LA COMPILAZIONE DEI “DIGESTA” DI GIUSTINIANO
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La sua partecipazione attiva perseguiva il fine di buon governo,
poiché l’ordinamento giuridico e l’amministrazione della giustizia
erano considerati problemi essenziali per un reggitore di Stato e
soprattutto perché il legame tra politica e diritto è sempre stato molto
forte.
La legislazione giustinianea rispecchia proprio un momento
storico di grandi cambiamenti nel quale, sia politicamente che
culturalmente, si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra.
La grande opera compilatoria di Giustiniano riunisce la
testimonianza di una secolare tradizione che nell’intenzione di chi la
ordinò e di quanti la realizzarono, doveva essere di guida alle
generazioni a venire attraverso i secoli.
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Capitolo I
Le fonti del diritto nel sistema romano del IV e V secolo
1.1 La produzione del diritto nell’età Tardoantica
L’età Tardoantica
1
segnò il tramonto di un periodo molto fertile
caratterizzato dalla molteplicità delle fonti del diritto: l’assolutismo
imperiale
2
, infatti, riconobbe nell’imperatore l’unica fonte viva del
diritto. Il termine lex, riservato in precedenza alle sole disposizioni
normative provenienti dal popolo, veniva ora ad indicare direttamente
la costituzione imperiale.
I giuristi che nel principato, e ancora nell’età dei Severi,
svolgevano un’insostituibile e pienamente riconosciuta funzione di
guida nello sviluppo e nella creazione del diritto, a partire da
Diocleziano persero in gran parte tale ruolo. Il giurista tardoantico fu,
per lo più, un anonimo burocrate che lavorava nelle cancellerie
1
AA.VV. Storia del diritto romano, Torino 2000, p. 225 ss.
2
“L’assolutismo imperiale corrisponde al periodo postclassico del diritto romano, da Diocleziano
(284-305 d.C.) a Giustiniano I (527-565 d.C). Pur se quali precursori dell’assolutismo imperiale
possono essere ravvisati, nel II sec. d.C., Comodo o addirittura Adriano, è pacifico che il fondatore
del nuovo stato fu Diocleziano (285-304), col suo sistema della “tetrarchia”: due Augusti (uno per
l’Occidente e l’altro per l’Oriente) fiancheggiati da due Caesares, da essi stessi designati come
successori in pectore. L’opera di Diocleziano fu perfezionata e in parte corretta da Costantino I,
soprattutto quando questi cessò di spartire il potere con Licinio e regnò solo (324-337): nel quadro
dell’abbandono delle tradizioni pagane e del riconoscimento del Cristianesimo, l’imperatore unico
assunse nel modo più aperto, l’aspetto del despota legittimato al potere dall’appartenenza ad una
dinastia. Questa situazione s’indebolì nelle mani dei successori di Costantino, ma fu ripresa da
Teodosio (379-395), che l’imperatore Valentiniano II (375-392) si era associato al potere come
monarca della pars Orientis. Ormai, però, il destino dell’impero era segnato: la definitiva scissione
era fatale, e si verificò, infatti, alla morte di Teodosio I. i due figli di questi. Arcadio e Onorio, si
attribuirono a titolo autonomo e indipendente il dominato rispettivo delle due parti. Le cose
continuarono immutate fino a Giustiniano I (527- 565) e, dopo l’effimero tentativo di
riunificazione operato da questi, nei secoli seguenti”. Vd. GUARINO A. Diritto privato romano,
Napoli 1997, p.137 nt. 11.2
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imperiali alla preparazione dei testi normativi del principe, oppure un
professore di diritto a cui non era più riconosciuto alcun rilievo nella
creazione del diritto; conseguenza pratica fu la scomparsa del ius
respondendi ex autoritate principis.
3
La grande opera della giurisprudenza del principato non fu però
dimenticata. Gli scritti dei giuristi dell’età precedente vennero infatti
utilizzati come diritto vigente, a fianco delle costituzioni imperiali.
4
In
effetti, essi formarono un complesso ormai cristallizzato dalla volontà
imperiale, cui era necessario attingere soprattutto per conoscere la
regolamentazione dei rapporti privatistici, ai quali la legislazione
pregiustinianea dedicò per lo più un’attenzione minore ed episodica.
