verso i mercati internazionali. Attualmente si parla di scambi e mercati globali, di alta
mobilità dei capitali finanziari e di “rincorsa” all’abbassamento dei costi per quanto
riguarda quelle fasi di lavorazione dei prodotti o di processo in cui è possibile abbassare
il costo del lavoro. Questo sta avvenendo massicciamente in alcuni settori ed in alcune
fasi di essi attraverso la delocalizzazione nei luoghi ove la forza lavoro è flessibile ed a
basso costo. In questo modo si sono create maggiori interdipendenze tra paesi ed è
iniziata una “reazione a catena”, con effetti talora perversi, talora positivi.
Gli studi di questi processi hanno preso in considerazione un gran numero di fattori e di
conseguenze, tanto da incrementare studi specialistici e diversificati: si pensi alla
letteratura sulla varietà dei capitalismi riguardo all’analisi degli impatti che la
globalizzazione ha avuto in base alle diverse strutture istituzionali, economiche,
politiche e sociali, oppure all’analisi sulla reazione che le economie hanno avuto in
relazione ad alcuni aspetti fondamentali per la competitività delle imprese, o ancora ai
fenomeni di convergenza tra modelli di economie che per altri studiosi la
globalizzazione avrebbe determinato (Crouch, Streeck, 1997; Hall, Soskice, 2003;
Berger, Doore, 1996).
Ma cosa c’entra tutto questo con il ruolo delle università nei processi di sviluppo locale?
Il punto di collegamento è legato al fatto che le economie locali che nascono, si
sviluppano, si evolvono e talora si rafforzano proprio in conseguenza dei fenomeni di
globalizzazione. I luoghi dello sviluppo locale sono, infatti, quelle aree che hanno
saputo offrire al mercato beni e servizi di qualità che difficilmente si trovano altrove e
difficilmente permettono una delocalizzazione delle fasi di produzione o una loro
riproduzione in altri territori da parte di manodopera a basso costo e senza le
competenze strategiche necessarie. La possibilità di seguire questa strada è, però,
vincolata dall’esistenza di economie esterne presenti nel territorio: se ci sono i beni
collettivi di cui le imprese, e quindi il territorio, si possono avvantaggiare, si può
rispondere in modo competitivo alle sfide poste dal fenomeno della globalizzazione. Per
beni collettivi intendiamo tutti quei vantaggi materiali ed immateriali di cui un contesto
locale può godere in qualità di beni messi a disposizione collettivamente dagli attori
individuali e collettivi, pubblici e privati, economici e sociali locali. Per esempio
presenza di maestranze qualificate in loco, servizi di formazione professionale, buone
infrastrutture di comunicazione e trasporto, buon clima di relazioni industriali, presenza
di fornitori e subfornitori specializzati. Tali beni permettono da un lato di limitare i costi
6
che altrimenti le imprese dovrebbero sostenere per poter godere di questa molteplicità di
beni, e dall’altro di poter aumentare il livello di innovazione e di qualità nei prodotti
offerti, in modo da renderli di difficile imitazione e produzione. La competitività delle
aree locali ha la sua spiegazione proprio nello stretto legame tra territorio, imprese,
istituzioni politiche, associazioni di rappresentanza degli interessi ed intera società
locale: questo significa che le imprese non possono essere scollegate dall’ambiente in
cui operano, ma anzi, sono parte del proprio contesto. In senso attivo poiché sollecitano
l’ambiente con i loro bisogni produttivi, ma anche con le loro caratteristiche e con le
modalità con cui producono e si radicano nell’ambiente entrando in rapporto con esso, i
suoi attori e tutte le altre imprese che vi operano. In senso passivo poiché possono
beneficiare dell’ambiente e delle risorse che offre e che possono essere risorse naturali,
tecnologiche, infrastrutturali, di mercato, e relazionali.
