disordini psichici declinati in termini di “malattia mentale” sulla falsariga della malattia
fisica. Si pensava che potessero esistere forme diverse di malattia mentale da
diagnosticare in modo accurato e da curare con specifiche terapie, con o senza l’utilizzo
di psicofarmaci. Anche la terminologia utilizzata prendeva spunto dalle scienze mediche
e la netta dicotomia tra normalità e patologia fece in modo che queste venissero viste
come categorie chiuse e discrete di processi psicologici (Anolli, 2005). Questa
particolare inclinazione ha dato origine nel 1952 al Diagnostic and Statistical Manual of
Mental Disorders (DSM), manuale che ha raggiunto la sua quarta versione nel 2000
(DSM-IV).
Nel corso degli anni ci si è resi conto di quanto il DSM, considerato da molti psicologi
tuttora fonte insindacabile, si sia dimostrato un “prodotto culturale” soggetto a numerosi
cambiamenti. I cosiddetti “disordini mentali” elencati nel 1952 erano 106, mentre sono
arrivati ad essere, nel 2000, 297. Questo incremento di disturbi mentali, oltre ad avere
aumentato notevolmente le persone diagnosticabili come mentalmente disturbate, ha
aumentato il rischio che tutte le cose gli esseri umani pensino, sentano, desiderino o
facciano, che non siano logiche secondo norme e regole che definiscono il modo in cui
le persone dovrebbero vivere in occidente, possano essere etichettate come espressione
di qualche “disordine mentale”.
All’interno di questa visione diagnostica e curativa della persona umana, alla fine degli
anni Ottanta negli Stati Uniti si sviluppò una corrente di pensiero interessata a temi fino
ad allora non trattati in modo scientifico, quali la felicità, la soddisfazione e la qualità
della vita. L’obiettivo di queste nuove correnti era quello di studiare e comprendere
questi processi dall’interno, riferendosi alle condizioni personali. Nacque quella che
Diener per primo ha chiamato “psicologia del benessere soggettivo” (Diener et al.,
1984).
La necessità di fondare la psicologia positiva si cominciò ad avvertire studiando gli
effetti del secondo conflitto mondiale, bel momento in cui Seligman et al. notarono che
molti individui, un tempo fiduciosi e di successo, divennero sfiduciati, depressi, dopo
che la guerra aveva sottratto loro i sostegni sociali, il lavoro, il denaro e lo status.
Alcune persone, al contrario, nonostante tutte le avversità dettate dal clima di guerra,
riuscirono a mantenere la loro integrità e la loro serenità (Seligman & Csikszentmihalyi,
2000).
6
Seligman si chiese da quali forze erano guidati questi individui. Egli giudicò le risposte
di Freud e Jung insoddisfacenti, così come quelle degli psicologi umanisti Maslow,
Rogers, e May che, a suo dire, sembravano incapaci di fornire risposte scientifiche,
basate empiricamente al quesito.
L’autore ritenne che a quel punto i tempi erano maturi: si doveva fondare la psicologia
positiva, una nuova scienza in grado di colmare le lacune create all’interno dello studio
degli aspetti psicologici positivi dalla ricerca nel corso degli anni, ma anche di tracciare
nuove linee di comprensione dell’esistenza umana.
L’obiettivo della psicologia positiva è quello di catalizzare un cambiamento in
psicologia, da una generale preoccupazione rivolta solo a “riparare” le situazioni
negative della vita, al contribuire alla costruzione di una migliore qualità di vita
(Seligman, 2002). Essa si propone di studiare la forza e la virtù che hanno a che fare
con il lavoro, l’educazione, l’amore, la crescita, il gioco.
Sul piano soggettivo, la psicologia positiva valorizza le esperienze soggettive:
benessere, appagamento e soddisfazione, in prospettiva passata, flusso (flow
experience) e velocità in prospettiva presente, speranza e ottimismo in prospettiva
futura. A livello individuale mette a fuoco i tratti positivi individuali: la capacità di
amare e di lavorare, il coraggio, le abilità interpersonali, la spiritualità, l’orientamento al
futuro, il talento, la saggezza. A livello di gruppo si concentra sulle virtù civiche e sulle
caratteristiche che caratterizzano l’individuo per essere un buon cittadino: la
responsabilità, l’altruismo, la moderazione, la civiltà, la tolleranza, il lavoro etico
(Seligman, 2002).
