4
patrimonio che fissa mutevoli forme d’appartenenza e di relazione, sublimando
il rapporto che i soggetti mantengono con essi.
I luoghi antropologici nascono, muoiono, mutano, sono dotati di un’intrinseca
dinamicità, che diventa comprensibile allorché si prende in considerazione la
comune storia che lega protagonisti e spazi dell’esistenza. La loro vita è in
stretta dipendenza dal rapporto che mantengono con la capacità di definire
l’identità del gruppo, che vi appartiene e a cui appartengono. Il processo
attraverso il quale un semplice spazio si trasforma in un definito luogo
antropologico, trova il suo senso nella storia dei luoghi e di chi inevitabilmente
investe quello spazio di peculiari significati culturali, obbedendo ad un
imperativo che sembra essere ascritto nella natura umana.
La definizione dei luoghi antropologici si adatta perfettamente a quelli che sono
i cosiddetti “beni culturali”, anch’essi intesi come oggetti dotati degli stessi
caratteri comuni, produttori e scenari di identità, relazioni e storia.
Un’attenta lettura dello spazio e della storia che gli conferisce senso, diventa la
chiave per comprendere l’insieme delle pratiche collettive ed individuali e dei
significati culturali che essi assumono in rapporto alla costruzione dell’identità
locale e delle sue innumerevoli forme di definizione. L’organizzazione ed il
modellamento di uno spazio da parte di un gruppo di individui, hanno inizio con
l’occupazione fisica dello stesso e con una serie di graduali interventi, che lo
rendono storicamente conforme all’identità del gruppo di cui esso diviene parte
integrante. L’incontro fra sociale e spaziale non è semplicemente l’occupazione
fisica o l’appropriazione giuridica di esso, ma un processo che ha a che fare con
la partecipazione del gruppo ai processi di produzione, materiale e simbolica,
con il suo orizzonte culturale, con la sua stratificazione sociale, con la sua storia,
con la sua identità nel senso più ampio del termine. L’identità locale non può far
5
a meno di un luogo antropologico, un luogo antropologico non può far a meno
di un’identità locale. Questo connubio sui generis non è tanto solido quanto
sembra. La sua fragilità viene fuori nel momento in cui un gruppo abbandona,
coattamente o volontariamente, la sua dimora e da inizio all’appaesamento di un
diverso spazio. Il processo di abbandono di un luogo è sempre seguito da un
processo di rifondazione dello stesso. La rottura fra identità locale e luogo
antropologico, pur generando notevoli trasformazioni e riadattamenti, non
avviene mai in modo completo, la storia rimane il filo conduttore che li lega
indissolubilmente, e su simile continuità gioca l’individuazione di riferimenti
stabili, che nelle vesti di patrimonio si apprestano a divenire nuovamente luoghi
antropologici e come tali non estranei alle stesse dinamiche e meccanismi che ne
connotano il divenire e l’appropriazione.
Considerare il patrimonio un luogo antropologico, costituisce una strategia per
introdurre le questioni relative ai processi di patrimonializzazione, anche essi in
stretto rapporto con la produzione materiale e simbolica, con specifici orizzonti
culturali, con stratificazioni sociali e rapporti di potere in cui, tuttavia, il locale si
confronta, divergendo o convergendo, con il globale, dimensioni
apparentemente cosi lontane ma in realtà molto vicine, o addirittura confuse, in
simili processi.
