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di maggiori dimensioni, vennero trasformati in istituti di credito pubblici
disegnando un sistema in forma verticistica in cui il mercato delle quote di
maggioranza ,e dunque del controllo, del capitale era praticamente chiuso. Tale
situazione resta invariata fino agli ‘90 ,quando oramai le crescente competitività
internazionale dovuta all’integrazione sempre più forte dei sistemi finanziari fra i
diversi paesi e alla globalizzazione dei mercati imponevano dei cambiamenti in
ottica moderna . Il primo tentativo di privatizzare il settore fu quello della riforma
Amato del 1990, la quale introdusse nel capitale di controllo delle banche , un
nuovo soggetto :le fondazioni bancarie. Le fondazioni,enti la cui attività e la cui
natura giuridica non è mai stata chiara e definita, in virtù della legge, detenevano
le quote di maggioranza degli istituti bancari con lo scopo di conservare,
nonostante la privatizzazione, la stabilità del sistema ; dunque la situazione non
cambiò di molto. Ma è nel 1999 che si ebbe la reale svolta con la legge passata
alla storia come “decreto Ciampi”
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. La nuova riforma obbligò le fondazioni a
cedere le quote di controllo che mantenevano grazie alla legge determinando la
totale apertura del mercato degli assetti di controllo delle banche in Italia.
L’elemento fondamentale che si introdusse e che determinò una privatizzazione
sostanziale del sistema fu ,infatti,la contendibilità degli assetti proprietari degli
istituti. Per contendibilità s’intende , appunto, la possibilità di scalare il capitale ,
assumere la proprietà maggioritaria ed esercitare il potere di controllo e di
direzione. Il nucleo centrale della legge si riduce proprio a questo concetto base :
possibilità di acquisire ,attraverso naturalmente i meccanismi di mercato quali
OPA OPS ecc.. il controllo degli istituti di credito senza elementi di disturbo ( che
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Si sta discutendo del decreto legislativo del 17 maggio 1999 n. 153 “disciplina civilistica e fiscale
degli enti conferenti”.
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come è accaduto per la legge Amato erano rappresentate dalle fondazioni). La
contendibilità introdotta dalla riforma ha ridisegnato totalmente quelli che erano i
nuclei di potere nelle banche, ha instaurato nuovi meccanismi di corporate
governance più moderni ed efficienti; ha influenzato le strategie e le scelte di
sviluppo dei nostri intermediari permettendo di avvicinare il settore italiano a
nuovi traguardi e livelli di crescita. In primis quello che è emerso negli anni
seguenti all’entrata in vigore della riforma è stato un fortissimo processo di
concentrazione settoriale: grosse fusioni, acquisizioni , M&A si sono susseguiti
lungo tutto il periodo in esame. Questo fenomeno “concentrazione” ha da un lato
permesso agli istituti italiani di crescere dimensionalmente, inseguendo obbiettivi
quali economie di scale di scope, diversificazione geografica ,strategica ecc..
essendo così in grado di competere con i ben più grandi istituti europei , e
dall’altro ha permesso la formazione di poli bancari indipendenti che hanno
costituito nuclei di aggregazione di tutto questo processo. Questi nuclei sono
costituiti dai cinque gruppi bancari di proprietà essenzialmente italiana emersi dal
periodo post-privatizzazione (San Paolo-Imi , Unicredit, Banca Intesa, Capitalia,
Monte dei Paschi di Siena) nei quali possiamo ravvisare le tendenze strategiche di
fondo del settore dovute a una maggiore competitività e concorrenza :
ξ definitiva uscita delle fondazioni dal controllo delle banche
ξ concentrazione ed integrazione sia a livello nazionale che transnazionale
ξ crescita “per vie esterne” attraverso il M&A
IX
ξ ri-focalizzazione degli assetti proprietari e di controllo verso intermediari
finanziari
ξ penetrazione di capitale estero in quote rilevanti nella compagine azionaria
ξ specializzazione per funzione ed area geografica attraverso le società
acquisite e adozione della forma multyspecialist
ξ aumento del peso totale delle attività di corporate and investment banking
La privatizzazione nel settore bancario ha dunque funzionato, portando le banche
a crescere, svilupparsi ed internazionalizzarsi. Anche se tale processo, indotto
dalla legge Amato e poi dalla legge Ciampi ,non è avvenuto inseguendo un
modello preciso,una visione unitaria , ma molto ,nella determinazione degli assetti
proprietari si è lasciato al mercato non senza pericolose distorsioni, ha segnato la
definitiva uscita dello Stato dal controllo del capitale determinando la fine della
“banca pubblica” e l’affermazione della “banca moderna” in grado di competere
nell’economia globale..