Alla base di questo approccio vi è il concetto di prevenzione. Il modello basato sulla
malattia, che permetteva di lavorare solo sui punti deboli, non era in grado di proporre
teorie efficaci per prevenire la malattia, e si è imposta sempre più la necessità di una
scienza basata sulla forza e sulla resilienza. Gli individui non dovevano essere più
considerati passivi, ma attivi e capaci di scegliere, di assumersi rischi e responsabilità,
in grado di diventare autoritari ed efficaci (Bandura, 1986; Seligman, 1992), utilizzando
quelle che Seligman (2002) definisce “forze cuscinetto” contro lo sviluppo di patologie
mentali. Questo avrebbe permesso agli individui di imparare a condurre stili di vita più
sani a livello psicofisico e di ri-orientare la psicologia verso il perseguimento del terzo
obiettivo: rendere più forti e produttive le persone sane e consentire la messa in atto
7
delle potenzialità umane più elevate (Seligman, 2002). Il principio “Nikki” di Seligman
sostiene che identificando, amplificando e sfruttando queste forze insite agli esseri
umani, nelle situazioni a rischio, può produrre un’efficace prevenzione. Di contro,
lavorare solo sulla debolezza e sulla malattia mentale, deificando il DSM (Diagnostic
and Statistical Manual) ha reso la scienza psicologica incapace di mettere in atto
un’efficace prevenzione.
Si avverte un grande bisogno, ora, di concentrare la ricerca sulle forze e le virtù
dell’essere umano; si avverte la necessità di sviluppare una “nosologia della forza
umana”, una sorta di “anti-DSM I” (Seligman, 2002). La psicologia positiva rappresenta
una svolta importante: essa mira a capire e a favorire lo sviluppo delle risorse soggettive
per gestire al meglio l’esistenza, nella convinzione che è sempre meglio sviluppare le
capacità che riparare i danni e colmare le carenze affettive e cognitive.
Riconoscere e ampliare le competenze, facendo leva sui punti di forza e di eccellenza di
ogni persona è l’obiettivo principale della psicologia positiva (Vailant, 2000; Anolli,
2005).
1.2 Dall’ impotenza appresa allo stile esplicativo
E’ interessante notare che Seligman abbia cominciato a parlare di prevenzione e di
psicologia positiva nel 1975 quasi fortuitamente, in quanto si stava dedicando allo
studio di una condizione psicologica opposta. Egli, studiando la depressione, aveva
scoperto che era strettamente associata con la cosiddetta impotenza appresa.
Tale fenomeno fu descritto la prima volta da alcuni psicologi che stavano studiando
l’apprendimento animale (Overmier & Seligman, 1967; Seligman & Maier, 1967).
Questi infatti avevano osservato che, se a un cane immobilizzato si somministra una
serie di scariche elettriche dolorose, nei giorni successivi subisce passivamente la
medesima serie di scariche, anche se ha la possibilità di evitarle schiacciando una
semplice leva. Un cane in condizioni normali ed in grado di agire, invece, non si
comporta in questo modo e schiaccia la leva per evitare il dolore dell’elettricità. Il primo
cane, senza possibilità di controllo, ha imparato a subire e a comportarsi in maniera
impotente, mentre il secondo cane reagisce vigorosamente.
8
Gli stessi studiosi hanno subito esteso le proprietà di comportamento dei cani a quelle
delle persone, le quali in modo analogo, se percepiscono gli eventi come incontrollabili
e si sentono in loro balia, diventano passive e rassegnate, hanno una concezione
pessimista dell’esistenza e spesso vanno incontro a depressione e ansia. Le persone
ottimiste, invece, agiscono e reagiscono cercando di tenere sotto controllo gli eventi,
senza sentirsi troppo in balia di essi.
L’impotenza appresa è lo stato di chi ha perso qualsiasi fiducia nella possibilità di
essere arbitro del proprio destino, di chi si trova completamente alla mercè di forze che
non controlla, di chi è nell’impossibilità di dare un senso e una direzione alle cose che
accadono. In laboratorio si genera uno stato del genere tramite situazioni stressanti che,
per il fatto di sottrarsi a qualsiasi logica, generano la convinzione che qualunque cosa si
faccia, comunque non si riuscirà né a sfuggire, né a mitigare, né a rendere ragione di ciò
che accade e che è la causa della sofferenza. Fuori dal laboratorio si può generare uno
stato analogo in concomitanza di situazioni, o in seguito a eventi, che sembrano
scoraggiare ed esaurire ogni capacità di resistenza. In molti casi il senso di impotenza e
la rassegnazione più completa sono l’esito di privazioni, aggressioni, lutti che sembrano
aver svuotato l’individuo di ogni fiducia, di ogni volontà di reazione, di ogni capacità di
autodeterminazione.
