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dell’attaccamento , il pensiero degli psicoanalisti, la teoria dell’identità sociale, la categorizzazione
sociale e il fatto che queste siano influenzate da stereotipi e pregiudizi.
Il periodo adolescenziale rientra in una fascia d’età in cui è obbligatorio l’inserimento in un
ambiente scolastico. Tale aspetto assume una fondamentale importanza: gli adolescenti passano
gran parte del loro tempo a scuola e questo gli permette sia di stare a contatto con i propri coetanei,
sia di sottoporsi all’inevitabile confronto-scontro con le figure adulte (in questo caso non
rappresentate dai genitori ma dagli insegnanti).
L’adolescenza è dunque un periodo di cambiamento, di passaggio, di transizione, che non avviene
solo nel corpo e nella mente del singolo giovane, ma avviene anche all’interno dell’ambiente
sociale, inevitabilmente influenzato delle relazioni che ciascuno vive negli spazi di interazione con i
propri pari e con le figure adulte di riferimento.
Rientrano sotto la definizione di bullismo tutti gli atti di prevaricazione compiuti da uno o più
ragazzi nei confronti di un soggetto che in quel contesto risulta più debole ed è sottoposto ad
angherie di vario genere. E’ un fenomeno rilevato prevalentemente nelle scuole, dato che queste
sono il luogo in cui i ragazzi si frequentano per la maggior parte del tempo, ma non si escludono
tutti gli altri luoghi di aggregazione e il tragitto scuola-casa.
Il bullismo è un fenomeno che si riscontra con particolare intensità tra i bambini delle scuole
elementari e diminuisce col passaggio alle scuole medie. Con l’ingresso nell’età adolescenziale il
bullismo non scompare, ma appare in dimensione minore. Uno studio approfondito dimostra, che il
mutamento del fenomeno è di tipo qualitativo, più che quantitativo, per cui risulta meno rilevabile
con i questionari standardizzati per le scuole elementari, ma torna evidente con l’applicazione del
questionario, realizzato con lo scopo di verificare la presenza di fenomeni di prevaricazione,
dell’età adolescenziale.
Il cambiamento nelle modalità di prevaricazione che si riscontra nelle scuole superiori, rispetto alle
scuole elementari e medie, coincide con l’età adolescenziale. Le nuove tipologie di prevaricazione
hanno modalità che le rendono molto più simili alle vessazioni tipiche del mobbing, che a quelle del
bullismo infantile. Dalle aggressioni fisiche si passa alle offese verbali e soprattutto ad azioni
subdole e nascoste con le finalità della profonda offesa psicologica della vittima. Con questo non si
vuole asserire che il bullo sia destinato a diventare mobber, non esiste, infatti, alcuna ricerca che
dimostri il legame tra i due fenomeni in modo diretto. Altre ricerche, però, hanno evidenziato che i
bulli hanno statisticamente più probabilità di diventare adulti prevaricanti, se non addirittura
criminali, rispetto ai ragazzi non bulli.
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Il lavoro si conclude con la presentazione e la discussione di una ricerca sul campo, svolta da me in
alcuni istituti superiori della provincia del Sucis Iglesiente, allo scopo di indagare la presenza e
l’intensità del fenomeno del bullismo adolescenziale in questa zona della Sardegna.
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Capitolo primo
L’adolescenza
1.1 Introduzione
Le giovani generazioni sono generalmente accompagnate alla maturità dagli adulti responsabili
della loro crescita personale e sociale.
I rapporti con gli adulti significativi rappresentano dei punti di riferimento imprescindibili per la
costruzione del proprio sé e per poter giungere alla maturità adulta come membri positivamente
integrati nella realtà sociale in cui si vive. Questo è dimostrato dal fatto che coloro i quali
sperimentano gravi carenze nei rapporti significativi, con gli adulti e con i loro pari, soprattutto
durante i passaggi critici delle fasi esistenziali più propriamente evolutive (infanzia ed adolescenza),
incontrano molte difficoltà a sviluppare la propria personalità in maniera positiva ed integrata e a
stabilire stretti legami sociali.
