Le suddette definizioni lasciano intendere la volontà degli organi comunitari
di operare una distinzione tra consumatore e prestatore basata esclusivamente sullo
scopo che anima le parti del contratto e non anche relativa alla posizione di debolezza
di chi si trovi ad acquistare un bene o un servizio in un settore di mercato estraneo
alle proprie competenze e attraverso strumenti di transazione che possono sfuggire al
necessario controllo tecnico.
Dunque come si evince dalle riportate definizioni per “consumatore” deve
intendersi esclusivamente una persona fisica che agisce per scopi estranei alla propria
attività professionale, commerciale o imprenditoriale.
L’attenzione verso la tutela del consumatore ebbe inizio negli anni Settanta,
ovvero all’indomani dell’adesione della Gran Bretagna e della Danimarca alla C.E.E.,
allorché ci si avvide dell’inaffidabilità delle regole spontanee emerse dal mercato. In
tale contesto, nel 1972 il Consiglio dei Ministri riconobbe formalmente i cinque diritti
fondamentali dei consumatori inerenti: 1) alla tutela degli interessi economici; 2) alla
protezione della salute e della sicurezza; 3) alla garanzia dell’informazione e
dell’educazione; 4) alla tutela risarcitoria in caso di danni; 5) al diritto alla
rappresentanza ed alla partecipazione. In seguito l’ Assemblea consultiva del
Consiglio d’Europa approvò la Carta europea di protezione dei consumatori, che
rappresentò il tentativo di predisporre una legislazione uniforme in Europa.
Tutto questo ha favorito l’adozione di una serie di direttive, ossia la disciplina
della sicurezza dei cosmetici; la disciplina inerente la chiarezza delle etichette dei
generi alimentari; la disciplina delle vendite fuori dai locali commerciali; la disciplina
della pubblicità ingannevole, che rappresentano ancor aggi le vere pietre miliari
nell’evoluzione della politica comunitaria relativa al consumatore.
Tuttavia soltanto nel 1987, con l’adozione dell’Atto Unico europeo, si è giunti
ad una vera e propria politica in favore dei consumatori.
Dal 1990 in poi, è stato approntato un piano d’azione triennale in cui la
Comunità, e poi l’Unione, hanno stabilito taluni precisi obiettivi ed azioni al fine di
realizzare compiutamente le esigenze di tutela del consumatore , al di là delle singole
realtà nazionali.
La sensibilità dimostrata per la tematica in discorso è testimoniata, tra l’altro,
dall’istituzione del Commissario per la Politica dei consumatori.
Ma è con l’adozione del trattato di Maastricht del febbraio 1992 che la
protezione del consumatore è divenuta di notevole importanza, tanto da essere
consacrata nel Titolo XI rubricato, appunto, Protezione dei consumatori.
Una svolta di straordinaria importanza nell’organizzazione degli obiettivi
dell’Unione Europea è rappresentata dal Trattato di Amsterdam del 1997. L’art 153
del Trattato al co.1 afferma che “l’impegno della Comunità consiste nel promuovere
gli interessi dei consumatori… e nell’assicurare un livello elevato di protezione”.
Non si tratta dunque di una enunciazione nominalistica e formale dei diritti del
consumatore ma si allude a finalità così rilevanti da essere incluse nel testo fondante
dell’Unione.
Il legislatore comunitario non ha però ritenuto sufficiente il mero riconoscimento
formale dei diritti ma ha ritenuto necessaria la reale consapevolezza, da parte
dell’acquirente- consumatore, della complessità della posizione contrattuale a sé
ascrivibile. L’informazione e l’educazione della persona-consumatore ha da sempre
caratterizzato la finalità cui ha orientato i propri interventi sia la Comunità che
l’Unione.
Non si tratta dunque di una enunciazione nominalistica e formale dei diritti del
consumatore ma si allude a finalità così rilevanti da essere incluse nel testo fondante
dell’Unione.
Il legislatore comunitario non ha però ritenuto sufficiente il mero riconoscimento
formale dei diritti ma ha ritenuto necessaria la reale consapevolezza, da parte
dell’acquirente- consumatore, della complessità della posizione contrattuale a sé
ascrivibile. L’informazione e l’educazione della persona-consumatore ha da sempre
caratterizzato la finalità cui ha orientato i propri interventi sia la Comunità che
l’Unione.
L’art. 7 della legge 29 luglio 2003 n. 229, legge il cui scopo è quello di
semplificare il sistema normativo italiano attraverso un suo generale riassetto ha
delegato al Governo l’emanazione di un decreto legislativo per riorganizzare in un
corpo normativo unitario le disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori.
Con il Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206 viene varato il primo
“codice del consumo”, il quale raccoglie le disposizioni sparse nei decreti e nelle
leggi di cui ai capitoli precedenti del presente lavoro.