Si creano, a volte, nella vita di alcune persone, sequele senza fine di eventi drammatici
che sembrano esaurire tutte le risorse e le energie che il soggetto possiede.
Ciò che sorprende, in molti casi estremi, non è la perdita di interesse per la vita, simile a
quella che sembra contraddistinguere i casi più gravi di depressione, ma piuttosto la
capacità di preservare tale interesse (Mikulincer, 1994; Peterson et al., 1993). Secondo
Seligman, come descritto nel paragrafo precedente, la differenza tra chi rinuncia
rapidamente e chi resiste tenacemente sta nella spiegazione che viene data degli eventi
negativi e di quelli positivi.
Molte ricerche successive a quelle di Seligman valutarono i vari aspetti dell’impotenza
umana, differenziandola da quella animale. Le caratteristiche più positive riguardanti la
condizione umana sono suggerite considerando le caratteristiche uniche degli esseri
umani.
Anzitutto gli eventi incontrollabili negativi, tra gli esseri umani, sembrano produrre più
impotenza di quelli positivi. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che gli animali non
9
sono in grado, al contrario di noi umani, di distinguere ciò che capita loro di buono da
ciò che non lo è; essi non sono in grado, quindi di reagire in maniera coerente ad uno
stimolo incontrollabile ma positivo. Gli esseri umani sono in grado di assegnare un
significato ad ogni evento che capita loro. Anche gli animali, come si apprende dal
modello dell’impotenza appresa, sono in grado di capire cosa possono o meno
controllare, ma le persone riescono a mettere in relazione questa possibilità o meno di
controllo degli eventi con il significato contestuale che l’evento possiede. Gli esseri
umani possono interpretare gli eventi in un modo che vada oltre alla loro letterale
controllabilità (Rothbaum, Weisz & Snyder, 1982). Gli stessi autori sottolineano come
particolari rinforzi esterni, come ad esempio la religione, possono sostenere gli esseri
umani nell’affrontare particolari eventi incontrollabili.
Una seconda asimmetria è quella chiamata impotenza vicaria. Problemi nel risolvere le
difficoltà possono essere causati nelle persone che sono costantemente in contatto con
altri individui esposti ad incontrollabilità (Brown & Inouye, 1978). Questa concezione
estende senza dubbio i potenziali modi in cui l’impotenza e i comportamenti ad essa
connessi possono essere creati nel mondo naturale.
Una terza differenza è data dal fatto che piccoli gruppi di persone possono essere resi
impotenti anche solo attraverso l’esposizione ad eventi incontrollabili. Così, quando un
gruppo lavora alla risoluzione di un problema senza trovare una soluzione,
successivamente manifesterà deficit di problem-solving, se confrontato con un altro
gruppo non esposto precedentemente ad incontrollabilità (Simik, Lederer & Seligman,
1983). Il livello di impotenza del gruppo non è la semplice funzione dell’impotenza
sviluppata tra i singoli membri. Infatti, quando lavorano singolarmente, i membri di un
gruppo impotente non mostrano deficit. Forse questi risultati potranno, in ricerche
future, essere generalizzati a gruppi più larghi includendo organizzazioni complesse o
addirittura intere culture.
In altre linee di lavoro, i ricercatori proposero l’analogia tra i vari fallimenti
nell’adattamento e l’impotenza appresa e ne investigarono le correlazioni. Peterson et
al. (1993) proposero tre criteri formali con cui giudicare il meglio di ogni applicazione.
Il primo criterio proposto è la cosiddetta noncontingenza oggettiva, il quale sostiene che
l’impotenza appresa è presente solo quando non esiste contingenza tra azioni e risultati
10
e va tenuta ben distinta dalla passività appresa (dove le risposte attive sono in modo
contingente punite e/o le risposte passive sono incentivate).
Il secondo criterio è la mediazione cognitiva: l’impotenza appresa implica un
caratteristico modo di percepire e spiegare gli eventi, soprattutto quelli negativi.
Il terzo ed ultimo criterio è la generalità cross-situazionale del comportamento passivo.