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CAPITOLO I
1 Privatizzazioni : una necessità?
Negli ultimi trent’anni si è assisto ,in Europa e nella maggior parte dei paesi del mondo,
ad un processo lento ma costante che ha visto la graduale riduzione del peso dello Stato
nella gestione del mondo dell’economia e delle imprese e l’affermazione e diffusione
di meccanismi di organizzazione della vita economica basati sul libero mercato e sulla
concorrenza. Privatizzazione, deregolamentazione ,apertura dei mercati, abbattimento
dei monopoli pubblici sono state le priorità nelle agende di tutti i governi dei paesi
sviluppati e non ; immensi sono stati gli sforzi e i costi sostenuti per realizzare tali
obbiettivi. E’ importante dunque capire bene che cosa s’intende per processo di
privatizzazione-liberalizzazione dell’economia e capire quali sono le motivazioni che
ne stanno alla base. L’impresa pubblica è stata la protagonista della vita economica fin
dagli inizi del 900 : la presenza dell’imprenditore pubblico a principio confinata ai soli
servizi pubblici locali si era estesa al contesto nazionale, con la progressiva e crescente
pubblicizzazione dei grandi servizi a rete, a cominciare dalle ferrovie. Pensata
inizialmente come strumento operativo per i servizi pubblici offerti in condizioni di
monopolio naturale, con l’intento di appropriarsi della rendita monopolistica a favore
del settore pubblico, l’impresa pubblica entra col passare del tempo anche in altri settori
: quello manifatturiero,petrolchimico, energetico ecc… - spesso per impedire il
fallimento d’imprese private - assumendo un ruolo quantitativamente importante nel
sistema produttivo delle nazioni nel periodo che va dalla fine della prima guerra
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mondiale fino almeno alla metà degli anni 70. E’ nel secondo dopoguerra,poi, che
l’impresa pubblica conosce il suo massimo splendore. Essa diviene lo strumento
attraverso il quale gli stati e governi attuano la ricostruzione e la ricrescita economica
dopo le devastanti distruzioni provocate dal conflitto bellico: penetrando direttamente e
profondamente nella vita economica ,controllando settori e mercati attraverso monopoli
ufficiali o di fatto ,lo Stato,l’attore pubblico , persegue ed attua sia obbiettivi
economici di breve periodo (ad esempio il salvataggio delle imprese in crisi) che
obbiettivi economico-sociali di lungo periodo (il sostegno o la ripresa dello sviluppo
economico ,la creazione di occupazione). Esempi di questo processo di
“pubblicizzazione” sono numerosi .Rimanendo in Europa troviamo l’ Inghilterra con
le grandi nazionalizzazioni del partito laburista sulla scia delle teorie di Morrison, la
Francia dove lo stato controllava tutti i settori principali, in Italia si afferma e si
sviluppa impetuosamente il sistema delle partecipazioni statali,studiato ed imitato
all’estero come modello efficiente di combinazione dei vantaggi del settore pubblico e
settore privato, che vede la creazione di vere e proprie holding finanziarie a controllo
statale( l’IRI) ,che vanno dalla gestione dell’energia (Enel,Eni) alla telefonia (Sip) alle
autostrade fino ai dolciumi (Motta).
Per quanto riguarda il settore bancario italiano esso è divenuto totalmente pubblico con
la riforma del 1936. Infatti tale legge definì l’attività bancaria attività di “pubblico
interesse” ridisegnando il mondo creditizio italiano in base a tale principio. I grandi
gruppi furono definiti “istituti di credito pubblici” e messi sotto il controllo diretto dello
stato ; mentre il resto delle banche (istituti di piccole e medie dimensioni operanti a
livello locale e regionale ) fu ,da un lato ,lasciata gestita al capitale privato , ma
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,dall’altro si introdussero forti limitazioni (ad esempio non potendo effettuare prestiti a
lunga scadenza ) e si introdusse un regime di vigilanza asfissiante da parte della banca
centrale.
Dagli anni ’70 in poi il modello di sviluppo dell’economia basato sull’impresa
pubblica entra in crisi. Durante il primo shock petrolifero e con il secondo poi ,con la
recessione , vengono messe in discussione tutte le teorie precedenti e inizia il processo
di liberalizzazione e privatizzazione dell’economia ,processo che si sviluppa in varie
forme e a seconda dei paesi e dei contesti in cui viene attuato. Ma quali sono le ragioni
che hanno spinto verso la privatizzazione e la liberalizzazione? Perché il modello
pubblico era oramai sorpassato?
Le motivazioni sono diverse. E’ possibile identificare una serie di cause,scaturite
principalmente dalla crisi economica post settanta:
ξ risanare la finanza pubblica
ξ favorire la concorrenza e il mercato migliorando l’efficienza e l’efficacia nella
gestione delle imprese
ξ ridurre il coinvolgimento politico nelle decisioni strategiche
ξ diffondere l’azionariato presso il pubblico dei risparmiatori
ξ sviluppare il mercato dei capitali
1.1 Privatizzazioni e risanamento delle finanze pubbliche
Una delle principali ragioni che hanno spinto le scelte dei policy makers verso la
privatizzazione delle imprese pubbliche è stata la possibilità , di ottenere rilevanti
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entrate finanziarie e migliorare la situazione dei bilanci statali. Infatti attraverso la
vendita delle partecipazioni e delle aziende di stato ,i vari ministeri del tesoro hanno
incassato miliardi di euro. La finanza pubblica e il contenimento della spesa, negli
ultimi decenni , sono diventati gli elementi fondamentali nelle agende dei governi dei
principali paesi sviluppati e non.