I beni collettivi costituiscono anche l’anello di congiunzione tra sviluppo locale ed il
ruolo che l’università può avere proprio per l’attivazione e la cooperazione dei suoi
processi: la capacità di adattamento e di innovazione da parte delle imprese e dei
territori che le ospitano è perseguibile se si dispone di beni collettivi derivanti non solo
dalle reti formali ed informali che le imprese stabiliscono tra loro con propositi
collaborativi, ma anche con quelle che legano imprese agli attori collettivi istituzionali,
locali e non, che operano sul territorio locale e nazionale. Si tratta non solo di poter
godere di beni collettivi, che già sono presenti in un’area poiché derivano da precedenti
tradizioni storico culturali, e di legami tra le imprese in essa operanti, ma anche di poter
sviluppare beni collettivi locali dedicati proprio attraverso la creazione di reti di
relazioni tra soggetti istituzionali (i comuni, le province, le regioni, i ministeri centrali,
gli enti pubblici, le università), i rappresentanti del mondo economico (le associazioni di
categoria sindacali e datoriali, le camere di commercio, gli istituti di studio economico e
sociale), e la società locale (tutti coloro che operano con l’area territoriale di
riferimento). Le reti relazionali che legano questi attori tra loro facendo sviluppare
risorse fiduciarie, scambio di informazioni e progettazione condivisa di beni per il
territorio, si collegano ad un'altra tematica fondamentale per lo sviluppo locale: quella
del capitale sociale come risorsa di valore per un territorio. L’economia della
conoscenza che oggi deve essere l’obiettivo di sviluppo locale, nazionale ed europeo per
mantenere i territori competitivi, si basa sulla possibilità di intense relazioni tra i
soggetti protagonisti dello sviluppo economico e sociale, perché il progresso non nasce
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dall’isolamento e dalla chiusura, ma dallo scambio e dall’integrazione. Riguardo al
concetto di capitale sociale, questa tesi segue l’accezione di James Coleman che vede in
esso una possibile chiave di lettura dei processi di sviluppo nella loro evoluzione, senza
necessariamente legarli alla presenza pregressa di particolari caratteristiche culturali
locali (Coleman, 1990). Questo significa che lo sviluppo locale è possibile anche in
territori ove non sono presenti storicamente e culturalmente fattori che ne facilitano
l’avvio. Da questo punto di vista lo sviluppo locale, quindi, si configura come fenomeno
non path-dependent (Putnam, 1993; Fukuyama, 1995), ma possibile anche in contesti
in cui non sono presenti vincoli e legami storici e culturali.
Un importante attore è proprio l’università intesa sia come istituzione che fornisce
formazione specializzata e professionalizzante (risorse conoscitive), sia come centro di
ricerca e di sviluppo, sia come polo che attira investimenti da parte di soggetti interni ed
esterni all’area di riferimento in termini di risorse economiche, fiduciarie, finanziarie ed
attività di servizio. Si fa riferimento proprio al radicamento territoriale come
caratteristica che le università possono assumere per contribuire a rendere le aree locali
competitive ed in grado di affrontare con successo le sfide poste dal fenomeno della
globalizzazione. Il radicamento territoriale è un aspetto essenziale perché è nel territorio
che si possono sviluppare meglio le reti di relazioni e di conoscenze che permettono la
mobilitazione delle risorse, il monitoraggio dei soggetti coinvolti e le sanzioni di
esclusione a carico di coloro che infrangono i legami fiduciari (Trigilia, 1999).