L’impotenza appresa è mostrata attraverso la passività anche in situazioni diverse da
quella in cui l’incontrollabilità fu per la prima volta provata. Gli autori mettono in
relazione questa caratteristica dell’impotenza con fenomeni da essa derivanti come il
ritardo cognitivo, la tristezza, l’aggressività ridotta e la debolezza fisica.
Con il procedere della ricerca, si è chiarito il fatto che l’originale spiegazione data
all’impotenza appresa era una semplificazione troppo esasperata. Il modello fallì nel
prendere in considerazione il range di reazioni che le persone mettono in atto in risposta
ad eventi incontrollabili. Mentre molti individui mostrano i precedentemente descritti
deficit in diverse situazioni e ripetutamente nel tempo, altri non evidenziano queste
difficoltà. Inoltre, i fallimenti nell’adattamento che il modello dell’impotenza appresa
sostiene, come ad esempio la depressione, sono spesso caratterizzati da una perdita di
stima di sé, argomento che questo modello non prende neanche in considerazione.
Cercando di risolvere queste discrepanze, Lyn Abramson, Martin Seligman e John
Teasdale (1978) riformularono il modello dell’impotenza (RLHT), prendendo in
considerazione la teoria dell’attribuzione (Seligman, 1975; Heider, 1958; Kelley, 1967;
Weiner, 1972, 1974). Le persone si chiedono perché alcuni eventi (soprattutto negativi)
accadono loro. La natura della risposta determina i parametri di impotenza che ne
seguiranno. Se l’attribuzione causale è stabile nel tempo (“ciò sarà per sempre così”), ne
scaturirà un modello di impotenza duraturo; se invece la causa è attribuita a un evento
momentaneo, l’impotenza sarà transitoria. Se la causa è globale (“ciò rovinerà qualsiasi
cosa”), ne conseguirà un’impotenza che si manifesterà in diverse situazioni; se specifica
alla situazione considerata l’impotenza sarà circoscritta. Infine, se la causa è attribuita
ad una caratteristica interna all’individuo (“è tutta colpa mia”), l’autostima dello stesso
individuo cade sotto livelli minimi; se esterna, l’autostima rimane intatta.
Queste ipotesi costituiscono la riformulazione attribuzionale della teoria
dell’impotenza. I deficit scaturiti da eventi incontrollabili sono influenzati
dall’attribuzione causale che l’individuo attribuisce agli eventi stessi.
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In molti casi la situazione stessa fornisce all’individuo una possibile spiegazione
dell’evento, e la vasta letteratura della psicologia sociale sull’attribuzione causale
documenta diverse influenze ambientali su questo processo (Shaver, 1975). In altri casi
l’individuo reagisce nel suo modo abituale di attribuire un senso agli eventi che
accadono; ciò è chiamato stile esplicativo. Le persone tendono a dare le stesse
spiegazione per i più disparati eventi. Come verrà illustrato nei prossimi paragrafi, uno
stile esplicativo caratterizzato da un’interna, stabile e globale spiegazione degli eventi
negativi è descritta come pessimismo, e lo stile opposto, caratterizzato da esterne,
momentanee e specifiche spiegazioni degli stessi eventi negativi è descritta come
ottimismo (Buchanan & Seligman, 1995).
In accordo con la riformulazione attribuzionale, lo stile esplicativo non è la causa di
problemi, ma piuttosto un fattore di rischio disposizionale. Dato un evento
incontrollabile, lo stile esplicativo determina il modo in cui l’individuo risponde.
La ricerca, soprattutto negli ultimi anni, è progredita, ma la teoria proposta per primo da
Seligman negli anni Settanta è rimasta quasi intatta. Alcuni studiosi ritengono la
dimensione dell’internalità come poco interessante (Abramson, Metalsky & Alloy,
1989), in quanto, rispetto alle altre due dimensioni, stabilità e globalità, possiede minori
correlazioni consistenti; esistono inoltre dubbi che questa dimensione possa avere un
impatto sulle aspettative dell’individuo (Peterson, 1991). Ciò nonostante, il modello
“tridimensionale” di stile esplicativo descritto precedentemente è rimasto fino ad oggi,
2006, uno dei costrutti più validi formulati su questo tema.
Ripercorrendo le ricerche che dallo studio dell’impotenza hanno portato alla costruzione
di un valido modello per lo studio dello stile esplicativo, non si può fare a meno di
notare che anche Seligman, come la maggior parte degli psicologi, è partito dallo studio
sofferenza, ma, diversamente da molti suoi colleghi, non si è limitato ad accogliere una
domanda di consolazione e non ha ritenuto sconveniente che gli psicologi si
occupassero di accrescere la felicità, oltre che lenire l’infelicità.