Negli ultimi cinquanta anni, si è assistito ad una progressiva rivoluzione culturale che ha investito
tutti gli ambiti sociali ed ha favorito il mutamento dei modelli educativi e di socializzazione, i valori
e le norme trasmessi dalle generazioni adulte verso le giovani generazioni, in termini più
democratici, lasciando uno spazio di negoziazione relativamente ampio ai giovani circa la
possibilità di accettare, rifiutare o modificare i modelli proposti.
Alcune agenzie di socializzazione tra cui la famiglia, le istituzioni religiose, i partiti politici che
avevano avuto un ruolo fondamentale nell’accompagnare i giovani alla vita adulta nella prima metà
del secolo appena trascorso, hanno perso una parte del loro potere di socializzazione, mentre altre
agenzie quali quelle scolastiche, grazie al fenomeno della scolarizzazione di massa, hanno acquisito
un ruolo più cruciale nei processi di formazione.
Il movimento di rinnovamento culturale degli anni ’60 ha contribuito a portare una ventata di
democratizzazione in tutta la società, creando una coscienza molto più condivisa dell’importanza,
da parte delle persone, di assumere ciascuno il ruolo di protagonista attivo della propria vicenda
esistenziale, entro il tessuto sociale, favorendo anche la trasformazione delle istituzioni formali in
maniera tale da facilitare una partecipazione più attiva ad esse, da parte di tutti gli attori sociali.
Sono emerse anche alcune proposte educative verso le giovani generazioni, che hanno reso i
rapporti educativi tra adulti e giovani più simmetrici, ma meno caratterizzati da quei sentimenti di
responsabilità verso le nuove generazioni, che contribuiscono a creare in essa la certezza di avere a
disposizione punti di riferimento sicuri e disponibili nel corso del processo di crescita.
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Così i rapporti educativi hanno cominciato ad essere meno caratterizzati dallo stile autoritario che
tanta responsabilità ha avuto nel bloccare i processi di verifica personale dei modelli valoriali e
culturali offerti dagli adulti ai giovani, ma al tempo stesso hanno perso l’autorevolezza necessaria
che, come la letteratura dimostra, rappresenta la modalità privilegiata a favorire una crescita
personale e sociale delle nuove generazioni, facilitando i processi di acquisizione delle abilità
intellettive, affettive e sociali che permettono di acquisire una buona autostima personale e di
integrarsi efficacemente nel proprio tessuto sociale.
Questo periodo della vita è caratterizzato dalla necessità, per le persone, di affrontare una
molteplicità di compiti di sviluppo, il cui scopo fondamentale è quello di giungere ad una
ridefinizione del proprio concetto di sé, che permetta di avere a propria disposizione le conoscenze,
le competenze, le abilità ed il repertorio comportamentale adeguato ad inserirsi, a pieno titolo,
entro il contesto sociale che caratterizza la realtà adulta delle società in cui sono inseriti.
Tale processo evolutivo si sviluppa all’interno di alcuni ambiti sociali privilegiati per questo
periodo della vita (la famiglia, l’ambito scolastico, il gruppo dei coetanei) in cui gli adolescenti
entrano in relazione con altri significativi caricati di responsabilità nei loro confronti (gli adulti, i
genitori, gli insegnanti, i responsabili dei gruppi adolescenziali) o con cui condividono lo stesso
destino evolutivo (i coetanei).
Questi altri significativi, costituiscono i punti di riferimento essenziali che accompagnano i giovani
nell’affrontare i compiti di sviluppo. In altre parole gli adulti e i coetanei che gli adolescenti
incontrano negli ambiti di vita, forniscono loro dei modelli culturali nei quali identificarsi o
distanziarsi per giungere ad una interiorizzazione o ad un rifiuto di tali modelli o ad una semplice
accettazione superficiale da riconsiderare nel futuro.
La ridefinizione del concetto di sé e della propria identità è funzione di due dinamiche psico-sociali
inscindibili: l’assimilazione di sé entro categorie-gruppi sociali dense di significato per la persona e
nello stesso tempo, la differenziazione di sé da gruppi o persone significative attraverso le
dinamiche di confronto sociale.
E’ implicito che le dinamiche di assimilazione/differenziazione del sé si dispiegano sulla base dei
modelli culturali, comportamentali ed identitari disponibili nei vari ambiti di vita degli stessi
adolescenti.
La letteratura disponibile mostra l’importanza dei vari ambiti di socializzazione per la ridefinzione
del concetto di sé nel periodo adolescenziale.
Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90, Palmonari (Palmonari et.al, 1992) e
collaboratori hanno dimostrato l’importanza dell’appartenenza a tipi differenti di gruppi di coetanei,
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mettendo in rilievo che il sentimento di identificazione con gli stessi rappresenta un forte elemento
di sostegno psicologico nell’affrontare una varietà di compiti di sviluppo focali per questa età.
Successivamente, gli stessi autori hanno messo in luce l’importanza dell’esperienza scolastica e
dell’appartenenza a tipi differenti di gruppi di coetanei, nell’influenzare il fronteggiamento dei
compiti di sviluppo connessi con l’acquisizione dell’orientamento verso le autorità istituzionali.
Nello specifico, le evidenze raccolte mostrano che coloro che documentano un’esperienza scolastica
positiva, sia in termini di percezione soggettiva sia in termini di rendimento scolastico oggettivo,
insieme all’appartenenza a gruppi formali (religiosi e sportivi) o ancor meglio a gruppi di
adolescenti che adottano quale regola fondamentale, per permanere nel gruppo, il rifiuto di
comportamenti trasgressivi gravi delle norme sociali, sviluppano un sistema di atteggiamenti e un
repertorio comportamentale che si accorda in maniera più funzionale alle orme del sistema
istituzionale.
Queste evidenze lasciano presagire che i contesti di crescita caratterizzati dalla presenza di adulti
che si occupano in maniera responsabile degli adolescenti, favoriscano processi di socializzazione
volti a facilitare l’inserimento sociale degli stessi.
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1.2 Il mondo degli adolescenti
L’adolescenza può definirsi come quella fase dello sviluppo umano, compresa tra i 12 e i 18 anni
circa, nella quale l’individuo acquisisce le competenze idonee ad inserirsi a pieno titolo nel mondo
adulto (Palmonari 1993).
Durante il periodo adolescenziale lo sviluppo continua a procedere senza drastiche soluzioni di
continuità. L’immagine di un adolescente necessariamente in “rotta di collisione” con il proprio
passato, con il mondo adulto e con la società in generale, non è, infatti, confermata dagli studi
recenti. Una crescita tumultuosa caratterizza solo una parte degli adolescenti e, lungi dall’essere una
situazione normale, costituisce un indicatore del rischio nel successivo adattamento psicologico.
Per la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze si può parlare di crescita continuativa, senza
particolari scosse, o di crescita intermittente, caratterizzata da episodiche difficoltà in un quadro
generalmente tranquillo (Offer, Offer 1975).
Con questo non si vuole sottovalutare la portata dei cambiamenti individuali e relazionali che
caratterizzano questa età. La maturazione puberale, lo sviluppo intellettuale, l’accesso a scuole di
ordine superiore e l’ingresso, per alcuni, nel mondo del lavoro, sono eventi importanti che
richiedono una nuova visione sia dell’immagine di sé che delle relazioni interpersonali.
Questo non toglie che bisogna saper distinguere tra adolescenza normale e adolescenza difficile,
per non rischiare di sottovalutare proprio le misure che è necessario adottare in quest’ultimo caso.
La pubertà comporta i cambiamenti più rapidi e massicci che l’individuo sperimenta nel corso della
crescita; tali cambiamenti si riflettono sulla percezione di se stessi ed esigono una modificazione dei
rapporti con gli altri (coetanei e adulti).
Le modificazioni della sessualità non sono che uno degli aspetti legati alla trasformazione del sé
durante l’adolescenza. La pubertà coincide con un periodo di crescita particolarmente rapida e a
volte disorganica, che rende difficile per i ragazzi riconoscersi in un corpo “nuovo”. Questi
cambiamenti fisici coincidono con il momento in cui l’ambiente circostante inizia a richiedere al
ragazzo comportamenti adulti.
L’adolescente deve acquisire un nuovo stile di pensiero, dando vita ad un sistema di valori elaborato
e personalizzato, anche se notevolmente influenzato dal modello familiare.
La creazione di una propria autonomia è un processo mentale essenziale per la formazione
dell’identità dell’adolescente. L’individuo si costruisce stabilendo dei confini tra sé e gli altri che gli
permettono di crearsi uno stile personale di esistenza (Tonolo 1999).