Naturalmente se da un lato è possibile progettare e favorire la nascita di beni collettivi
locali dedicati, le reti di cooperazione tra i soggetti collettivi, istituzionali, locali e non,
cioè capitale sociale (Coleman, 1990, Trigilia, 1999) anche attraverso il contributo delle
università in loco, non è automatico che la loro presenza possa comunque assicurare una
traiettoria di sviluppo locale per l’area in cui esse operano. Ecco perché questo lavoro di
tesi si pone l’obiettivo di valutare il ruolo che il Polo universitario nella città di Prato ha
avuto nei processi di sviluppo locale, volendo analizzare se si possa parlare di effettivo
contributo, e se sì, con quale intensità e modalità esso si sia manifestato. L’università
per favorire i processi di sviluppo locale non può certo presentarsi come una “torre
d’avorio”, cioè lontana e separata dal contesto territoriale ove è collocata, ma deve
invece interagire con esso e compenetrarlo, favorendo quel processo che tiene insieme
locale e globale, evitando sia la chiusura localistica, sia il riferimento alla società in
generale senza considerare le specificità di quella del contesto locale ove si opera. Ecco
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perché parliamo di università che deve compenetrarsi con la società locale per
promuovere davvero sviluppo: “Tenere insieme società e locale consente di evitare le
trappole del localismo – perdita della visione d’insieme, impossibilità di operare
generalizzazioni, autorefenzialità culturale e comunitaria, folklorismo, ecc. – e nello
stesso tempo di affrontare con strumenti e categorie appropriate l’interpretazione dei
luoghi concreti della terra nel loro rapporto sempre mutevole e sempre dialettico con il
resto del mondo, con le grandi correnti immateriali e materiali che traversano il pianeta,
con le forze globali e globalizzanti della tecnologia e dell’informazione” (Giovannini,
2001, pp.6-7).
I temi che abbiamo finora accennato riguardo allo sviluppo locale (l’attuale interesse
dovuto al recente fenomeno della globalizzazione), ai suoi concetti chiave (beni
collettivi locali, capitale sociale) verranno ripresi ed approfonditi attraverso un primo
capitolo che servirà per inquadrare la tematica disciplinare a cui fa riferimento il
presente lavoro di tesi. In un secondo capitolo affronteremo, invece, al letteratura
specifica sul ruolo delle università per l’attivazione di processi di sviluppo locale,
specialmente per quanto riguarda gli studi sui distretti tecnologici ed i recenti contributi
riguardanti la tematica della diffusione regionale delle università. Ci serviremo
comunque della letteratura sullo sviluppo locale in genere e di quella sul ruolo
dell’università per lo sviluppo di sistemi dell’alta tecnologia poiché essi possono fornire
spunti d’analisi e categorie metodologiche importanti per la nostra analisi.
Molto spesso lo studio e l’analisi dei processi dello sviluppo locale è stato affrontato
prendendo come punto di riferimento centrale le imprese, e di conseguenza le politiche
e gli interventi a sostegno della loro competitività sono stati letti come funzionali ad
esse. Gli studi di questo genere mostrano come le imprese possano “radicarsi” nel
territorioattraverso investimenti nei meccanismi di condivisione della conoscenza con
gli imprenditori, valorizzando e beneficiando al contempo della ricchezza e della varietà
dei saperi locali, aggregando knowhow interno ed esterno in modo da potenziare le
proprie capacità innovative (Becattini, 1987; Cossentino, Pyke, Sengenberger, 1997).
La maggior parte degli studi ha focalizzato gli interessi e gli approfondimenti sui fattori
a sostegno della competitività territoriale per le imprese. Questo lavoro di tesi, invece,
prenderà come oggetto principale il ruolo dell’università per lo sviluppo locale, e
concepirà le imprese come destinatari e beneficiari di un processo che favorisce la
nascita e la creazione di beni collettivi locali dedicati per il territorio, di cui tutti
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possono godere (non solo le imprese dal punto di vista della produttività e
dell’economia locale, ma anche i cittadini, la società locale, e coloro che investono nel
territorio e provengono da altri territori) attraverso un processo completo di
valorizzazione della qualità intesa come crescita economica, culturale e sociale.
Questo lavoro si immette in quegli studi che pongono al centro della loro indagine gli
strumenti per lo sviluppo locale, sia interventi politici (dalle politiche per le singole
imprese e quelle per il territorio), sia analisi su gli elementi che favoriscono lo sviluppo
locale se presenti all’interno e fuori da un territorio: un esempio riguarda gli studiosi del
capitale sociale, concetto che ha attirato l’attenzione di sociologi, economisti, ed esperti
delle reti e dei legami tra soggetti singoli e collettivi (Bagnasco et al, 2002).