Un viaggio nella storia (soprattutto quella più recente) e nei luoghi di un paesino
del beneventano che, dopo un lungo processo di evacuazione iniziato con il
sisma del 1962 e da poco terminato, diviene patrimonio culturale di
quell’identità che oggigiorno risiede nel nuovo centro urbano, costruito a pochi
passi dal vecchio, diviene il mezzo attraverso cui ripercorrere quell’itinerario
storico che dal termine di una relazione, quella fra identità locale e luogo
antropologico, giunge, dopo varie vicissitudini, alla sua riscoperta, nei termini di
6
un diverso rapporto, questa volta fra identità locale e patrimonio culturale. La
patrimonializzazione del centro storico della cittadina in questione, chiude il
cerchio di quell’inconsueto percorso che ritorna sui “luoghi del passato”,
passando per quello che è il presente del nuovo insediamento. L’amplificarsi
dell’importanza che l’operazione riveste, è determinato da un progetto che
prevede il recupero di un’intera cittadina, nei termini architettonici e culturali
che la connotano come luogo per eccellenza di realizzazione di un rapporto
unico ed irripetibile, fra l’uomo e il suo spazio esistenziale.
In questo percorso circolare la memoria, difficile definire quale e di chi, ma
certamente fissata attraverso l’intervento di patrimonializzazione, sembra
ricomporre la frattura creatasi, ripristinando non solo i luoghi sulla base delle
tracce urbanistico-architettoniche ancora presenti, ma anche quell’identità
perdutasi o meglio modificatasi a seguito dell’evacuazione e del trasferimento,
narrando le fasi salienti di una storia il cui risultato è un presente che ritorna sul
proprio passato.
In questa difficile operazione, tutt’altro che neutrale e lineare, in realtà si
confondono, incontrandosi o scontrandosi, diverse volontà, diversi bisogni,
diverse funzioni, diversi interessi. Paradossalmente la loro continua interazione
ne rende difficile il riconoscimento e la distinzione; solo un’attenta lettura
antropologica del processo di patrimonializzazione in atto permette di coglierne
a pieno la complessità, sotto la luce di un’etnografia critica, che irrompe negli
spazi relazionali entro cui il rapporto fra patrimoni, identità, luoghi, memoria
spesso si da per scontato.
La scelta di intraprendere un lavoro sulla patrimonializzazione del centro storico
di Apice, è dettata essenzialmente da ragioni comprensibili solo a partire dal
fatto che in essa il ricercatore volente o nolente si sente partecipe e coinvolto, al
7
di la del ruolo assunto sul piano scientifico, nelle vesti di nativo da tempo in
attesa di un concreto ed effettivo ripristino del centro storico, conosciuto ancora
in vita solo attraverso i nostalgici racconti di chi vi ha trascorso parte della sua
esistenza.
Il primo capitolo del testo si occupa del legame che i patrimoni intrattengono
con l’identità che oggettivano, presentando diversi approcci allo studio dei beni
culturali, che vanno dall’etnografia critica fino all’antropologia del turismo,
passando per quella che è la museografia antropologica; tuttavia, nella seconda
parte le discussioni teoriche lasciano il posto alle implicazioni connesse alla
figura di un antropologo-nativo, che cerca di sfruttare al meglio le risorse
euristiche dischiuse dalla sua posizione e dalla scelta di avvalersi di un numero
esiguo di dati e di informazioni (soprattutto per quel che concerne le interviste),
forte delle conoscenze e dei saperi che la sua partecipazione e appartenenza al
campo rendono possibili.
