compito di redigere il
trattato di pace con l’Italia sarebbe stato un lavoro lungo; intanto il
regime di armistizio era l’unico in grado di permettere agli inglesi di
tutelare direttamente i loro interessi nell’Italia e nelle sue colonie: di
ammissione alle Nazioni Unite non si doveva nemmeno parlare fino
alla firma di un trattato di pace. Tuttavia le intenzioni inglesi riguardo
all’Italia non apparivano del tutto chiare e la dirigenza britannica
conservava un certo margine di elasticità: più l’Italia sembrava indifesa
nei confronti della Iugoslavia e del pericolo comunista proveniente
dall’interno, più a Londra cadevano i pregiudizi.
Invece Stalin non tanto provava speciale risentimento per la
partecipazione dell’Italia all’attacco tedesco contro l’Unione Sovietica,
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né sembrava ambire a ridimensionare direttamente il ruolo
internazionale italiano, quanto era interessato a espandere la sfera
d’influenza dell’URSS, per esempio ottenendo qualche ex colonia
italiana. Un altro modo di allargare l’influenza sovietica risiedeva nel
favorire l’azione dei partiti comunisti all’interno dei paesi democratici,
azione che poteva giovarsi del prestigio conquistato dall’URSS grazie
alla vittoria militare contro il nazismo. Stalin difese con pervicacia quel
prestigio, anche quando si affrontò il tema dell’ammissione italiana alle
Nazioni Unite. Il dittatore sovietico si dichiarò in più occasioni
favorevole all’ammissione italiana nell’ONU, ma non concepiva un
ingresso dell’Italia che non fosse accompagnato da misure parallele a
favore degli altri ex-satelliti della Germania liberati dall’Armata Rossa:
temeva che, se Bulgaria, Ungheria e Romania fossero stati trattati da
paesi di second’ordine rispetto all’Italia, ciò avrebbe comportato un
giudizio negativo della comunità internazionale sull’operato dei
sovietici come amministratori dei territori da loro occupati.
L’ambizione italiana di ritornare un paese come tutti gli altri, da cui
il desiderio di diventare un membro dell’ONU, si doveva dunque
confrontare con notevoli difficoltà. L’Italia, nonostante fosse restata a
lungo sottoposta a una dittatura, aveva ritrovato presto un pluralismo
politico e un’opinione pubblica a volte anche intransigenti, che non si
sentivano colpevoli in prima persona degli errori commessi dal
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fascismo. Così i primi governi del dopoguerra si ritrovarono in una
situazione difficile: dovevano dimostrarsi responsabili nei confronti
degli alleati e intanto rendere conto all’opinione pubblica di come non
si potesse ottenere tutto e sùbito. Per questo la domanda di
ammissione alle Nazioni Unite poteva giovare al Governo italiano,
accendendo in primo luogo una speranza di riscatto; testimoniando
come l’Italia non si ritenesse in dovere di scontare una lunga trafila
prima di ritornare a sentirsi pari agli stati vincitori; infine migliorando
nel 1945 il difficile rapporto tra il Governo presieduto da Alcide de
Gasperi e l’opinione pubblica nazionale: proprio mentre
nell’Assemblea Costituente si stava per decidere se ratificare o no il
trattato di pace. Naturalmente De Gasperi era a favore della ratifica,
che avrebbe garantito il proseguimento del sostegno americano. E la
domanda di ammissione alle Nazioni Unite sarebbe diventata
un’àncora di salvezza nelle mani del Governo impegnato a difendere
scelte difficili e impopolari.
Queste considerazioni dovrebbero aiutare a comprendere l’ottica
dalla quale si è considerata la lunga vicenda della candidatura italiana
alle Nazioni Unite, vicenda che si protrasse per oltre dieci anni.