12
1.3 L’attribuzione causale in psicologia positiva
Come afferma Anolli (2005), gli individui non vivono mai isolati, ma interagiscono
sempre tra loro facendo riferimento ad un dato contesto. Interagendo, queste variabili,
creano relazioni molto interessanti. Come sostenuto da Tajfel (Tajfel et al., 1964) gli
individui tendono a ridurre le differenze esistenti tra i membri interni al proprio gruppo
e a rimarcare quelle esistenti con membri di un altro gruppo. Entra in gioco, inoltre, un
processo che la psicologia sociale definisce distorsione di giudizio: se un evento è
particolarmente importante e viene valutato in termini negativi (o positivi), e se il
contesto risulta essere vago, l’individuo tende a valutare in modo negativo (o positivo)
anche gli eventi ad esso associati.
Nel caso in cui il contesto sia ben definito, esso è in grado di direzionare il pensiero, i
sentimenti e le emozioni delle persone in un verso, piuttosto che un altro. Il contesto va
inteso come l’insieme delle condizioni, delle opportunità e dei vincoli spaziali,
temporali, relazionali, istituzionali e culturali che assieme ad un discorso, ad un gesto,
ad una espressione facciale, genera il significato. Il contesto rappresenta la matrice dei
significati e se si modifica la struttura del contesto, si modificano di conseguenza i
significati corrispondenti. Come sostiene la prospettiva interazionista, il significato è la
sintesi di un testo e di un contesto in maniera congiunta, dinamica e contingente (Anolli,
2002; 2005).
All’interno di questa relazione tra individuo e contesto, oltre al secondo anche il primo
assume un’importanza decisiva. Essendo gli individui, infatti, inclini a valutare loro
stessi, oltre che l’ambiente, se vengono posti di fronte al medesimo evento le
spiegazioni possono assumere caratteristiche opposte. Alcuni sono inclini a spiegarlo
facendo riferimento a fattori interni e personali, altri sono portati ad intenderlo sulla
base di fattori esterni e ambientali.
Ci si rende conto di quanto il processo di attribuzione causale, criterio che le persone
mettono in atto per spiegare gli eventi sociali al fine di controllarli, prevederli e quindi
mettere in atto comportamenti appropriati, sia particolarmente complesso. La causa
dell’evento valutato può essere attribuita a fattori interni o personali (causa interna
soggettiva), o a fattori esterni o situazionali (causa esterna oggettiva). L’individuo
utilizza le informazioni a sua disposizione relative ai fattori interni ed esterni per fare
13
inferenze circa le cause di un evento, per fare previsioni sul futuro e ottenere un certo
grado di controllo sull’ambiente (Heider, 1958).
La letteratura scientifica raccoglie numerose ricerche riguardanti l’attribuzione causale,
alcune delle quali evidenziano un fenomeno particolare: quando in gioco c’è un proprio
comportamento negativo, le persone tendono a spiegarlo riferendosi a specifiche
condizioni del contesto o ambientali, mentre, al contrario, quando si ha a che fare con
un proprio comportamento positivo esse sono propense a ricercarne le cause tra le
proprie competenze e abilità. Quando si osservano comportamenti di altri, a prescindere
che essi siano positivi o negativi, sono attribuiti a loro tratti di personalità, stabili.
I processi di attribuzione causale sono direttamente implicati nella psicologia positiva, e
come verrà evidenziato, essi sono fondamentali per capire i processi implicati nella
psicologia dell’ottimismo, che ha a che fare con un certo stile di attribuzione causale, un
certo modo di approcciarsi e di far fronte agli eventi, un particolare modo di spiegare gli
stati d’animo.
1.4 Ottimismo, pessimismo e stile esplicativo
La definizione di ottimismo presa dal dizionario comprende due concetti correlati. Il
primo è una disposizione alla speranza, o meglio, una convinzione che alla fine il buono
avrà la meglio. La seconda più generale convinzione si riferisce alla credenza, o
all’inclinazione a credere, che il mondo sia il “migliore dei mondi possibili”.
Nella ricerca psicologica, è da diversi anni studiata la validità dell’ottimismo come
costrutto. Tra i primi ricercatori impegnati in questo campo ci sono M. Scheier e C.