Nel secondo capitolo subito si entra nel vivo del lavoro, attraverso il delinearsi
di un quadro storico, che soprattutto negli anni recenti, rivela una situazione
spaziale-antropologica di notevole interesse, segnata dall’abbandono graduale
del centro storico della cittadina e dalla ricostruzione della stessa in altro sito, a
seguito dei movimenti tellurici che interessano la zona nel ’62 prima e nell’ ‘80
successivamente. Continuità e rotture nel sistema abitativo sembrano essere
abilmente manipolate all’interno di una politica della catastrofe che incita al
trasferimento senza, tuttavia, rinunciare al legame con il centro storico, luogo
“sacro” entro cui affondano le “radici” cittadine e che politiche culturali, spesso
sterilmente, nostalgiche non riescono a preservare attraverso un’effettiva e
duratura presenza umana. Questo il risultato a cui aspira l’attuale risoluzione di
questioni identitarie che trovano il loro fulcro nell’individuazione di un punto
8
saldo, in questo caso il centro storico, trampolino di lancio di un’identità locale
da valorizzare attraverso un progetto di recupero che permetta, non solo la
crescita delle attività turistiche e commerciali cittadine, ma soprattutto una
riscoperta, abilmente propagandata dagli attori istituzionali e da quelli mediatici,
dell’identità locale nelle vesti di un museo a cielo aperto che aspira a divenire
una “Pompei del ‘900”. Questi i temi trattati nel capitolo terzo, che, tuttavia, si
conclude con un confronto fra quelle che sono le logiche istituzionali e quelle
che sono le logiche native. Le prime finalizzate alla creazione di un prodotto
univoco, stabile, rispettoso di quello che è l’immaginario collettivo nazionale ed
internazionale, le seconde equivoche, instabili e comprensibili solo all’interno di
una generale critica a quelle che storicamente si sono rivelate le forme e i modi
della costruzione del nuovo insediamento.
Il capitolo quarto si apre con delle considerazioni sul peso che assume un certo
contesto storico-culturale nella difficile operazione di giudicare il valore o il
non-valore del passato della cittadina che non trova altra migliore forma di
oggettivazione di quella suggerita dal vecchio insediamento. Ed ecco come
quella che tuttora è una città-fantasma, nel progetto di recupero diviene una città
risorsa, capace di attrarre sul territorio ingenti capitali finanziari e di ripristinare
il vuoto culturale generato dal trasferimento.
In rapporto a quest’ultimo si pone la necessità di un recupero della memoria
storica, che accompagni il progetto di ripristino urbanistico-archittettonico, e che
solo un coinvolgimento diretto ed una partecipazione attiva della comunità
locale all’opera intrapresa rende possibile, evitando ad essa il drammatico
trauma di sentirsi estranea visitatrice nel luogo in cui per secoli è indiscussa
protagonista.
9
Le conclusioni insistono sull’importanza e sulle ragioni per cui il Progetto
Apice, lungi dal generare una separazione del recupero urbanistico ed
architettonico, da quello della memoria storica custodita dalla comunità locale,
renda quest’ultima parte attiva della riqualificazione del centro storico,
attraverso il ricorso ad una figura, quella dell’antropologo, momentaneamente
assente dal quadro d’intervento delineato dalle istituzioni. Le sue conoscenze e il
suo sapere possono senz’altro arricchire il Progetto Apice, di un ulteriore punto
di vista e di competenze ben più abituate a colloquiare con le comunità locali e a
mediare il loro rapporto con le istituzioni e gli altri specialisti del mestiere.
La veridicità dei risultati raggiunti spesso dipende esclusivamente dal contributo
che ciascuna delle voci in capitolo da al dialogo collettivo, indipendentemente
dai suoi criteri d’esattezza o di falsità.
La natura provvisoria del lavoro proposto, dipende essenzialmente dalla scelta di
indagare un processo dinamico, fatto di frenate e ripartenze, amplificate alla
posizione del ricercatore rispetto al campo e dal difficile, probabilmente anche
inutile, tentativo di definire una precisa durata della ricerca. Al di la del numero
esiguo di interviste e dei materiali cartacei consultati, istituzionali e non, la
costante frequentazione del campo e la processualità di un oggetto di ricerca in
continuo itinere, rende necessario un monitoraggio e una riflessione che va al di
la del presente lavoro e si inserisce in ampio progetto di ricerca che possa
contribuire e giovare ad un sensibile ed attento recupero della memoria storica
della popolazione.
L’approccio metodologico assunto ne subisce, o meglio si avvale, di simili
attributi, eccedendo in una malleabilità per quel che concerne il reperimento dei
dati, soprattutto quelli concessi dalle fonti orali, che arricchisce di nuovi
10
contenuti il lavoro proposto, sollevando ulteriori dubbi sulle dinamiche
innescate ed innescanti il recupero del centro storico di Apice.