Il caso di studio di cui noi ci occupiamo, il Polo universitario di Prato, non è di facile
inquadramento: da un lato si parla di sede distaccata solo territorialmente dall’università
di Firenze, al pari di altre sedi decentrate (si pensi al Polo scientifico di Sesto
Fiorentino, alle sedi universitarie nella città di Pistoia, ed a quelle nel centro urbano di
Empoli e nell’area del Mugello). Dall’altro lato troviamo una sede universitaria che a
differenza di altre ha voluto dialogare e coinvolgere attivamente il territorio attraverso
una formula di gestione consortile originale che ha posto i presupposti per un processo
di radicamento locale e per una maggiore autonomia.
Prima di passare all’analisi dei dati sarà importante presentare la storia del Polo
universitario “Città di Prato”, riferendo dapprima sulla sua nascita ed evoluzione in
questi quindici anni (dai prima anni Novanta fino all’attuale 2005). Vedremo come
questa struttura abbia progressivamente ospitato diversi corsi di laurea, master ed
ultimamente anche corsi di laurea specialistiche, appartenenti attualmente a ben cinque
facoltà dell’Ateneo fiorentino che vanno dal settore umanistico di Lettere e filosofia, a
quello economico e sociopolitologico di Scienze Politiche ed Economia, fino a quelli
più tecnologici di Ingegneria e Medicina. Parleremo dell’impegno nel settore della
ricerca e della formazione, e ci soffermeremo poi sull’impatto di questa struttura nel
territorio pratese, utilizzando i dati quantitativi messi a disposizione dalle Segreterie e
dalle strutture universitarie del Polo pratese, ricavati da interviste effettuate ai laureati di
tutti i corsi di laurea triennale per capire l’impatto che queste figure professionali hanno
avuto nel territorio attraverso una serie di variabili che indicheranno il tipo di risposta
avuta finora. Passeremo in seguito all’analisi di dati qualitativi ricavati tramite
l’effettuazione di una decina di interviste ad importanti e significativi attori per lo
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sviluppo locale, per analizzare la percezione ed il ruolo che il Polo universitario di Prato
ha avuto o meno nell’attivazione di processi di sviluppo locale.
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CAPITOLO PRIMO: La letteratura sullo
sviluppo locale
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1. Introduzione - L’approccio multidisciplinare allo sviluppo locale
In questo capitolo prendiamo in considerazione una rassegna di alcuni dei contributi più
recenti sugli studi di sviluppo locale. Prima di effettuare questa rassegna, però, è
necessario sottolineare la trasversalità dell’argomento trattato. A differenza di altri
concetti, quello dello sviluppo locale non riguarda un’unica scienza sociale (come la
sociologia, l’economia, le scienze regionali, la geografia, ecc.), ma esso è stato
affrontato secondo un’analisi multidisciplinare. Numerosi studiosi hanno confrontato la
loro visione e la loro analisi dei processi di sviluppo locale, quali esperti di sociologia
economica, scienza della politica, e geografia economica (Bagnasco et al., 2002),
contribuendo a rafforzare una visione condivisa e multisettoriale dell’argomento.
E’ proprio per questa multidisciplinarietà che, anche se in questa tesi il fenomeno dello
sviluppo locale verrà affrontato da un punto di vista sociologico, non mancheranno
riferimenti agli economisti (Becattini, 2000a), ed alle altre discipline quali la scienza
della politica e la geografica economica. Ci soffermeremo su alcuni concetti
fondamentali come quello di bene collettivo, di capitale sociale e di governance locale.