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Le radici dell’autonomia relazionale sono lontane nel tempo. E’ comunemente accettato che la
“nascita psicologica” personale avviene nel momento in cui l’individuo attua un processo di
“separazione-individuazione” dalla madre (Mahler, Pine, Bergman, 1975). Secondo Blos (1991,
1996) con l’adolescenza avviene una “seconda individuazione” che sfocia in una nuova nascita
psicologica: nella prima, l’avvento di un’esistenza personale era il prodotto della distinzione tra sé e
la madre e il risultato era la capacità di stare da solo, ora è un’autonomia comportamentale, affettiva
e cognitiva dalla famiglia e il risultato è la volontà deliberata di scegliere da solo il corso della
propria esistenza.
Il difficile compito cui è posto di fronte lo porta a confrontarsi con dimensioni fra loro ambivalenti
quali la continuità e il cambiamento, considerando contemporaneamente le trasformazioni
intrapsichiche, i cambiamenti fisiologici e quelli sociali che lo coinvolgono e lo mettono alla prova.
Gislon (1993) descrive l’adolescenza come fase di passaggio (dall’età infantile a quella adulta) di
evoluzione (delle funzioni dell’Io e delle componenti del Sé) e di sospensione (fra rinvio e attesa,
certezza e desiderio).
Tale situazione di incertezza provata e vissuta è resa ancora più complessa dalle nuove capacità
cognitive che vengono a caratterizzare lo spazio mentale dell’adolescente, capacità che devono
essere lette nel loro stretto legame con il lavoro di emancipazione ed evoluzione affettiva, emotiva e
psicologica che si sta compiendo.
La maturazione del sistema nervoso, consente, nell’adolescenza, di sviluppare le capacità di andare
oltre i fatti concreti, elaborando ipotesi e teorie sulla realtà, al di là di quella che si vive
personalmente. Tale capacità, che permette di assumere una posizione più distanziata e critica nei
confronti di se stessi e degli altri, non sempre viene vissuta come un’acquisizione positiva. Quando
si comincia ad avere consapevolezza dei propri e degli altrui sentimenti, il mondo sembra
improvvisamente più complicato e ambiguo e le ondate di pensieri e sentimenti che incombono,
possono sopraffare la personale capacità di affrontarli. Per questo, a volte, si sente il bisogno di
allontanarsi dal mondo sociale (ritirandosi in se stessi) o dalle riflessioni in generale (scegliendo
attività, magari considerate superficiali, ma che consentono di non pensare).
Il cambiamento di atteggiamento nei confronti della realtà, permette una nuova consapevolezza del
proprio sè che risulta però diviso in un Sè reale, costituito dai sentimenti più intimi e dalle idee
personali da tenere segreti, e un Sè apparente, composto dalle caratteristiche da mostrare agli altri.
Questo darà un senso di precarietà e vaghezza al proprio senso di identità che si risolverà solo con
la fine dell’adolescenza.
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Carugati (1993) sottolinea, contrariamente a quanto affermato da Piaget
1
,come di fatto non sia solo
il tempo a produrre e fornire all’adolescente gli strumenti necessari per muoversi cognitivamente
all’interno del possibile. Altri elementi incidono in modo significativo sullo sviluppo e sulle
prestazioni cognitive del ragazzo, quali: l’interazione con i compagni e gli adulti, i contesti
situazionali diversi in cui i compiti vengono proposti, le esperienze pregresse che alla luce delle
nuove capacità cognitive dell’adolescente svelano possibilità alternative di ragionamento, gli aspetti
legati alla motivazione e al ruolo delle aspettative elicitate dalla situazione e dalle persone
coinvolte.
Sarà anche in base alla positività delle passate esperienze che l’adolescente potrà o meno affrontare
questo momento di sviluppo cognitivo e affettivo e arrivare a riorganizzare il suo pensiero in modo
da garantirne l’autonomia e la distanza dal pensiero dei genitori, avvicinandosi sempre più al
proprio Io e a modalità di lavoro mentale sempre più autentiche e autonome (Schmid
Kitsisikis,1993).