Si scopre cosi, a posteriori rispetto alla ricerca intrapresa, che dall’Aprile del
2005, momento in cui inizia il reperimento dei dati necessari alla realizzazione
del presente lavoro, al Maggio 2006, momento in cui imprescindibili scadenze
ne determinano una conclusione, come già detto non quella definitiva, il
progetto di recupero continua a rimanere un proposito e non una concreta realtà.
La ricerca è coinvolta, negli ultimi mesi, in una sorta di ping-pong istituzionale
fra la Provincia ed il Comune, entro cui il motivo reale dell’interruzione di
un’operazione, che entrambi gli attori istituzionali non rinunciano a descrivere
con toni propagandistici, rimane incerto.
Incertezza che va tutta a scapito di un’identità locale e di una memoria storica in
attesa, ormai da più di quaranta anni, di veder rinascere il suo luogo
antropologico per eccellenza.
Millantare il recupero del centro storico di Apice senza tuttavia impegnarsi a
superare divergenze, indecisioni e situazioni di stallo burocratico, significa
commettere errori ben noti alla cittadinanza, il cui scetticismo rischia di rivelarsi
nuovamente profetico.
Le politiche culturali sembrano aver preso il posto di quelle politiche
economiche che negli anni passati contribuivano soltanto a creare “cattedrali nel
deserto”, strumentali a campagne elettorali e a risoluzioni di bilanci, che si
mascherano abilmente dietro illusioni e speranze di un reale sviluppo materiale e
simbolico delle comunità interessate.
L’augurio rimane quello di poter riflettere su interventi reali, piuttosto che su
progetti la cui partenza è diffusa e propagandata, ma il cui arrivo difficilmente si
raggiunge.
11
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE TEORICA E METODOLOGICA
1.1. PATRIMONIO E IDENTITÀ
La problematicità che negli ultimi anni assume il concetto di identità
1
nelle
scienze umane, attraversando trasversalmente moltecipli campi disciplinari,
sociologia, filosofia, psicologia, antropologia culturale, ed assumendo per
ciascuno di essi specifiche connotazioni, si arricchisce di ulteriori questioni nel
momento in cui lo si considera in rapporto ai cosiddetti “beni culturali”.
Il normale valore d’uso o di scambio che abitualmente si attribuisce a qualsiasi
oggetto materiale o simbolico, non riesce a spiegare il significato che alcuni
oggetti, luoghi, pratiche, visioni del mondo, saperi, e via dicendo, assumono per
singoli individui o collettività, che si trovano nell’impossibilità di essere ridotti
alla comune quantificazione valoriale, utilizzata per qualsiasi altra cosa, e alla
cui proprietà e custodia non si può per alcun motivo rinunciare. Questi oggetti
possiedono un valore aggiuntivo legato alle più svariate ragioni, sentimentali,
artistiche, storiche, culturali, politiche o religiose che siano. Ciò che le
accomuna è la loro incommensurabilità, la loro irrinunciabilità e il desiderio, che
diviene presto dovere, di salvaguardarle. Le procedure attraverso cui simili
peculiarità si mettono in atto, vanno dalla semplice conservazione in un cassetto
di un oggetto appartenuto agli avi, sino alle complesse procedure di
patrimonializzazione di un quadro, una chiesa e perché no di un intero centro
abitato, testimonianza di un passato ben più ampio di quello individuale o
familiare, ma senz’altro ad esso connesso.
1
Per una panoramica sulle molteplici problematiche relative al concetto d’identità, specificamente connesso al
concetto di cultura, si veda: Gioia Di Cristofaro Longo, Identità e cultura, ed. Studium 1993, Roma.