Da questi concetti possiamo ricavare alcuni elementi importanti per la nostra indagine
per evidenziare gli elementi ricollegabili al ruolo che direttamente ed indirettamente
possono rivestire le università, proprio per cercare di individuare nei capitoli seguenti,
che tipo di ruolo, contributo e conseguenze può avere determinato il Polo universitario
di Prato nell’area pratese. Presenteremo con particolare attenzione il concetto di
distretto industriale per due motivi: il primo è che il concetto di distretto industriale è
stato lo strumento che ha permesso una ricomposizione del sapere sociale e
metodologico, ed ha permesso un avvicinamento di discipline quali l’economia, la
sociologia economica, la scienza della politica, la psicologia sociale e l’antropologia
sociale (Becattini, Burroni, 2003). Il secondo motivo riguarda la natura di realtà
distrettuale ed urbana dell’area pratese e quindi ci interessa per poter contestualizzare
l’oggetto della nostra indagine.
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1.1 Sviluppo locale: definizione e concetti fondamentali
In questi ultimi anni le tematiche territoriali hanno goduto di una maggiore
considerazione da parte degli studiosi del mondo accademico e non. Il fenomeno del
cambiamento globale che sta interessando i sistemi economici nazionali ed
internazionali va sotto il nome di “globalizzazione”. Questo fenomeno ha origini
antiche: negli ultimi anni, però, è apparso assai dirompente tanto da spingere molti
studiosi ad analizzarlo per spiegare ed individuare soluzioni ed opportunità che esso
potrebbe fornire ai moderni sistemi economici, anche per offrire dei suggerimenti per
limitare gli aspetti negativi e facilitare quelli positivi.
Nella prima visione del processo di globalizzazione l’economia sempre più sradicata dai
territori e sempre più mobile nello spazio, alla ricerca di condizioni produttive, di
investimento, di vendita o di costo del lavoro sempre più vantaggiose. Pensiamo alla
ingente quantità di investimenti di capitali che rapidamente si spostano sul mercato dei
cambi ogni giorno, oppure alle grandi somme di denaro che ogni giorno vengono
scambiati nel settore del commercio internazionale. Questo non significa che
attualmente i mercati nazionali abbiano perso importanza e non contribuiscano più al
PIL nazionale, ma semplicemente che l’economia ha superato i confini delle nazioni e
gli operatori economici ed i governi nazionali devono tenerne conto. La globalizzazione
è stata talora auspicata come “liberazione” dai vincoli degli stati nazionali, talora come
una “minaccia” per le politiche di protezione sociale e del lavoro. Il fenomeno della
globalizzazione come immagine di una crescente apertura delle economie dei paesi di
tutto il mondo, di una interdipendenza tra Stati, e di mercati finanziari internazionali
sempre più consistenti e veloci, ha fatto spesso parlare di economie che si
“deterritorializzano” alla ricerca di condizioni vantaggiose in termini di costi ed
opportunità produttive.
Parallelamente a quest’immagine se ne afferma un’altra apparentemente contrastante:
quella dello sviluppo locale come protagonismo, cooperazione e compartecipazione di
attori pubblici e privati, individuali e collettivi, interni ed esterni ad un determinato
territorio che collaborano alla valorizzazione ed allo sviluppo di un’area, permettendo
alla stessa di rimanere competitiva ed economicamente efficiente ed efficace sul
mercato locale, nazionale e mondiale. Da questo punto di vista lo sviluppo locale è una
possibile via per le nazioni di rimanere competitive e sapere rispondere a queste sfide,
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“territorializzandosi” e puntando su elementi di forza e su capacità locali non facilmente
reperibili o trasferibili altrove (Trigilia, 2005).