Nell’affrontare la questione in uno studio sistematico ci siamo
imbattuti in due tipi di difficoltà. Il primo tipo di ostacolo, ma non così
grave, è stato posto dal poco spazio concesso alla questione specifica in
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alcuni periodi delle raccolte di documenti diplomatici americani, i quali
restavano la fonte principale per la ricerca. Ma poi, dopo aver raccolto
il materiale necessario, rimaneva il compito di impaginarlo entro un
disegno narrativo e prospettico che ricostruisse non solo le posizioni
lineari e gli atti coerenti, ma anche le azioni effettive che le
superpotenze esercitarono durante la guerra fredda per far prevalere
ciascuna sull’altra il proprio punto di vista. Azioni concrete che si
avvalsero di complessi stratagemmi procedurali e giuridici, tattici e
strategici. Tutto ciò sarebbe durato lungo il primo decennio del
dopoguerra, ossia nell’arco di un periodo costellato da grandi novità e
caratterizzato da estrema fluidità: in pratica il decennio nel quale si
definì l’ordine europeo che sarebbe perdurato molti anni avvenire.
Se il problema dell’ammissione dell’Italia e di altri paesi tra le
Nazioni Unite dipese da un veto “incrociato” delle superpotenze che
ne impedì la soluzione per molti anni, tale problema rimaneva dunque
legato soprattutto ai rapporti tra le superpotenze e alla prospettiva di
una distensione internazionale. Da qui è sorta anche la difficoltà di
trattare una questione da una parte così specifica e dall’altra così legata
alla situazione internazionale globale. Occorreva non perdere di vista
la specificità della questione, ma non si potevano trascurare alcuni
cenni agli eventi più importanti che via via influenzavano le scelte di
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quelle Potenze che avevano in pugno dapprima l’intero destino
dell’Italia, poi la questione dell’ammissione all’ONU.
Accaddero durante quei dieci anni alcuni avvenimenti che, pur
sembrando a prima vista completamente estranei all’oggetto centrale
di un lavoro che riguarda l’ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite,
potevano influenzare il destino della candidatura italiana perché
producevano immediate ripercussioni proprio entro l’Organizzazione
delle Nazioni Unite. È questo il caso, per esempio, della rivoluzione
comunista in Cina, che indusse il delegato sovietico nel Consiglio di
Sicurezza dell’ONU ad abbandonare il proprio seggio per protestare
contro la non ammissione dei rappresentanti della nuova Cina
nell’Organizzazione.
Insomma, si può affermare per paradosso che qualunque
avvenimento nel mondo, se si ripercuoteva in qualche modo sui
rapporti tra le superpotenze, poteva influenzare il destino della
candidatura italiana. Ma certo non si poteva qui riscrivere la storia
generale di un decennio: così si è cercato di contemperare l’esigenza di
mantenere saldo il filo conduttore della questione con quella di dare
conto di alcuni fatti assai densi di conseguenze sul clima internazionale,
quali, per esempio, la rivoluzione comunista in Cina e la morte di
Stalin. In altre parole, si è dovuto trovare un continuo compromesso.
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Oltre ai documenti diplomatici americani, erano disponibili anche
le analoghe raccolte italiane, ma solo quelle che riguardavano il
periodo nel quale venne presentata la domanda di ammissione alle
Nazioni Unite, e il poco tempo a seguire. Tali documenti sono risultati
utili soprattutto a comprendere la (poca) efficacia della politica estera
italiana in quel periodo, che soffriva di un margine di manovra molto
angusto e scontò alcuni errori o incomprensioni con le potenze alleate.
Così è emerso come nell’immediato dopoguerra l’ambizione italiana di
cancellare in un sol colpo un passato costellato da errori non fosse la
soluzione più efficace per migliorare il destino dell’Italia, se non altro
perché si sprecarono energie nel tentativo di centrare un obbiettivo per
il momento impossibile, sottraendo intanto risorse al raggiungimento
di traguardi di minor prestigio ma pur sempre importanti.