12
In quest’ultimo caso il cassetto non basta, ma sono necessarie una serie di
procedure ad hoc che richiedono ingenti capitali, materiali e simbolici, e che
vanno dall’individuazione dell’oggetto da rendere patrimonio, fino alla sua
presentazione ad un pubblico che ne riconosca l’immane valore patrimoniale. Le
tappe di un simile processo, il cammino che fa di un semplice oggetto, un
patrimonio, vengono indicate attraverso un termine che restituisce a pieno il
senso dell’azione indicata: “Patrimonializzazione”. Vito Lattanzi in un saggio
dall’eloquente titolo “Riti di patrimonializzazione”, sembra assegnarvi una
valenza religiosa che tuttavia, lungi dall’entrare nella dialettica fra sacro e
profano o all’interno delle problematiche connesse alla secolarizzazione, del
religioso recupera solo il termine e le esigenze a cui si riferisce. La quasi-
religiosità delle politiche patrimoniali è accettabile solo in relazione ad un rito di
patrimonializzazione inteso come:
Strumento di raccordo tra la vita sociale e la sua temporalità, tra gli elementi strutturali della
cultura stessa e gli eventi che ne scandiscono la quotidianità. Sotto questo profilo, possiamo
cogliere pienamente la sua valenza sociale profonda, di luogo istituzionale in cui vengono
precipitati, per essere attualizzati attraverso la costante ripetizione di modelli e di norme, i
problemi del quotidiano e gli scarti differenziali rivelati dalle contingenze storiche.
2
Il patrimonio non assume quella dimensione metatemporale della religione,
costruendo un proprio orizzonte mitico-simbolico, ma la sua riconosciuta e
valorizzata storicità in una cornice astorica, creata attraverso il rito altrettanto
storico di patrimonializzazione, assume la “funzione di comprendere il
quotidiano e mediare il mutamento”, in maniera non dissimile dalla risoluzione
destorificante della crisi di presenza abilmente teorizzata da Ernesto De
2
Vito Lattanzi, “Riti di patrimonializzazione”, in: Storia, antropologia e scienze del linguaggio, anno
Quattordicesimo, fascicolo 3, Agosto-Dicembre 1999, ed. Domograf, Roma, pg. 61-72.
13
Martino
3
. L’attenzione di Lattanzi passa poi a quelli che sono gli agenti di
questo rito sui generis e si sofferma su come essi riescono a mediare il rapporto
tra le cose e le persone in maniera non dissimile dal modello giuridico di
proprietà. Lo specialista o chiunque altro ha il compito di mediare la
patrimonializzazione, riconosce questo vincolo proprietario a partire da quelle
che sono le logiche e i saperi della propria disciplina, del proprio ruolo
istituzionale o non, del contesto storico-culturale, nativo o altro, d’appartenenza
e di valutazione in cui si trova ad operare. Gli attori coinvolti utilizzano:
Un codice di comunicazione informato al Discorso della Patrimonializzazione, parlano una
lingua per certi versi oggi ampiamente condivisa.
4
Moltecipli forme di patrimonializzazione, di fatto o di diritto, come le definisce
Lattanzi, invitano a riflettere sulla relatività di un processo, finalizzato a creare
solidità e certezze, ma che nasconde un’intrinseca artificiosità delle prospettive
da cui si intende guardarlo e gestirlo. Il saggio di Richard Handler, “Avere una
cultura”, dimostra come al di fuori del contesto nazionale il dibattito sui processi
di mediazione del patrimonio ha già raggiunto considerevoli risultati. Il suo
studio sul nazionalismo e la preservazione del patrimonio del Quebec, permette
di meglio comprendere le problematiche e le conseguenze relative al rapporto
che il patrimonio stabilisce con l’identità a cui appartiene o meglio a cui si vuol
far appartenere. Secondo Handler, l’appartenenza è uno degli elementi essenziali
per meglio comprendere le politiche relative all’individuazione e alla tutela di
ciò che si definisce patrimonio:
3
Ernesto De Martino, Il mondo magico, ed. Einaudi 1948, Torino.
4
Si veda nota 2.