Lo sviluppo locale può assumere una molteplicità di forme: può derivare da fattori
storici e di antica tradizione culturale e locale, come nel caso dei distretti industriali;
oppure può essere il frutto consapevole di interventi politici volti alla ristrutturazione e
valorizzazione di aree territoriali. In entrambi i casi ha comunque bisogno dell’attiva
partecipazione di soggetti pubblici e privati, oltreché collettivi, così da poter essere
sostenuto e definito nel modo più congeniale e consono alle esigenze ed alle risorse di
un’area territoriale specifica. L’elemento che caratterizza lo sviluppo locale è, infatti, il
forte protagonismo dei soggetti locali pubblici e privati, ovvero la volontà e la capacità
degli attori coinvolti di stabilire relazioni tra loro, collaborando e condividendo una
visione di crescita sociale ed economica di un territorio. E’ fondamentale che in questa
visione condivisa i soggetti istituzionali locali e non mobilitino risorse locali, perché
promuovere lo sviluppo locale significa promuovere e valorizzare le risorse specifiche
di un determinato territorio, difficilmente riproducibili altrove. Le risorse non sono solo
materiali, ma di ogni genere: particolari maestranze o saperi produttivi locali, sistemi di
organizzazione produttiva come quelli dei distretti industriali, tradizioni culturali e
storiche, importanti conoscenze scientifiche, ecc.
Lo sviluppo locale rispetta la qualità della vita e del territorio, la società civile, le sue
tradizioni, la sua cultura e la sua storia, salvaguarda dal degrado e dai processi di
decadenza, e riguarda non solo un unico settore produttivo o solamente realtà
1
manifatturiere, ma l’intera vita economica e sociale di un luogo. Il protagonismo e la
capacità cooperativa degli attori collettivi favoriscono, attraverso accordi formali o
informali, il sostegno a questa tipologia di sviluppo economico e sociale insieme.
Questa mobilitazione dei soggetti locali non deve, però, essere interpretata come
manifestazione del cosiddetto localismo autartico ovvero una chiusura difensiva verso i
processi globalizzanti (Trigilia, 2005). Il localismo autartico è una modalità di
funzionamento di un’economia locale basata sul reperimento di risorse materiali ed
immateriali e sul coinvolgimento e la partecipazione di attori economici e sociali
esclusivamente locali e legati a quell’unico territorio di appartenenza. La risorse interne
1
Lo sviluppo locale non deve essere confuso con un settore produttivo, così come può riguardare non
solamente settori produttivi di tipo manifatturiero, ma anche finanziario, dei servizi e delle attività
agricole ed industriali.
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non vengono valorizzate attraverso scambi e contatti con territori ed attori esterni
all’area locale, anzi l’atteggiamento nei confronti dell’esterno è di chiusura e di difesa.
Un sistema basato sul localismo autartico è destinato ad “implodere” in se stesso ed è
sottoposto al rischio dell’isolamento rispetto al mercato globale. Lo sviluppo locale,
invece, attraverso il protagonismo e l’azione collettiva condivisa degli attori punta a
valorizzare le risorse interne anche attraverso le relazioni con territori esterni. Talora si
cerca di attrarre investimenti e risorse esterne al territorio sia di tipo politico come
investimenti pubblici qualificanti, sia di tipo economico o culturale attraverso gli
investimenti di soggetti privati. Pensiamo a differenti sistemi di sviluppo locale: i
sistemi locali dell’alta tecnologia, il sistema dell’informatica della Silicon Valley, il
Polo delle biotecnologie a Oxford, il Polo dei media a Colonia, gli sviluppi urbani delle
città di Barcellona, Bilbao, Glasgow, Lione, Francoforte, Stoccolma, l’esperienza dei
distretti industriali della Terza Italia, i sistemi produttivi locali del Baden-Wuttemberg.
Per ognuno di essi è possibile parlare di sviluppo locale, eppure i loro territori non si
sono chiusi, ma al contrario hanno intrattenuto molteplici e vivaci relazioni con i
territori esterni, contribuendo a mantenere la propria competitività (Trigilia, 2005).
Questi aspetti evidenziano che è necessario tenere distinti i due concetti di sviluppo
locale e di dinamismo economico: quest’ultimo è sostanzialmente un mero processo di
crescita misurabile in termini di reddito prodotto e di occupazione (Trigilia, 2005).