In contrapposizione alle leges (le costituzioni imperiali), il
complesso degli scritti giurisprudenziali del principato fu denominato
dagli studiosi iura.
Leges e iura, unitariamente considerati, formarono il ius ex
scripto, distinto dal ius ex non scripto o diritto consuetudinario
5
, in cui
la consuetudine aveva tuttavia una posizione marginale. Già
Costantino aveva stabilito che essa, pur non essendo priva di efficacia,
era subordinata alla ragione o alla legge.
6
Nel diritto giustinianeo era
ammessa soltanto la consuetudine secundum legem, cioè quella
3
Cfr. C.I. 1.14.12.3; cfr. anche costituzione Tanta, 21.
4
Secondo una pratica giudiziaria molto diffusa nel mondo romano-ellenistico, spettava alle parti, o
ai loro avvocati, il compito di indicare le norme su cui il giudice avrebbe dovuto fondarsi nella
pronuncia della sentenza. Gli avvocati non si limitavano a leggere in giudizio, o “recitare” le sole
costituzioni imperiali o altri testi legislativi. Essi potevano rifarsi alle opinioni dei giuristi antichi,
e i giudici, spesso impreparati, dovevano tenerne conto. La sfera dei richiami possibili vide fissarsi
un criterio e un limite nel 426 d.C., con un testo normativo elaborato nella cancelleria ravennate di
Valentiniano III, noto col nome di “legge delle citazioni”, poi accolto nel codice Teodosiano 1,4,3:
“Papiniani, Pauli, Gai, Ulpiani atque Modestini scripta universa firmamus ita, ut Gaium quae
Paulum, Ulpianum et ceteros comitetur auctoritas lectionesque ex omni eius corpore recitentur…”
Vd. BRETONE M. Storia del diritto romano, Bari, 1989, pp. 367- 368.
5
Cfr. I., 1.2.3
6
Cfr. C.I. 8.52(53).2
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espressamente richiamata dalla legge; quanto alla consuetudine
praeter legem basterà ricordare che secondo la rigida concezione
assolutistica del potere propria di Giustiniano, in presenza di lacune
dell’ordinamento giuridico, occorreva sempre rivolgersi
all’imperatore, perché provvedesse a formulare la norma mancante
7
.
Sebbene iura e leges siano ancora i termini coi quali la dottrina
romanistica nella sua grandissima maggioranza identifica le fonti del
diritto per i secoli IV e V d.C., Archi
8
sostiene che di quei termini non
ci si serve più quando si passa a trattare dell’epoca giustinianea,
aggiungendo che, dell’opposizione iura-leges si faceva un utilizzo
improprio per identificare un concetto scientificamente valido.
A suo dire, sarebbe stato più corretto parlare di dicotomia, in
quanto non si trattava più del predominio di un complesso di norme
sull’altro, ma dello spostamento di valori tra due entità che finivano
per avere funzione e natura diverse.
Già la cancelleria costantiniana, infatti, ricorreva ad una
terminologia che coglieva realisticamente la situazione storica del
momento: ius vetus a designare la complessa realtà del passato,
constitutiones o leges per il presente.
7
Cfr. C. Tanta, 18; vd. anche C. Cordi, 4.
8
ARCHI G.G. Giustiniano legislatore, Bologna 1970, pp. 11 ss.
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1.2 Il codice come libro e come testo legislativo: raccolte non
ufficiali
Il tardo impero fu un’epoca di incertezza e di crisi per quanto
riguarda le fonti del diritto. Il movimento codificatorio nacque dalla
necessità di porre un rimedio alla confusione legislativa, la quale
rendeva ancora più arduo il compito di amministrare la giustizia
9
.
A determinarla contribuirono ragioni diverse: innanzitutto la
frammentaria e insicura conoscenza delle leggi imperiali, di cui era
inadeguato il metodo di pubblicazione e diffusione; in secondo luogo
il variare della loro efficacia, ora particolare, ora generale
10
; infine, la
divisione amministrativa dell’impero in due parti distinte.
Tale divisione comportava spesso il problema dell’applicabilità
territoriale delle leges, che non sorgeva per quelle speciales e per
quelle generales che fossero espressamente limitate dal riferimento a
determinate prefetture o province, ma si poneva qualora le leges
generales fossero prive di limitazioni esplicite, in quanto era dubbio
se fossero applicabili a tutto l’impero quando emanate dall’Augustus
di una sola pars imperii.
