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ξ ridistribuire il reddito e la ricchezza.
La soluzione che è stata prospettata dalla moderna teoria economica nel
privatizzare i monopoli, prevede:
¾ la rimozione dell’integrazione verticale delle imprese (unbundling),
isolando il settore che presenta più di altri l’esistenza di barriere
all’entrata (come per esempio le infrastrutture di rete);
¾ regolamentare il settore per evitare abusi dovuti a posizione
dominante e all’attuazione di sussidi incrociati;
¾ liberalizzare gli altri segmenti del mercato permettendo l’ingresso di
nuove imprese.
Assume quindi un ruolo importante in questo processo la
regolamentazione dei settori liberalizzati, in modo da favorire lo sviluppo
della concorrenza grazie anche al ruolo svolto dalle Autorità Antitrust
nell’attuare la legislazione a tutela della concorrenza e del mercato.
Le privatizzazioni hanno anche dei costi e dei limiti.
Costi:
Essi si dividono in microeconomici che riguardano quelli che devono
essere sostenuti per privatizzare un’impresa (costi diretti – di
organizzazione e amministrativi, i costi finanziari di ristrutturazione, i
costi di rinnovo del capitale fisico) e i costi macroeconomici che derivano
dalla necessità di implementare un programma di privatizzazione che
richiede la creazione di speciali agenzie.
Limiti:
La privatizzazione fine a stessa non comporta nessun guadagno in termini
di efficienza rispetto ad una situazione precedente di monopolio pubblico.
Ogni programma di privatizzazione deve essere accompagnata da politiche
di apertura del mercato.
La privatizzazione può seguire essenzialmente tre strade:
1) denazionalizzazione che consiste nella vendita della proprietà pubblica a
soggetti privati. Questa forma di privatizzazione per generare forme di
efficienza maggiore sia produttiva che allocativa deve essere
accompagnata da una liberalizzazione del mercato;
2) deregolazione che indica un insieme di azioni volte a togliere le barriere
all’entrata e all’uscita del mercato;
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3) concessioni mediante contratti che è un meccanismo che introduce
competizione nel mercato o, in caso di monopolio naturale, competizione
per il mercato.
Chi eserciti l’effettivo controllo sulle società che ne derivano, se sia lo
Stato o se siano soggetti effettivamente svincolati dal controllo statale,
porta l’attenzione sulla distinzione tra privatizzazione “formale” e
privatizzazione “sostanziale”[1]. La prima è definita come una modifica
dell’assetto giuridico, mentre la seconda, oltre ad un mutamento della
struttura originaria dell’ente, è rivolta verso un cambiamento dell’assetto
proprietario.
Le due concezioni devono essere considerate come momenti necessari di
un itinerario estremamente complesso, che passa per una “trasformazione”
della struttura societaria, per poi arrivare ad un’effettiva cessione ai privati
del controllo delle società per azioni costituite in luogo degli enti pubblici.
1.Esiste inoltre una suddivisione più specifica delle varie forme di privatizzazione in base ai cambiamenti che esse
apportano alla struttura gestionale dell’azienda privatizzata,questa suddivisione è proposta nel capitolo 2 di questo
lavoro.
La tesi è strutturata in sei capitoli. Il primo capitolo è dedicato alle ragioni
che hanno spinto la maggior parte dei governi nazionali, all’ indomani del
secondo conflitto mondiale, ad un determinato intervento in diversi settori
economici, e in particolare in quelli di pubblica utilità. Dopo aver
esaminato le varie problematiche che si sono verificate in seguito ad un
eccessivo ricorso dei poteri pubblici in campo economico, si esaminano le
ragioni principali che inducono ad una politica di privatizzazione a partire
dagli anni Ottanta. Si considerano le motivazioni di natura economica,
indirizzate ad aumentare l’efficienza delle imprese e a ridurre il debito
pubblico, e le ragioni politiche che hanno spinto i governi ad attuare le
politiche di privatizzazione.