Possiamo pensare al caso in cui importanti aziende multinazionali si stabiliscono in
un’area, attirate dal basso costo del lavoro o delle risorse presenti su di essa, portando in
esse i propri stabilimenti produttivi. Il rischio è che non vengano mobilitate o stimolate
risorse interne e radicate nell’area, ma che le risorse provengano solo dall’esterno. Fin
quando lo stabilimento sarà presente e funzionerà, potrà offrire lavoro e ricchezza
all’area in cui risiede; nel momento in cui dovesse spostarsi altrove, rincorrendo
condizioni di costo più vantaggiose, ecco che l’area vedrebbe da un lato decrescere
rapidamente e consistentemente il tasso di disoccupazione, e dall’altro diminuire il
reddito pro capite.
Lo sviluppo locale quindi non deve essere confuso con l’improvviso innalzamento dei
valori del reddito pro capite e del tasso di occupazione di un territorio, perché questo
non permette di stabilire se davvero quel territorio si stia sviluppando economicamente
ed insieme anche socialmente.
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I processi dello sviluppo locale innescano un vero e proprio circolo virtuoso che non
determina solamente ricchezza economica, ma anche migliori condizioni ed
opportunità per la società locale e qualità della vita. Ci preme sottolineare che lo
sviluppo locale rispetta il territorio in ogni sua componente: da quella ambientale a
quella umana (valorizzazione delle risorse del luogo, protagonismo e visione condivisa
degli attori, coesione sociale, qualità della vita, rispetto della società civile e
dell’ambiente, rispetto delle politiche di protezione sociale e del lavoro).
Sia per quanto riguarda il localismo autartico, sia per quanto riguarda il dinamismo
economico non è sempre facile distinguerli nettamente dai fenomeni di sviluppo locale
che sono comunque processi dinamici, quindi in continuo divenire. Può darsi, infatti,
che un territorio veda l’inizio del suo sviluppo attraverso un processo di dinamismo
economico, ma poi esso riesca a trasformarsi in vero e proprio sviluppo locale. Così
come è possibile che un’area caratterizzata da processi di sviluppo locale diventi
incapace di cogliere nel tempo le opportunità offerte dall’esterno e non sia più in grado
di rigenerarsi e di rimanere competitiva. In questo caso essa si chiuderebbe su se stessa
rischiando l’implosione del localismo autartico.
Lo sviluppo locale quindi non risulta essere antitetico od in contrasto con i processi
della globalizzazione; anzi da essi può cogliere delle opportunità proprio grazie alle
capacità degli attori locali di sapere progettare e condividere una visione collettiva dello
sviluppo. Quindi lo sviluppo locale permette quella “territorializzazione” di attività e
processi economici e sociali che possono promuovere benessere collettivo ed
innovazione attraverso una regolazione congiunta e condivisa tra attori economici
(imprese, lavoratori, associazioni di rappresentanza degli interessi, ecc.) ed attori
politici e della società locale (soggetti politici ed istituzionali, rappresentanti della
società civile, governi locali, ecc.).
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1.2 La dimensione regolativa
I mutamenti dovuti in parte alla globalizzazione, in parte al rapido cambiamento dei
modelli organizzativi che hanno sempre più “ancorato” le imprese ai contesti
istituzionali locali, riflettono il crescente interesse per l’analisi di modelli di sviluppo
locale e regionale in cui il ruolo dei livelli decentrati di regolazione ha assunto maggiore
importanza (Burroni, 2005).