14
A chi appartenga il patrimonio rappresentato da una determinata collezione, è spesso oggetto
di interrogativi; ma l’idea in base alla quale gli oggetti, o la cultura materiale, possano
riassumere l’identità collettiva - e, riassumendola, possano venire considerati proprietà della
collettività – costituisce raramente motivo di disputa.
5
Il variare del rapporto e del contesto in cui simile rapporto si inserisce, comporta
il variare di ciò che si considera come un patrimonio naturale ed univoco.
Mediatori rituali e contesti spazio-temporali diversi possono modificare o
sostituire in toto patrimoni già affermati come tali, riducendoli a semplici
oggetti. L’esempio del Quebec e delle sue vicissitudini politiche, vede la
valorizzazione altalenante di un passato francese o di quello canadese e nativo a
seconda delle diverse politiche culturali ed identitarie, dettate da altrettanto
diversi attori istituzionali, e delle procedure da essi adottate per definire,
ampliare, o restringere il patrimonio collettivo. I conflitti innescati si risolvono
momentaneamente con l’individuazione dei vincoli di proprietà che:
Devono delineare e, se possibile, salvaguardare un territorio circoscritto, e costruire un
resoconto dell’unicità di cultura e storia che si attribuisca alla – ed emani dalla - gente che lo
occupa. È a questo punto che entrano in gioco le dispute riguardo alla proprietà dei beni
culturali.
6
L’individuazione e la costruzione di oggetti connotativi di specifiche
appartenenze, significati e valori di un gruppo umano, oggettivazione culturale,
con tutta la sua artificiosità, è accompagnata da un’altrettanto artificiosa
operazione di rivendicazione proprietaria, individualismo possessivo, che
nasconde interessi di gruppi nazionali o etnici, attenti a costruire la propria
5
Richard Handler, “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimonio del Quebec”, in. G.
Stocking, Gli oggetti e gli altri, ed. EI. 1985, pg. 261-289.
6
Ibidem.
15
identità in contrapposizione a chi tale identità vuole negare. Negazione spesso
dovuta alla pericolosità sul piano giuridico e politico, che un’affermazione
riuscita di proprietà comporta, come garante di altrettanti diritti su di essa e dei
benefici che l’acquisizione di un nuovo status, quello di patrimonio, degli
oggetti in questione rende possibile. Handler parla di “guerra di cultura” i cui
partecipanti si contendono la proprietà culturale degli oggetti per legittimare
ambizioni ed ingerenze, che ne fanno semplici cose da utilizzare come armi di
attacco o di difesa nei confronti del diverso. In Italia, il ritardo con cui un simile
approccio al patrimonio culturale entra in scena, non gli impedisce la conquista
di nuovi spazi di discussione delle problematiche e delle questioni sollevate oltre
oceano e oltralpe. Vincenzo Padiglione in un saggio della rivista
Etnoantropologia, dal titolo “L’effetto cornice, le mediazioni del patrimonio e la
competenza antropologica”, sottolinea come “la nozione di mediazione del
patrimonio raggruppa pratiche assai diverse, attuate da agenzie alquanto
eterogenee”
7
. Padiglione individua tre interpretazioni del patrimonio culturale:
1) una visione metastorica ed elitaria, per cui il patrimonio possiede un
valore in se, una qualità intrinseca ed universale;
2) una visione disciplinare, nella quale il suo valore viene rilevato attraverso
una competenza tecnica e scientifica;
3) una visone, quella che lo stesso Padiglione sembra privilegiare,
ermeneutica storica e culturale, che tiene conto dei numerosi intereressi e
di contesti in cui si costruisce un patrimonio.
Il patrimonio è, come ogni costruzione sociale, in balia della storia, delle
convenzioni locali, delle istanze scientifiche, artistiche, politiche, economiche e
via dicendo, per cui un valore universale ed imperituro da assegnarvi diviene
7
Vincenzo Padiglione “L’effetto cornice”, in: Etnoantropologia n 6-7, anno 1997-1998, pg. 137-154.