Nello svolgere una ricerca che ha per argomento centrale quel
dissidio tra Stati Uniti e Unione Sovietica che nacque dal veto
incrociato sull’ammissione di nuovi membri, una volta chiariti quanti
più possibili fatti, rimaneva la tentazione finale di formulare un
giudizio di valore. Infatti si fronteggiavano due posizioni antitetiche le
quali dividevano la comunità internazionale e si contendevano il
consenso di tutti i paesi. Ma infine, esistevano maggiori ragioni da una
parte piuttosto che dall’altra? Fu solo il migliorato clima internazionale
a rendere possibile nel 1955 l’ammissione di sedici nuovi paesi
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nell’ONU? Oppure un braccio di ferro durato dieci anni si concluse nel
1955 con la vittoria di una tesi piuttosto che di un’altra? A queste
domande si è tentato di dare risposta al termine del lavoro,
riesaminando per sommi capi l’intera vicenda e formulando infine
alcune ipotesi conclusive.
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Capitolo I
Verso il Trattato di Pace
L’AMMISSIONE DELL’ITALIA ALLE NAZIONI UNITE - CAPITOLO I
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1. Il tentativo dell’ambasciatore Tarchiani.
Alla fine dell’inverno 1944-45 andava completandosi a tutti gli
effetti il ripristino delle relazioni diplomatiche italiane con le principali
potenze. La scelta del governo presieduto da Ivanoe Bonomi,
insediatosi poco dopo la liberazione di Roma dalle truppe tedesche e
rinnovatosi successivamente quando Alcide De Gasperi aveva assunto
il dicastero degli Esteri, era caduta anche su ambasciatori “politici”.
Scelti, in altre parole, perché in grado di suscitare particolare fiducia
nei paesi accreditatari a causa della loro rinomanza. Uno di loro fu
Alberto Tarchiani, esponente del partito d’Azione e già direttore del
Corriere della Sera.
Tarchiani aveva davanti a sé un compito impegnativo: curare le
relazioni con gli Stati Uniti, il paese tra i “Big Three” la cui dirigenza
sembrava più sensibile alle esigenze italiane di riscatto, e che poteva
L’AMMISSIONE DELL’ITALIA ALLE NAZIONI UNITE - CAPITOLO I
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esercitare in questo senso un’influenza decisiva su numerosi
fondamentali aspetti delle future condizioni di pace, oltre che sul
reinserimento dell’Italia nel ruolo di attrice sulla scena internazionale.
Mentre Tarchiani giungeva a Washington, una missione economica
italiana si trovava già lì per negoziare con gli Stati Uniti l’apertura di
un credito necessario all’acquisto di generi di prima necessità. Il
controllo alleato era diventato meno stringente, essendo stata
riconosciuta all’Italia la capacità di gestire una politica estera
autonoma, fatto salvo l’obbligo di tenere informata “in linea di
massima” la Commissione Alleata. Infatti l’Italia si giovava degli effetti
della Dichiarazione di Hyde Park, che congiuntamente i Presidenti
americano e inglese avevano rilasciato il 26 settembre 1944, in séguito
a notizie assai preoccupanti sullo stato di malessere materiale e morale
che regnava nella Penisola. I due paesi alleati si erano ripromessi di
favorire la ricostruzione dell’economia italiana, anche per consentire
l’impiego di risorse locali nella prospettiva di sconfiggere il nemico
tedesco che ancora occupava una parte consistente del territorio
italiano: proprio il giorno prima dell’arrivo a Washington
dell’ambasciatore italiano, a Roma veniva consegnato al Governo
Bonomi il “Memoriale Mc Millan-Stone”, così denominato dai
cognomi dei due commissari alleati. Tale memoriale significava
l’attuazione della dichiarazione di Hyde Park.
L’AMMISSIONE DELL’ITALIA ALLE NAZIONI UNITE - CAPITOLO I
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Dopo il suo arrivo, Tarchiani dovette attendere alcuni giorni prima
di venir ricevuto dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt
per la cerimonia di presentazione delle credenziali. Il Presidente si
trovava, infatti, ancora sulla via del ritorno da Yalta, mentre il
Segretario di Stato Edward Stettinius stava presiedendo la Conferenza
panamericana di Città del Messico.