Le dinamiche dello sviluppo locale sono state studiate anche dal punto di vista
regolativo proprio perché la competitività di un territorio dipende dalle modalità
secondo le quali avvengono gli scambi tra gli operatori economici. Per capire che tipo di
regolazione agisce all’interno di un territorio è fondamentale soffermarsi sulle
caratteristiche della cosiddetta governance. Il termine governance si riferisce alla
totalità delle istituzioni che coordinano o regolano l’azione o la transazione tra soggetti
economici nell’ambito di un sistema economico (Crouch et al., 2001). Il concetto di
governance è stato affrontato secondo diverse prospettive e metodologie di studio: non
solo la sociologia, ma a anche la scienza della politica. Per quello che riguarda la nostra
indagine, la governance si riferisce al modello di regolazione socio-economica che
interviene in un determinato territorio e che non riguarda solo gli aspetti giuridico
normativi (in questo caso si tratterebbe di government), ma riguarda invece gli aspetti di
interazione tra attori istituzionali, quindi pubblici e politici, ed attori privati, singoli e
collettivi. “Lo sviluppo economico nasce dall’interazione tra il sistema economico ed il
sistema sociale considerato nei suoi aspetti antropologici, storici, culturali, politici ed
istituzionali” (Bagnasco, 2002). L’analisi della governance delle economie locali ci
interessa particolarmente perché attraverso la comprensione della dimensione regolativa
di un sistema economico possiamo capire come avviene la produzione di un elemento
fondamentale e necessario per lo sviluppo locale: i beni collettivi locali per la
competitività. Riprenderemo successivamente alla rassegna sui sistemi di regolazione la
trattazione di questi beni, ma intanto anticipiamo che essi sono vantaggi collocati al di
fuori delle imprese (contrariamente all’organizzazione fordista) ma di cui le imprese
possono godere, e che possono essere costruiti intenzionalmente o inintenzionalmente
come beni materiali e non. I meccanismi di regolazione, ovvero di governance,
permettono di comprendere le modalità di creazione dei vantaggi competitivi per uno
specifico territorio (Burroni, 2005).
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E’ necessario definire quelli che chiameremo gli strumenti concettuali e analitici, al fine
di comprendere meglio il funzionamento della dimensione regolativa di un sistema
economico. Si identificano quattro forme o principi di regolazione delle attività
economiche riguardanti le regole secondo le quali si organizza la produzione, la
redistribuzione e la risoluzione dei conflitti (Trigilia, 2002). Ogni forma di regolazione
ha caratteristiche diverse dalle altre e determina tratti diversi all’interno di un’economia,
a seconda del suo grado di prevalenza rispetto alle altre. Ogni principio di regolazione si
ritrova in grado di intensità diverso nelle diverse epoche storie e nelle diverse società
umane che si sono susseguite nei secoli.
Il tipo di regolazione più antica è quella della solidarietà o reciprocità. Questa forma di
regolazione dell’attività economica è basata sulla presenza di regole informali
condivise, valori, obbligazioni, norme socialmente e collettivamente approvate o
disapprovate, che stabiliscono come organizzare il lavoro, come allocare risorse
produttive, come ridistribuire i prodotti del lavoro, e come risolvere i conflitti tra i
soggetti che partecipano o meno alla produzione. E’ tipica delle economie primitive,
delle società basate sull’istituzione della famiglia e della parentela. Si pensi alle piccole
comunità primitive di cacciatori, di coltivatori o di pescatori. Polanyi (Trigilia, 2002)
chiama questa forma di regolazione della “reciprocità”, puntando l’attenzione sul fatto
che questo tipo di principio di regolazione è tipico anche delle società moderne come
meccanismo che rimanda alla possibilità di trarre un vantaggio successivo; per fare un
semplice esempio, all’interno della famiglia i genitori mantengono i figli
presupponendo che in futuro potranno essere a loro volta sostenuti da questi ultimi .
La forma di regolazione chiamata “autorità” si basa sulla coercizione regolativa delle
attività economiche da parte dello Stato, come unica istituzione che, attraverso il
monopolio della forza legittima, assume il comando anche dell’organizzazione
dell’economia, e lo garantisce attraverso l’uso di sanzioni formali prestabilite. E’ la
forma di regolazione delle attività economiche tipica dei Grandi Imperi Romano,
Egiziano, ecc. o delle Società Feudali. Caratterizza in parte, ma non del tutto anche le
economie contemporanee, in cui lo Stato ha comunque un forte ruolo di regolatore delle
attività economiche.
Il principio di regolazione basato sullo scambio di mercato è la forma di regolazione
tipica delle economie liberali di fine Settecento, inizio Ottocento; il Mercato è una vera
e propria istituzione che si autoregola in base all’incontro tra domanda offerta, punto di
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