L’emancipazione dal controllo posto dai genitori e dalla loro dipendenza emotiva, trae origine
dall’atteggiamento assunto dai genitori stessi durante l’infanzia. Se la famiglia si è mostrata
sufficientemente “autorevole” e il controllo è avvenuto prevalentemente con il convincimento e
l’affetto, è più probabile che l’adolescente sviluppi un atteggiamento di fiducia in se stesso. Al
contrario, una famiglia “autoritaria” può più facilmente produrre un adolescente meno equilibrato e
propenso al conflitto.
1
Per quanto riguarda le nuove abilità cognitive a disposizione dell’adolescente è d’obbligo il riferimento alla teoria di
Piaget rispetto al pensiero formale, posto come ultimo stadio nello sviluppo cognitivo e caratterizzante appunto il
periodo adolescenziale. Con l’acquisizione di tale pensiero astratto, svincolato da operazioni concrete, fondato su un
ragionamento in termini di ipotesi formulate ora solo verbalmente e con cui si lavora in termini di verifica, come pure di
falsificazione, si ha la subordinazione del reale al possibile, ovvero si inverte la relazione che , fino allo stadio
precedente, vedeva la dominanza della realtà sulla possibilità. E’ un pensiero che opera su ipotesi e deduzioni e che,
attraverso la formazione di una capacità di tipo combinatorio, si affranca dalla realtà per avvicinarsi alla trattazione
delle diverse combinazioni possibili (Piaget, Inhelder,1955).
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1.3 Considerazioni sociologiche e psicologiche.
Gli studi antropologici di Margaret Mead hanno rivelato quanto le condizioni culturali influiscano
sul processo dell’adolescenza.
Partendo dall’ipotesi che “la storia, la cultura e la struttura delle relazioni sociali più immediate
creano il contesto all’interno del quale l’identità individuale deve esistere” Baumeister e Muraven
considerano l’identità stessa come l’esito di un processo di adattamento alle richieste del contesto
sociale (Baumeister e Muraven 1996, Baumeister 1998 ). Un adattamento che tuttavia non esclude
l’autodeterminazione, intesa soprattutto come libertà di scelta tra alternative diverse (Mancini
1999).
Nell’ambito della psicoanalisi, mentre Freud si era orientato sui meccanismi di difesa che
l’individuo mette in atto nei confronti delle tensioni spiacevoli, al contrario, E. H. Erikson (1968) ha
sempre sostenuto che l’orientamento principale della vita è la ricerca costante dell’identità, intesa
come il frutto di progressive auto-rappresentazioni che accompagnano l’individuo nel corso
dell’esistenza.
In adolescenza il problema della formazione dell’identità raggiunge il suo momento culminante.
La crisi che Erikson individua in corrispondenza di questa età è tra identità e diffusione di identità.
L’adolescente, cioè, deve sviluppare il senso di identità di se stesso, diventare un individuo con una
sua propria personalità distinta da quella dei coetanei e degli adulti, con un proprio senso critico,
con proprie norme sociali e valori morali, forgiando quelle inclinazioni e quelle strutture mentali
che l’accompagneranno per tutta la vita.
I modelli deterministici e unicausali hanno dominato per lungo tempo in psicologia, tentando, senza
successo, di spiegare il comportamento umano sulla base dell’azione di una o poche cause ricercate
alternativamente nella maturazione oppure nell’esperienza. Ad esempio il modello biologista e
quello psicoanalitico tradizionale spiegano l’adolescenza in termini di sviluppo sessuale. Il primo
privilegiando la rottura determinata dallo sviluppo puberale, il secondo la continuità dello sviluppo
pulsionale. Entrambi inoltre, riconducono le cause delle scelte, degli atteggiamenti e dei valori
dell’individuo, ad esperienze precedenti: il primo alla predisposizione genetica di determinate
condotte o tratti caratteriali, il secondo all’originario rapporto con i genitori.
Sia il modello biologico che quello psicanalitico tradizionale trascurano la presenza di fattori
inerenti la persona o l’ambiente che influenzano l’attività dell’individuo nel comportamento.
Questo aspetto è alla base invece dei modelli interazionista e costruttivista, per i quali lo sviluppo
non è riconducibile né al solo accrescimento né alle sole influenze ambientali, bensì all’interazione
tra l’individuo e il suo ambiente; in questa interazione l’individuo svolge un ruolo attivo, grazie
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soprattutto alle sue capacità cognitive (Bonino, Cattelino, 2000).L’origine di questa attività è
riconducibile sia ad una predisposizione innata all’interazione sia al ruolo svolto dall’ambiente
affettivo: è l’interazione tra queste variabili che fa dell’individuo un essere attivo.