Carver che, durante una ricerca condotta nel 1985 nella quale studiavano i processi
collegati all’autoregolazione del comportamento, hanno rilevato come le azioni che un
individuo intraprende siano influenzate dalle aspettative che gli stessi individui hanno
nei confronti delle possibili conseguenze di tali azioni. L’aspettativa, considerata come
quel senso di fiducia o di dubbio riguardo alla possibilità di raggiungere un particolare
obiettivo, è basilare per il raggiungimento dei propri obiettivi. L’ipotesi sostenuta da
Scheier e Carver (1993) è quella secondo la quale le persone si impegnano per
raggiungere degli obiettivi finché li considerano raggiungibili e fino a quando sono
14
convinti che il loro perseverare porterà agli esiti sospirati. Quando le aspettative
diventano sfavorevoli e il raggiungimento dei propri scopi è fortemente compromesso,
gli individui riducono il proprio impegno o addirittura abbandonano il compito.
L’ottimismo, fondamentalmente regolato dalle aspettative, sottende una generalizzata
disposizione ad aspettarsi esiti positivi, ed è fortemente implicato in queste dinamiche.
Gli ottimisti tendono ad avere e a mantenere aspettative più positive nei confronti del
futuro e aspettative speranzose in una data situazione, rispetto ai pessimisti e, di
conseguenza, si sforzano maggiormente e con più costanza per raggiungere gli obiettivi
che si prefissano e si pongono positivamente di fronte all’esperienza e a quello che li
attende (Scheier & Carver, 1993; 1988). I pessimisti, al contrario, sono portati a
sfuggire dagli impegni presi e a rifugiarsi in un atteggiamento più passivo verso ciò che
capiterà loro. In presenza di compiti impegnativi, gli ottimisti tendono a mostrare
maggiore fiducia e persistenza verso i propri obiettivi, anche se la il raggiungimento
della meta finale dovesse prospettarsi particolarmente ostico, mentre i pessimisti attuano
comportamenti più dubbiosi ed esitanti. Anche quando le difficoltà diventano più serie,
gli ottimisti tendono a pensare possono superarle con successo, in un modo o nell’altro,
mentre i pessimisti immaginano un esito disastroso. L’ottimismo è generalizzato e non
limitato a specifiche aree del comportamento o a specifiche circostanze; è una
disposizione, e proprio per questo viene chiamato ottimismo disposizionale (o grande
ottimismo), da non confondere con l’ottimismo situazionale (o piccolo ottimismo). Esso
è da considerarsi come tratto relativamente stabile della personalità di un soggetto, ma
può derivare anche da fattori esterni e ambientali. L’ottimismo, secondo Scheier e
Carver, è un fattore che modula la motivazione ed incide sulle aspettative di riuscita:
spinge a persistere nella scelta dei propri obiettivi, anche nei casi in cui sono presenti
oggettive difficoltà (Scheier & Carver, 1993; 1988; 1985). Esso caratterizza il sé
dell’individuo e attribuisce un profondo senso di coerenza interiore che gli consente di
mantenere nel tempo un’immagine favorevole, oltre che coerente (Anolli, 2005).
L’ottimismo disposizionale è di tipo realistico, in quanto sa accettare le situazioni per
quello che sono e non si ostina a modificare le condizioni impossibili ed è, proprio per
questo, come verrà successivamente illustrato, in relazione con numerosi indici della
salute fisica e psicologica. Gli individui che ottengono alti punteggi nella misurazione
del proprio ottimismo disposizionale, riferiscono meno sintomi depressivi, miglior uso
15
di efficaci strategie di coping, e meno sintomi fisici di quanto facciano gli individui
pessimisti. (Scheier & Carver, 1993).
Una differente prospettiva sull’ottimismo è quella che si basa sull’analisi dello stile
esplicativo. Questa prospettiva si è sviluppata in parallelo con quella di Scheier e
Carver, ed evidenzia, prima di tutto, il fatto che sia l’ottimismo che il pessimismo sono
stili cognitivi di spiegazione degli eventi. Con questa definizione si intende
l’atteggiamento mentale generalmente adottato da una persona per spiegare e
interpretare gli eventi che accadono, attribuendo ad essi precise cause.