Nel secondo capitolo si analizzano le diverse forme di privatizzazione ed i
cambiamenti e le innovazioni che esse hanno introdotto nei mercati
finanziari;
Nel terzo capitolo è dedicato alla storia delle privatizzazioni in Italia,
dall’intervento in economia da parte dello stato con la nascita dell’ IRI alle
prime privatizzazioni alla fine degli anni ottanta, seguite dall’intensificarsi
del fenomeno agli inizi degli anni novanta; In seguito è stata svolta
un’analisi (dettagliata anno per anno) dell’andamento del fenomeno delle
privatizzazioni, a partire dal 1992 sino ad arrivare ai giorni nostri.
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Nel quarto capitolo si valuta l’impatto macroeconomico delle politiche di
privatizzazione, esaminando i limiti ed i vantaggi che esse manifestano
sulla situazione finanziaria e patrimoniale dello Stato, e gli effetti e le
conseguenze che esse hanno avuto sulle imprese privatizzate, sugli assetti
proprietari e sul mercato finanziario. Si analizza inoltre la rispondenza
delle privatizzazioni rispetto agli obiettivi che erano stati posti al centro
del piano sulle privatizzazioni. Si esaminano inoltre i diversi sistemi di
incentivo e di controllo dell’impresa privata e pubblica, dei sistemi di
corporate governance e dell’influenza che lo Stato continua ad esercitare
sulle imprese privatizzate attraverso lo strumento della golden share;
Nel quinto capitolo si approfondisce in particolare la privatizzazione dell’
Enel, dopo aver illustrato le caratteristiche dell’ azienda e la struttura dell’
azionariato. Viene inoltre ripercorso tutto il processo ancora in atto della
liberalizzazione del mercato elettrico in Italia, cercando di capire quali
sono gli interventi che lo Stato può ancora compiere per completare la
liberalizzazione del settore. Vengono infine illustrate le modalità, la
tempistica e i risultati della vendita delle quattro tranche da parte del
Ministero dell’ Economia e delle Finanze.
Nel sesto ed ultimo capitolo si esaminano le attuali partecipazioni dello
Stato italiano, si cerca di comprendere le ragioni della diminuzione del
fenomeno su scala globale e si effettuano delle valutazioni d’ insieme per
capire gli ostacoli odierni al processo di privatizzazione e le operazioni che
dovrebbero essere effettuate per completare il processo di apertura dei
nostri mercati, per spinge a ricercare maggiore efficienza e competitività a
livello di impresa come a livello di sistema.
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CAPITOLO 1 – DALLO STATO IMPRENDITORE ALLE
PRIVATIZZAZIONI.
1.1 L’ INTERVENTO PUBBLICO NELL’ ECONOMIA
Il processo di privatizzazione può essere compreso soltanto in correlazione
alle politiche che l’ hanno preceduto.
Dall’ inizio dell’ età moderna ogni ente territoriale, dallo stato al comune,
ha delle funzioni in attività di produzione di beni e servizi. Peraltro è
proprio in ordine alla produzione dei beni e dei servizi che si pone la
differenza fondamentale fra i due modelli astratti dell’ ordinamento
generale collettivista e di quello non collettivista, poiché nel primo la
gestione della produzione spetta ai pubblici poteri, nel secondo il pubblico
potere regola particolarmente la produzione, che in parte gestisce
direttamente, in parte affida ad imprenditori privati, in parte ad organismi
intermedi di svariata configurazione.
L’ “ era delle nazionalizzazioni “ trova il suo culmine all’ indomani del
secondo conflitto mondiale, ma in misura e con modalità estremamente
differenziate da paese a paese.
Così si può certo dire, ad esempio, che Regno Unito, Francia e Austria
sono le nazioni che ( almeno prima dell’ attuale ondata di privatizzazioni )
si caratterizzano per le politiche di nazionalizzazione più incisive. In
Francia e in Austria, tuttavia, le prime nazionalizzazioni non rispondono
ad un piano globale, ma sono dettate da motivi di opportunità e politici.
Sarà poi la Francia il paese che più di ogni altro raccorderà l’ attività delle
imprese pubbliche con una pianificazione nazionale che invece è stata
carente e debole nel Regno Unito. L’ Italia, che pure vanta un cospicuo
settore industriale pubblico, in questa fase ha effettuato, come è noto, un’
unica nazionalizzazione ( ENEL ), ha fallito l’ esperimento della
programmazione, e si è per lo più avvalsa di partecipazioni statali gestite
da apposite holdings, il che determina una caratteristica fluidità dei confini
del settore pubblico medesimo, una grande libertà di manovra dei manager
pubblici, così come anche una loro vulnerabilità a pressioni politiche
informali.