Winnicott e Bowlby avevano già sostenuto l’importanza del ruolo svolto dall’ambiente affettivo,
Winnicott (1953) postulando l’esistenza di un’area di interazione madre-bambino, l’area
transizionale, Bowlby (1951) ha evidenziato, con la teoria dell’attaccamento, quanto sia importante
la qualità e l’intensità del legame con il primo oggetto d’amore, la madre.
Pertanto quando consideriamo l’adolescente come individuo attivo, non dobbiamo trascurare il fatto
che la sua capacità di pensiero e di interazione dipende dalla sua predisposizione innata a elaborare
e socializzare, ma anche dall’esito delle sue prime esperienze di interazione.
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1.4 Sviluppo affettivo.
Un sano sviluppo della personalità dipende sia dall'adeguato sviluppo della sfera cognitiva, affettiva
e sociale, sia dalle interazioni che la persona stabilisce con l'ambiente esterno nel corso della sua
evoluzione.
L'analisi degli aspetti affettivi include esperienze psichiche relative alla soggettività, che si
connotano secondo la polarità antitetica piacere-dispiacere, in base all'intensità, alle modalità di
insorgenza ed alla durata.
Studiare lo sviluppo affettivo significa analizzare il tipo di rapporti che il soggetto instaura con
l'ambiente e le caratteristiche individuali, evidenziando i fattori che influenzano l'evoluzione.
Aspetti di ordine ambientale che condizionano la qualità delle relazioni affettive possono essere: il
comportamento dei genitori, in modo specifico quello della madre nei primi anni di vita;
l'atteggiamento di accettazione o di rifiuto dell'ambiente; la possibilità di sperimentare esperienze
sociali positive.
Particolarmente importante è la relazione madre-figlio, infatti la madre offre la prima relazione
oggettuale del bambino, sull'esperienza della quale egli costruirà le successive relazioni
interpersonali. Se questo rapporto manca o viene significativamente alterato precocemente, nel
bambino si genereranno, dal punto di vista emozionale, stati carenziali che influenzeranno
negativamente e spesso irreversibilmente, il suo sviluppo psicofisico.
Per carenza affettiva si intendono diverse sindromi caratterizzate da una condizione prolungata di
non soddisfazione dei bisogni primari del bambino nel rapporto diadico con la madre.
Bowlby studiò le carenze affettive dal punto di vista quantitativo, focalizzando l'attenzione sulla
carenza da discontinuità dei legami o separazione.
I problemi maggiori insorgono in presenza di una carenza affettiva fra i cinque mesi ed i tre anni.
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1.4.1 Teoria dell’attaccamento
I primi lavori di Bowlby, (considerato uno fra i tre maggiori psichiatri del ventesimo secolo)
avevano dimostrato che i bambini che fanno l’esperienza della separazione o della privazione
provano, non meno degli adulti, intense emozioni di dolore, infelicità, disperazione, proteste
rabbiose e ritiro in se stessi. Nel separare un genitore dal proprio bambino, non viene mandato in
frantumi solo un meccanismo delicato, viene rotto un legame fondamentale che lega un essere
umano ad un altro. Proseguendo nei suoi studi Bowlby giunse alla definizione della teoria
dell’attaccamento che, nella sua essenza, viene considerata una teoria “spaziale” in quanto descrive
i meccanismi secondo i quali quando si è vicini a chi si ama ci si sente bene, mentre, quando si è
lontani ci si sente ansiosi, tristi e soli.
E’ utile chiarire il significato dei concetti interrelati di: attaccamento, comportamento
d’attaccamento e sistema di comportamenti d’attaccamento, che rappresentano le componenti
psicodinamiche, comportamentistiche e cognitive della teoria dell’attaccamento.
Attaccamento è un termine generale che si riferisce allo stato ed all’attualità degli attaccamenti di
un individuo che possono essere divisi in sicuri ed insicuri.