Seligman (1990), in accordo con la riformulazione del modello dell’impotenza appresa
(Reformulated Learned Helplessness Theory, RLHT; Abramson, Seligman & Teasdale,
1978) attraverso l’integrazione con la teoria dell’attribuzione (Seligman, 1975; Heider,
1958; Kelley, 1967; Weiner, 1972, 1974) sostiene che ottimismo e pessimismo sono
collegati a tre fattori che definiscono lo stile esplicativo:
1. la stabilità (contrapposta alla temporaneità)
2. la globalità (universalità vs. specificità)
3. la personalizzazione o locus (causa attribuita a se stessi, locus interno vs. la
causa attribuita ad altre persone o fattori ambientali, locus esterno).
Da questo inquadramento, risulta che gli ottimisti seguono uno stile di attribuzione
causale nello spiegare gli eventi negativi caratterizzato da tre fattori:
1. forniscono una spiegazione provvisoria e momentanea (temporaneità) come
esito di un avvenimento fortuito ed occasionale;
2. danno una spiegazione circoscritta e puntuale, connessa con quella specifica
situazione (specificità);
3. attribuiscono la spiegazione dell’accaduto ad una causa esterna.
I pessimisti, d’altro canto, sono caratterizzati da uno stile cognitivo opposto in
riferimento agli eventi negativi, infatti:
1. forniscono una spiegazione sistematica e stabile per quanto è accaduto
(permanenza);
2. danno una spiegazione globale e universale, valida per tutte le occasioni
(universalità);
3. attribuiscono a loro stessi la spiegazione di quanto è successo (causa interna).
16
E’ naturale che se ottimisti e pessimisti si confrontano con eventi positivi, le loro
spiegazioni nell’attribuire le cause sono invertite. Gli ottimisti forniranno una
spiegazione caratterizzata da stabilità, permanenza ed internalità, mentre i pessimisti
forniranno uno stile esplicativo caratterizzato da temporaneità, specificità ed esternalità.
E’ stata ipotizzata una relazione tra lo stile esplicativo ottimistico teorizzato da
Seligman e la disposizione ottimistica sostenuta da Scheier e Carver. Peterson (1991),
ha affermato che questi due costrutti sono molto simili tra di loro: entrambi sono di
natura cognitiva e sono collegati all’energia o alla passività con cui gli individui
affrontano le richieste ambientali. Entrambe le teorie, inoltre, si basano sull’assunzione
che gli effetti dell’ottimismo e del pessimismo derivino dalle differenze nelle
aspettative, e i dati ricavati dalle ricerche sullo stile esplicativo tendono ad essere
paralleli a quelli ottenuti per la disposizione ottimistica.
In realtà, esiste qualche differenza tra i due costrutti. L’approccio di Scheier e Carver,
ad esempio, tende a considerare le aspettative in maniera diretta e generica, queste
riguardano infatti approssimativamente l’intero spazio (e tempo) di vita degli individui
mentre l’approccio di Seligman risulta maggiormente indiretto, in quanto le aspettative
sono valutate in base all’analisi dello stile attributivo, il modo in cui l’individuo
tipicamente spiega gli eventi che gli accadono (Scheier, & Carver, 2000).
Nella letteratura riguardante l’ottimismo disposizionale, inoltre, ottimismo e
pessimismo sono spesso visti come due poli di uno stesso continuum. Termini
ottimismo, pessimismo, speranza e impotenza sono spesso utilizzati in maniera
intercambiabile. Anche nella letteratura riguardante lo stile esplicativo spesso si fa
confusione e tutte le ricerche che considerano ottimismo e pessimismo come due
dimensioni opposte di uno stesso continuum, assumono che le persone che danno
spiegazioni negative per eventi problematiche lo faranno anche per spiegare eventi
positivi (Gillham et al., 2000).
Considerando ottimismo e pessimismo in questo modo, vengono offuscate importanti
distinzione degli stessi costrutti (Chang, 1998). Un individuo che si aspetta che le
proprie aspettative non verranno soddisfatte, non necessariamente si aspetta una
catastrofe. Chang et al. (1994) suggeriscono di usare il termine ottimismo per riferirsi
alle aspettative di risultati positivi e di utilizzare il termine pessimismo facendo
riferimento alle aspettative di risultati negativi. In questo modo, gli individui possono
17
nello stesso tempo possedere alti o bassi livelli di ottimismo e alti o bassi livelli di
pessimismo. Ottimismo e pessimismo, secondo questi autori, sono da considerare
costrutti distinti e non poli di un unico continuum.