In definitiva, è dunque certamente legittimo parlare di una tendenza alla
collettivizzazione che accomuna tutti i paesi europei, rafforzatasi nel
secondo dopoguerra.
Detto questo, va notato anche come le varie nazioni presentino situazioni
estremamente differenziate, che influiranno di volta in volta sul
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significato, le possibilità, l’ ampiezza e le difficoltà del nuovo movimento
di privatizzazione.
Venendo alle giustificazioni addotte a favore delle collettivizzazioni, è
evidente come esse siano alquanto numerose e di vasta portata.
Numerosissime sono infatti le elencazioni degli obiettivi delle
collettivizzazioni o assunzioni in mano pubblica. Da due white papers [1]
1 HM Treasury: The financial and economic obbligations of the nazionaziled industries,London:HMSO,1961
HM Treasury: The nazionalized industries – a rewiew of economic and fiscal objectives, London: HMSO,1967
britannici si desumono quattro grandi classi di obiettivi, sotto le quali
possono essere assunte le diverse giustificazioni dell’ impresa pubblica, ivi
comprese anche quelle formulate in paesi diversi dall’ Inghilterra:
a) L’ efficienza nell’ uso e nella allocazione delle risorse, cui possono
essere ricondotte tante giustificazioni ( controllo dei prezzi in
condizioni di concorrenza distorta, reazione ed esternalità negative,
rottura di monopoli tramite creazione di concorrenti pubblici,
produzione di beni pubblici, ottenimento di economie di scala,
correzione di un’ informazione incompleta ) che hanno di mira il
benessere del consumatore, quanto altre giustificazioni ( scelta di
investimenti a bassi costi di opportunità, ristrutturazione e
razionalizzazione di n settore industriale, sostegno a settori
“nascenti” o capital- intensive, sostegno a settori che producono beni
e servizi strategici, nel senso di necessari e non sostituibili,
promozione di tecnologie avanzate, miglioramento dell’ efficienza
tecnologia ) che hanno invece di mira il miglioramento indotto delle
condizioni dei produttori.
b) La redditività della gestione.
c) La redistribuzione delle risorse, a vantaggio sia dei “consumatori”
(riduzione dei prezzi dei beni e dei servizi prodotti), sia dei
produttori (sviluppo regionale, salvataggio di imprese decotte, cross-
subsidization, misure a favore dei dipendenti).
Con un minimo di forzatura possiamo far rientrare in questa classe
anche la modificazione delle relazioni industriali in senso
partecipativo e co- gestionario.
d) Obiettivi di tipo macro- economico (piena occupazione,
diminuzione dell’ inflazione, riequilibrio della bilancia dei
pagamenti, crescita del Pil, misure anticicliche ).
La proprietà pubblica di attività produttive è stata pertanto ritenuta uno
strumento utilizzabile laddove si volessero perseguire gli scopi suddetti.
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Salta agli occhi la possibilità di forti tensioni fra finalità tanto diverse e
distanti fra loro. La proprietà pubblica, com’ è noto, in talune sue
versioni è stata vista e impiegata come un sostituto del mercato, come il
mezzo per la creazione di un’ economia mista, tanto dal punto di vista
delle strutture giuridico- organizzative, tanto da quello dei principi
informatori.
1.2 L’ ENTRATA IN CRISI DELLE IMPRESE PUBBLICHE
Come si è già visto, è certamente sbagliato assumere che le
collettivizzazioni, e più specificatamente le nazionalizzazioni, riflettano
sempre valori e finalità di stampo socialista. Bismarck, Mussolini, Franco
e De Grulle sono stati fra i più energici nazionalizzatori della storia
europea. La proprietà pubblica è stata invocata sulla base delle ragioni più
disparate. A prescindere dalla molteplicità degli obiettivi e del fatto che l’
acquisizione in mano pubblica sia il portato di orientamenti mercantilisti e
dirigisti, o piuttosto di principi socialisti, l’ assunto centrale è sempre stato
che il passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica avrebbe
aumentato la capacità del governo di influenzare l’ andamento dell’
economia. Le imprese pubbliche avrebbero modificato la struttura
economica direttamente, attraverso le loro decisioni concernenti la
produzione, e indirettamente, attraverso quelle concernenti i prezzi.