Sentire l’attaccamento vuol dire sentirsi sicuri e protetti. Per contro, una persona con un
attaccamento insicuro può provare una miscela di emozioni contrastanti verso le proprie figure di
attaccamento: amore intenso e dipendenza, paura del rifiuto, irritabilità e vigilanza.
Si può teorizzare che la mancanza di sicurezza suscita un desiderio simultaneo di essere vicini e la
determinazione rabbiosa di punire le proprie figure di attaccamento per il più piccolo indizio di
abbandono. Questo pattern di attaccamento insicuro è conosciuto come “insicurezza ambivalente”.
Il comportamento di attaccamento è definito semplicemente come ogni forma di comportamento
che appare in una persona, che riesce ad ottenere o a mantenere la vicinanza a qualche altro
individuo differenziato e preferito. Il comportamento d’attaccamento è innescato dalla separazione
o dalla minaccia di separazione dalla figura d’attaccamento. Viene eliminato o mitigato per mezzo
della vicinanza che, a seconda della natura della minaccia, può variare dal semplice essere in vista,
alla vicinanza fisica accompagnata da parole di conforto, ma priva di contatto, all’essere tenuti
stretti e coccolati.
L’attaccamento ed il comportamento d’attaccamento si basano sul sistema dei comportamenti di
attaccamento, un modello del mondo in cui vengono rappresentati il sé, gli altri significativi e le
loro interrelazioni e che codifica il particolare pattern d’attaccamento mostrato da un individuo. La
persona con un attaccamento ambivalente, ad esempio, potrebbe avere un modello operativo tale da
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considerare gli altri come desiderabili ma irraggiungibili e se stessi come indegni di aiuto e di
amore, e/o di una figura d’attaccamento non affidabile e rifiutante con un sé iracondo ed aggressivo.
Una relazione d’attaccamento può essere definita dalla presenza di tre caratteristiche chiave:
Ricerca di vicinanza ad una figura preferita: di importanza centrale per questa teoria è la nozione
che l’attaccamento è riferito ad una figura discriminata (o ad un piccolo gruppo di figure).
Bowlby spiegò in origine questo fenomeno con un’analogia col fenomeno dell’imprinting nei
primati dove l’attaccamento si sviluppa come risultato di un processo graduale programmato
geneticamente e di apprendimento sociale.
Il fatto che l’attaccamento sia, per dirla come Bowlby, “monotropico”, cioè che avviene con una
singola figura, molto probabilmente con la madre, ha implicazioni profonde per lo sviluppo
psicologico e psicopatologico lungo il ciclo della vita. E’, infatti, a causa di questa marcata tendenza
al monotropismo che siamo capaci di emozioni profonde, perché avere un attaccamento profondo
ad una persona vuol dire averla presa come oggetto su cui terminano le nostre risposte istintuali.
Il monotropismo però non è assoluto; gli attaccamenti di un bambino piccolo possono essere meglio
pensati come una gerarchia: solitamente, ma non necessariamente, con la madre al vertice, seguita
da vicino dal padre, nonni, fratellini ecc.. ma non c’è nulla nella teoria che suggerisca che i padri
non possono egualmente diventare principali figure di attaccamento se capita loro di provvedere in
gran parte alla cura del bambino.
Il bambino che cresce, però, deve imparare che la figura cui egli è attaccato deve essere condivisa
con il suo partner sessuale e con gli altri fratellini, il che fa della separazione e della perdita una
parte inerente alla dinamica di attaccamento.
Per Bowlby il dilemma umano verte sull’importanza centrale di un attaccamento che non può
essere condiviso e che col passare del tempo verrà perduto. La capacità di separarsi dalle figure
d’attaccamento e di formare nuovi legami rappresenta la sfida evolutiva dell’adolescenza e dei
primi anni dell’età adulta.
L’effetto “base sicura”: Mary Ainsworth fu la prima ad usare l’espressione “base sicura” per
descrivere l’atmosfera creata dalla figura d’attaccamento per la persona che le si lega.
L’essenza della base sicura è che essa crea un trampolino per la curiosità e l’esplorazione. Quando
il pericolo incombe, ci si aggrappa alle nostre figure d’attaccamento. Una volta passato il pericolo,
la loro presenza ci rende possibile lavorare, rilassarci e giocare; ma solo se siamo ben sicuri che le
figure d’attaccamento saranno a nostra disposizione se ne avremo ancora bisogno.