La nuova disciplina ha, senza dubbio alcuno, il merito di raccogliere in
maniera organica tutte le norme di livello legislativo in materia, consentendo
all’operatore del diritto di orientarsi più facilmente nella materia della tutela dei
consumatori, degli utenti ed in generale dei contraenti deboli. Tuttavia tale intervento
non sembra sufficiente a risolvere i problemi legati ad una effettiva tutela del
consumatore in quanto la disciplina, oltre ad essere assemblata e riordinata,
necessitava di integrazioni e di regole processuali che avrebbero potuto consentire
una vera garanzia per i privati. Del resto, interpretando l’articolo 7 della legge
229/2003 alla luce dei “criteri generali di delega valevoli per tutti. gli interventi di
codificazione di cui alla legge 229/2003” la Sezione Consultiva per gli atti normativi
del Consiglio di Stato, presieduta da Guido Alpa, aveva rimarcato con forza la
possibilità e l’opportunità di un “intervento riformatore sostanziale e non solo di un
riordino formale”, ma deve constatarsi che questi importanti suggerimenti non sono
stati accolti, perdendo così l’occasione per sciogliere alcune aporie, alcuni dubbi
interpretativi segnalati in questi anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ad esempio
in materia di clausole vessatorie, e per dare soluzione ad alcuni problemi non
secondari, quali la tutela giudiziaria dei consumatori rispetto alle liti cd. bagattellari
anche definite “small claims”.
Va infine evidenziato che la sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di
Stato, sottolineando come, rispetto ai codici ottocenteschi, i codici attuali si
incentrino sul riordino di specifici settori organici, piuttosto che di macro sistemi
normativi, hanno individuato due requisiti essenziali dei decreti legislativi che
possono essere qualificati come codici, ossia: 1) la riforma sostanziale della
disciplina legislativa della materia; 2) la creazione di una raccolta organica di tutte le
norme di livello legislativo su una determinata materia. Orbene va detto che nel
codice del consumo, il primo dei due requisiti sembra mancare quasi del tutto.
L'entrata in vigore del codice del consumo segna l‘ennesima modificazione del
codice civile, nella parte in cui erano state inserite le norme in materia di “contratti
dei consumatori" e in materia di vendita dei beni di consumo. Gli artt. 142 e 146,
comma I, lettera s, cancellano queste parti del codice civile riportando nuovamente
fuori dallo stesso le discipline ricordate.
L’operazione di scorporo, caldeggiata dal Consiglio di Stato nel suo parere, ha
il pregio di dare maggior ordine alla disciplina. Se il criterio era assemblare in un
unico testo tute le nonne settoriali per renderne più agevole il reperimento e la
conoscenza, non aveva senso lasciare fuori i contratti dei consumatori e la vendita dei
beni di consumo, Tale scelta pur se comprensibile, ha destato un timore e una critica.
Il timore è che sul piano ermeneutico porre le norme in materia di contratti del
consumatore fuori dal codice civile induca gli operatori dei diritto a negare la
presenza di un principio generale di tutela del contraente debole, quale potrebbe
essere il piccolo imprenditore nei confronti del grosso fornitore. Tale paventato esito
interpretativo discenderebbe dal carattere speciale del corpus normativo in
considerazione. A fugare tale ombra potrebbe avanzarsi una diversa prospettiva
ermeneutica.
Il codice del consumo nella sua complessità e tendenziale esaustività è esso stesso
espressione dell’esigenza di una generale tutela dei contraente deboli. Se così non
fosse risulterebbe violato il principio di eguaglianza, poiché si tratterebbero persone
che si trovano in situazioni identiche (debolezza economica e/o informativa) in modo
diverso. Anzi, la presenza di un sistema coordinato di norme potrebbe indurre a
considerare tutelabile il contraente debole (che non sia un consumatore) non solo in
ambito negoziale, ma in ogni contesto economicamente rilevante, tanto rispetto alla
informazione pubblicitaria, quanto rispetto alla qualità di un certo servizio, per fare
qualche esempio. Sostenere il contrario del resto, significherebbe considerare il
codice del consumo come codice di una categoria di operatori economici, il che
equivarrebbe ad avere una distinzione analoga a quella una volta sussistente tra
codice civile e codice di commercio. La critica consiste nel modo di coordinare il
codice civile con il codice del consumo rispetto alle due materie ‘stralciate”. Nei due
casi sono state seguite strade diverse. Per quanto riguarda i contratti dei consumatori
è stato introdotto un nuovo testo dell’articolo 1469-bis e l‘articolo 38 del nuovo
Codice precisa pleonasticamente che “per quanto non previsto dal codice, ai contratti
conclusi tra il consumatore e il professionista si applicano le disposizioni del codice
civile”, come se in mancanza di una simile disposizione non fosse comunque
applicabile la normativa del codice civile. Nulla si dice per i vecchi articoli sulla
vendita dei beni di consumo. Il dubbio è che vi sia stata qualche svista
nell’introduzione nel nuovo codice, delle norme sulla vendita dei beni di consumo,
introduzione originariamente non prevista nel progetto governativo e
successivamente operata in base al parere del Consiglio di Stato