Ma già il giorno successivo al suo arrivo il neoambasciatore italiano
enunciò gli obiettivi immediati della propria azione:
“1) avviare negoziati preliminari in preparazione del trattato di pace;
2) prendersi cura dei 50 mila prigionieri italiani negli Stati Uniti;
3) riattivare al più presto i servizi consolari per i settecentomila italiani
residenti in America;
4) avviare accordi per accelerare l’invio di generi alimentari in Italia, secondo
quanto concordato a Hyde Park;
5) adoperarsi per l’assegnazione del naviglio necessario per i rifornimenti alla
disastrata economia nazionale;
6) negoziare la restituzione dei beni italiani negli Stati Uniti”
1
.
In realtà da parte italiana si coltivavano ulteriori ambizioni, sùbito
rese note agli americani. Infatti, prima di recarsi da Roosevelt,
1
P. Cacace, Vent’anni di politica estera italiana, Roma, Bonacci, 1986, p. 92.
L’AMMISSIONE DELL’ITALIA ALLE NAZIONI UNITE - CAPITOLO I
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Tarchiani venne ricevuto per un colloquio il 6 marzo da James Clement
Dunn
2
, sottosegretario aggiunto agli affari politici: nell’occasione
anticipò ciò che avrebbe riferito al Presidente due giorni dopo, in
occasione della scarna (a causa della guerra) cerimonia di
presentazione delle credenziali.
L’otto marzo l’ambasciatore italiano venne ricevuto con “festosa
cordialità” da un Roosevelt sofferente ma sereno
3
: Tarchiani ringraziò
il presidente dell’aiuto concesso al popolo italiano, come
l’incrementata razione di pane, aggiungendo:
“Ma lei, signor presidente, sa che non si vive di solo pane. Il popolo italiano è
disposto a soffrire anche di più di quello che non soffra oggi, purché non gli
siano negate alcune soddisfazioni morali.”
4
Tarchiani si espresse così per introdurre l’argomento della
Conferenza di San Francisco, che di lì a poco si sarebbe riunita per
2
Tarchiani a De Gasperi, 7 marzo 1945, I Documenti Diplomatici Italiani,
d’ora in poi abbreviato in D.D.I., Ministero degli Affari Esteri, Commissione per
la Pubblicazione dei Documenti Diplomatici, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca
dello Stato, Libreria dello Stato, 1992, Serie X, vol. II, doc. n. 82, pp. 105-106.
3
Tarchiani a De Gasperi, 8 marzo 1945, ivi, doc. n. 85, pp. 109-112.
4
Ibidem.
L’AMMISSIONE DELL’ITALIA ALLE NAZIONI UNITE - CAPITOLO I
17
dare vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite e dalla quale l’Italia
era già stata esclusa
5
.
Roosevelt rivelò di avere già sollevato a Yalta la questione con
Winston Churchill e Stalin, i quali però avevano obiettato che invitare
l’Italia alla Conferenza avrebbe significato aprire i casi analoghi di
molte altre nazioni, ciò che in quel momento non era stato ritenuto
opportuno; ma svelò anche di avere insistito sul problema, e rivelò che
si stava adoperando affinché l’Italia potesse inviare a San Francisco i
suoi osservatori. Primo passo, questo, cui altri sarebbero potuti
seguire
6
.
Tarchiani, mentre il Presidente si accingeva a congedarlo, gli
accennò l’intenzione italiana di dichiarare guerra al Giappone, per
mostrare simpatia e lealtà verso gli Stati Uniti e le Nazioni Unite, e
domandò al presidente se a suo giudizio l’Italia, nell’attuale regime di
armistizio, disponesse della facoltà di compiere un simile atto.
5
Tarchiani si espresse così: “Il popolo italiano ha bisogno di uscire dalle
strettoie dell’armistizio e della cobelligeranza. Il popolo italiano non intende
come dopo tanti sacrifici, tante rovine, tante prove di buona volontà, sia ancora
considerato il paria della situazione internazionale, il povero che si lascia alla
porta, senza speranza di poter presto entrare nel consorzio delle Nazioni Unite.
Invece, tra breve, avranno una nuova prova del loro stato di gravissima
inferiorità: saranno esclusi dalla Conferenza di San Francisco. Questo, signor
presidente, sarà un colpo terribile per il morale del nostro popolo, già così
dolorosamente provato”. Ibidem.
6
Ibidem.