16
un’inutile pretesa. Di qui un approccio alla mediazione del patrimonio che tenga
conto di tutti questi aspetti e che sia quanto più possibile riflessiva, chiamando
in causa settori precedentemente trascurati, come quello della contemporaneità
della pratiche sociali, che accompagna le procedure d’individuazione, di tutela e
di presentazione dei risultati ottenuti:
Una sensibilità ermeneutica specificamente volta a rilevare e conoscere quelle pratiche
identitarie attraverso le quali i membri (scienziati compresi) di un gruppo propongono
un’autoimmaginazione, selezionando nella coscienza storica segmenti e temi, operano
un’interpretazione del passato e della loro esperienza attuale marcando con appositi segnali,
che gli antropologi hanno imparato a rilevare, i luoghi e i motivi della continuità e della
specifica appartenenza.
8
In questo modo al patrimonio viene riconosciuta una problematicità di enorme
rilievo, da cui dipendono le stesse nozioni di appartenenza ed identità di un
determinato gruppo. Un sapere antropologico fondato sull’impossibilità
aprioristica di un linguaggio neutrale, privo di qualsiasi mediazione contestuale
o posizionale (degli attori coinvolti), permette di cogliere a pieno le ambivalenze
dell’”effetto cornice”e degli altri inganni connessi ad un patrimonio che sembra
naturale e come tale viene passivamente accettato:
Meglio elaborare il lutto dell’impossibilità di un linguaggio neutrale, puramente descrittivo o
analitico, privo di allegorie o di espedienti retorici; meglio organizzare all’interno dei musei, o
di altre mediazioni, dispositivi riflessivi espliciti, tali da documentare senza paludamenti, ma
neppure senza illusioni di completa trasparenza, il modo in cui sono rese autorevoli, ma non
perentorie, le mediazioni che realizziamo.
9
8
Ibidem.
9
Ibidem.
17
La strada della riflessività indicata da Padiglione, conduce sul piano teorico ad
un bivio entro cui si è chiamati a scegliere fra due percorsi differenti, ma
dialetticamente complementari, in cui muoversi per smascherare la natura
mediatizzata dei processi in questione. Semplificare un dibattito disciplinare non
affatto semplice e ridurre prospettive teoriche di enorme vastità e complessità ai
percorsi precedentemente citati, permette di cogliere le sfumature e le differenze
che contraddistinguono un approccio maggiormente attento alle differenti
funzioni e interessi, che si celano dietro la definizione e all’individuazione degli
oggetti da patrimonializzare, e un altro maggiormente attento alle forme e alla
presentazione entro cui avviene siffatta patrimonializzazione, senza, tuttavia,
trascurarne l’aspetto funzionale ed ideologico. La loro artificiosa distinzione si
presenta come un espediente teorico entro cui considerare e, la dove ancora non
avviene, prospettare un loro incontro e una loro collaborazione per fondere in un
unico orizzonte di riflessività le rispettive risorse euristiche. D’altronde,
l’analisi dei meccanismi innescati ed innescanti i processi di mediazione del
patrimonio presenta di per sé innumerevoli punti di contatto e di scambio
reciproco.
Nel dibattito italiano, un fertile terreno di discussione è offerto dalla rivista
Antropologia museale, che diviene lo spazio discorsivo, conoscitivo e
comunicativo all’interno del quale simili prospettive sembrano scontrarsi. Nei
primi numeri del 2002, infatti, una polemica fra antropologi interessati alle
politiche ed alle pratiche connesse al patrimonio, Berardino Palumbo e Fabio
Dei, costituisce il quadro disciplinare di una costruttiva disputa teorica, che
prende avvio da un articolo di Palumbo dal titolo “Patrimoni-identità: lo sguardo
di un etnografo”. Interrogarsi sul ruolo che i beni culturali offrono nel fissare
identità ed appartenenze, e sulle operazioni simboliche ed ideologiche che ne