I ricercatori interessati allo studio dello stile esplicativo hanno usato numerosi strumenti
per misurare questo costrutto. La maggior parte degli studi condotti su adulti ha
utilizzato l’Attributional Style Questionnaire (ASQ: Questionario sullo stile di
attribuzione), costruito nel 1982 da Seligman, Peterson, Semmel, von Baeyer,
Abramson e Metalsky.
L’ASQ propone dodici ipotetiche situazioni diverse, sei positive e sei negative: tale
distinzione rispecchia chiaramente il fatto che il carattere ottimistico o pessimistico di
uno stile esplicativo dipende, come visto precedentemente, dal tipo di spiegazioni date a
eventi positivi e negativi rispettivamente.
Di queste dodici situazioni, inoltre, sei sono interpersonali/affiliative e sei relative al
successo.
Gli obiettivi che gli autori di questo test si erano prefissati sono: creare generalità tra le
situazioni e fornire la possibilità che lo stile fosse differente tra queste due tipologie di
eventi, nella misurazione dello stile esplicativo.
Attraverso chiare e brevi istruzioni, i partecipanti sono invitati a immaginarsi nelle
situazioni descritte e a riportare nello spazio previsto il motivo principale ritenuto alla
base di ognuna. Successivamente, si chiede loro di valutare tale motivo rispetto alle tre
dimensioni attribuzionali su una scala Likert a sette punti:
1. se il motivo della situazione è relativo a qualcosa che riguarda loro o altre
persone o circostanze (locus);
2. se il motivo di tale situazione sarà ancora presente in futuro (stabilità);
3. se il motivo influenza solo quella situazione specifica o anche altre aree della
vita (globalità).
I punteggi vengono sommati tenendo separate le sei situazioni negative da quelle
positive. Lo stile esplicativo degli eventi negativi in genere assume maggiori
correlazioni di quello degli eventi positivi, ma una descrizione più dettagliata di questo
strumento, così come la descrizione delle sue proprietà psicometriche, è qui rimandata,
in quanto verrà presa in considerazione all’interno del capitolo dedicato alle scale
utilizzate per questa ricerca (cap. 4).
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Negli anni Novanta, per le ricerche riguardanti lo stile esplicativo, è stata utilizzata una
versione estesa dell’ASQ (E-ASQ; Metalsky, Halberstadt & Abramson, 1987; Peterson
& Villanova, 1988). Questo strumento, utilizzato principalmente per le ricerche
riguardanti l’impotenza appresa (Metalsky & Joiner, 1992; Metalsky, Joiner, Hardin &
Abramson, 1993) contiene più situazioni negative dell’ASQ e può essere tenuto in
considerazione solo per lo studio dello stile esplicativo degli eventi negativi.
Più recentemente, Abramson, Alloy e Metalsky (1998) hanno creato il Cognitive Style
Questionnaire (CSQ) per verificare la tendenza ad inferire cause stabili o globali agli
eventi negativi, valutandone le conseguenze e l’impatto che queste hanno sul sé.
Il Children’s Attributional Style Questionnaire (CASQ; Kaslow, Tannenbaum &
Seligman, 1978) è lo strumento più utilizzato per la misura dello stile esplicativo nei
bambini. Il CASQ presenta 48 ipotetici eventi, 24 positivi e 24 negativi, in un
questionario a scelta multipla.
Gli strumenti fin qui considerati sono tutti misurazioni “self report”, valutazioni che i
soggetti esprimono su loro stessi. Numerose ricerche hanno studiato lo stile esplicativo
analizzando il discorso, il materiale scritto e orale prodotto da soggetti a cui è stato
chiesto di attribuire una causa ad un evento. Lo strumento più utilizzato per questo tipo
di analisi è il CAVE (Content Analysis of Verbatim Explanations; Peterson, Betters &
Seligman, 1985), attraverso il quale le attribuzioni causali per gli eventi positivi e
negativi sono estrapolate e codificate per il loro grado di internalità, stabilità e globalità.
Questo strumento è molto utilizzato per le ricerche longitudinali; tutto il materiale
scritto e orale può essere conservato e confrontato con dei nuovi dati raccolti più avanti
nel tempo.
1.5 Origini dello stile esplicativo
Molte ricerche testimoniano il fatto che una terapia cognitiva può intervenire sullo stile
esplicativo dell’individuo cercando di trasformarlo, spesso con successo, da
pessimistico a ottimistico, riducendo la possibilità di sviluppare forme depressive in
questi individui (Seligman et al., 1988).
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