Anche la conoscenza degli iura era piuttosto difficile, poiché le
“opinioni” dei giuristi antichi erano disperse in un numero immenso di
libri.
9
BRETONE M. cit., p. 369 ss.
10
Circa l’oggetto e il tipo delle constitutiones imperiali, si distingueva tra leges generales e leges
speciales a seconda che fossero o non fossero relative a tipi di casi e categorie di sudditi. Mentre le
leges generales avevano vigenza illimitata nell’ambito del loro riferimento, le altre leges avevano
applicazione strettamente condizionata al caso o alle persone cui si riferivano.
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Questo stato di confusione determinò l’esigenza di imprimere lo
scibile giuridico in codificazioni sistematiche che ne rendessero più
agevole la conoscenza.
Tale necessità si accompagnò ad un’ulteriore evoluzione che vide
il passaggio dal papiro alla forma libraria
11
che, per la sua funzionalità
e resistenza, oltre che per la sua relativa economicità, ne faceva uno
strumento di comunicazione e di formazione culturale adatto alle
classi subalterne e meno abbienti.
Il passaggio dal papiro al codice non fu solo un mutamento
tecnico, ma un vero e proprio mutamento psicologico perchè, come ha
detto Wieacker, “ il libro in codice é l’espressione simbolica di una
cultura della parola divenuta discorso scritto, e di una comprensione
autoritativa del testo”
12
.
Nel codice si raccoglievano anzitutto le costituzioni imperiali;
ma anche le opere letterarie dei giuristi classici poterono rientrare in
un codice come testo giuridico, acquistandovi un significato nuovo
perchè quei giuristi diventarono strumento e veicolo della volontà del
principe.
La nuova forma editoriale fu adottata con successo per redigere
le prime compilazioni di costituzioni imperiali, tanto che il nome
stesso di codex nel campo giuridico finì per designare in modo tecnico
le raccolte di costituzioni. Il lettore disponeva così del testo delle più
importanti costituzioni, collocate in un quadro sistematico e
distribuite, a seconda del contenuto, sotto vari titoli, il che rendeva la
consultazione assai più rapida e agevole.
11
“Prima che testo giuridico, il codice è una forma libraria”, M. BRETONE, cit., p. 369
12
F. Wieacker, Textstufen, p. 95, citato da M. BRETONE, cit., p. 371
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Le prime compilazioni di costituzioni imperiali di cui abbiamo
notizia sicura risalgono alla fine del terzo secolo, inizio del quarto;
sono il Codex Gregorianus e il Codex Hermogenianus.
Nessuno dei due ci è pervenuto direttamente, ma attraverso due
epitomi incluse nella Lex Romana Visigothorum e attraverso
frammenti derivati dalla Lex Romana Burgundionum e dalla
letteratura giuridica tarda. Infine, risalgono al Gregoriano e
all’Ermogeniano i materiali preteodosiani del Codice Giustinianeo
13
.
Entrambi i codici raccoglievano rescritti imperiali, il cui testo
era ridotto alla sola parte contenente disposizioni normative, con
l’omissione di tutto ciò che fungeva da introduzione o da contorno al
precetto vero e proprio.
Il Codex Gregorianus, dovuto a un tale Gregorio non
altrimenti noto, è una raccolta di costituzioni (nella massima parte, di
rescritti indirizzati a privati) dell’età adrianea fino al 291; conta
almeno tredici libri divisi in titoli
14
; segue l’ordine edittale quanto al
diritto privato, ma comprende anche disposizioni di diritto penale
pubblico. In questo codice Mommsen vide una pietra miliare nel
“passaggio dell’attività giuridico - letteraria dall’Occidente latino
all’Oriente greco”
15
.
13
I frammenti del Gregoriano e dell’Ermogeniano (eccetto quelli ricavabili dal Codice
Giustinianeo) sono raccolti, e in qualche modo ordinati, in Coll. Libr. III, pp. 221-45
14
Qualche studioso ha ipotizzato la probabile presenza di quattordici o quindici libri; vd. M.
BRETONE, cit., p.371
15
MOMMSEN, Die Heimat des Gregorianus, ZSS 22, 1901, p.140 citato da M. BRETONE, cit.,
p. 372, nt. 43.