Tuttavia, l’ esperienza ha mostrato che proprietà pubblica e controllo
pubblico non sono affatto la stessa cosa. In effetti, il problema di imporre
un controllo pubblico effettivo sulle imprese in mano pubblica si è
dimostrato così spinoso che il principale fine in vista del quale tali imprese
sono state create – il controllo dell’ economia – è stato quasi totalmente
dimenticato. In concreto, la nazionalizzazione non ha fatto buona prova di
sé come strumento di politica macro o microeconomica.
La legislazione che in Francia, nel Regno Unito e in altre nazioni europee
disponeva, nel secondo dopoguerra, il passaggio di molte grosse imprese
ad un regime proprietario pubblico statuiva tipicamente i propri obiettivi in
termini estremamente generali, e vedeva i dirigenti di tali imprese come
altrettanti fiduciari dell’ interesse pubblico. Si presumeva infatti che tali
manager operassero “a distanza di sicurezza” dal governo, per quanto
quest’ultimo disponesse di alcuni poteri su di essi, come quelli di nomina,
di direttiva, di approvazione dei programmi di investimento (in misura
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maggiore o minore a seconda delle nazioni o del tipo di proprietà pubblica
prescelto) .
Economisti acuti come I. M. D. Little e W. Arthur Lewis compresero
presto i pericoli di una soluzione istituzionale in cui gli obiettivi erano mal
definiti e risultava estremamente difficile stabilire ex post se essi erano
stati effettivamente raggiunti o meno.
Gli incentivi offerti in una tale soluzione organizzativa avrebbero infatti
potuto indurre i manager del settore pubblico – in pratica immuni da
controlli, specie da quello parlamentare – a massimizzare comunque la
scala delle operazioni, posti i vincoli finanziari esterni, o ad assestarsi su
un quieto vivere non disturbato da trasformazioni nelle pratiche lavorative
o da difficoltà nelle relazioni sindacali, anziché a perseguire l’ interesse
pubblico.
L’ insoddisfazione circa il rendimento delle imprese nazionalizzate diede
luogo a reiterati tentativi di prescrivere obiettivi più specifici.
Un tema comune ai white papers del ministero del Tesoro del 1961, 1967 e
1978 era la maggior enfasi posta su considerazioni commerciali, piuttosto
che sull’ interesse pubblico, nonché su controlli finanziari esterni, piuttosto
che su un esame dettagliato da parte del governo della gestione ordinaria
delle imprese nazionalizzate. Secondo gli autori di tali papers invece, ciò
che si verificò fu la crescita delle intrusioni governative, cosí come l’
erosione dell’ autonomia dei manager nelle decisioni riguardanti gli
investimenti, la programmazione e le relazioni industriali. Pertanto, l’
interferenza ministeriale è stata frequente e pervasiva, ma si è di norma
svolta in via informale.
Inoltre la prerogativa ministeriale di impartire direttive, sebbene poco
usata per il suo scopo ufficiale, è stata invocata come un mezzo per
scaricare le responsabilità di decisioni impopolari ( Wade 1988 )2.
2 WADE W.:Administrative law,Oxford: Clarendo, VI ed. 1988 v.p. 161
Le nazionalizzazioni francesi del 1982-83 determinarono problemi
analoghi. Di nuovo, gli obiettivi non venivano definiti chiaramente, né
prima né dopo le elezioni. Come era da attendersi, il grado di influenza che
il governo avrebbe dovuto esercitare sulle imprese nazionalizzate divenne
uno speciale oggetto di controversia. Nel maggio del 1983 Mitterand
affermava che “ le industrie nazionalizzate dovrebbero godere di totale
autonomia di decisione e di azione”. In concreto, tuttavia, alle imprese
appena nazionalizzate mancò sia tale autonomia nella gestione ordinaria
sia una adeguata direzione statale circa le strategie di lungo termine.