Il costo del Welfare State ( tenendo conto anche dei mutamenti demografici che, come
abbiamo detto, porteranno ad un aumento del fabbisogno nel settore della sanità e delle
pensioni) e la regolamentazione del mercato del lavoro incidono sulle capacità
competitive dei vari sistemi produttivi e provocano richieste di ridimensionamenti nelle
politiche tradizionali dello stato sociale. Se la spesa pubblica legata al sistema di
Welfare si scarica sui costi di produzione( ad esempio sui contributi sociali), la
posizione competitiva dei singoli paesi ne è influenzata. Il maggior costo di produzione
costringe ovviamente ad abbandonare determinati settori produttivi (quando si opera in
un regime di cambi fissi) o ad elevare le barriere doganali e non, o a procedere a
svalutazioni. E’ abbastanza ovvio come queste soluzioni non siano adottabili in via
permanente.
Il contesto maggiormente concorrenziale richiede però anche una più attenta
considerazione degli aspetti di efficienza nella gestione delle imprese pubbliche in
quanto queste producono anche beni tradables o forniscono beni intermedi o servizi alle
imprese che entrano a formare i costi di produzione del sistema e costituiscono perciò
importanti fattori nel determinare la localizzazione delle imprese e nel definire i livelli
di competitività di un sistema produttivo. E’ certamente possibile, anche in presenza di
costi elevati frutto di inefficienza , mantenere i prezzi e le tariffe basse, ma questo fa
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aumentare la pressione fiscale che prima o poi finisce con lo scaricarsi sul livello
generale dei prezzi; se invece si ricorre al finanziamento in deficit si aggravano i
problemi che assillano la finanza pubblica, già sottoposta a molteplici pressioni. Le
privatizzazioni hanno permesso di allentare,sia a fronte di nuove entrate , sia a fronte di
riduzione di spesa , tali tensioni sul bilancio pubblico.
Un esempio di ciò può essere il caso italiano :1992 al 1999 sono entrati allo Stato oltre
178.000 miliardi di lire (il 12,3% del PIL del 1992, anno in cui sono partire le
privatizzazioni; i ricavi lordi delle cessioni in sette anni sono stati di oltre 100.000
miliardi di lire); i maggiori settori interessati a questo intenso processo di
privatizzazioni sono stati, appunto , il settore bancario-assicurativo con il 31,6% delle
aziende privatizzate appartiene ,quello delle telecomunicazioni con il 33,2% (Telecom,
STET) ,quello dei trasporti con il 13% , l’editoria con il 2,8 %, il 3,4% il settore
alimentare, il settore siderurgico, mentre l’11,5% tutti gli altri. A livello finanziario fra
il 1993 e il 1999 le privatizzazioni hanno portato nelle casse dello Stato 152.000
miliardi di lire, quasi l’otto per cento del Prodotto interno lordo (Pil) dello stesso
periodo. Negli anni ‘90 sono state privatizzate tutte le aziende statali nel settore
dell’acciaio e in quello alimentare mentre si è ridotto il controllo nei settori strategici
quali quello dell’elettricità, delle telecomunicazioni, del petrolio, dei prodotti chimici,
dei trasporti.
Ma gli effetti positivi sulla finanza pubblica non si sono limitati a nuove entrate Infatti
grazie alle privatizzazioni si è avuta una forte riduzione della spesa corrente
(perdite,situazioni di crisi,oneri di vario genere) a breve termine e un drastico
ridimensionamento delle spese fisse di lungo periodo (investimenti,acquisizioni ecc)
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che era necessario sostenere per controllare e dirigere le imprese pubbliche; spese che
naturalmente gravavano sul bilancio pubblico e sul contribuente. Questo ha permesso di
snellire l’apparato statale e abbattere i costi di gestione dello stesso.
1.2 Concorrenza ,mercato e globalizzazione : crisi dell’impresa pubblica
Un altro intento perseguito dai policy makers attraverso la privatizzazione è stato quello
di migliorare l’efficienza nella conduzione delle aziende che si trovavano sotto la
direzione statale. Concorrenza e mercato sono stati visti come gli unici strumenti
attraverso i quali migliorare la gestione delle imprese e spingere il management
pubblico ad essere efficiente. Alcune precisazioni sono però necessarie a riguardo. La
questione che si vuole affrontare è : l’impresa pubblica è per sua natura inefficiente ?
La risposta non è tanto immediata. Molti sostengono che l’impresa pubblica può
operare secondo criteri di efficacia ed efficienza ma spesso esse possono essere
chiamate dal referente politico a perseguire obiettivi generali, quali ad esempio
redistribuzione del reddito,salvaguardia della occupazione, sostegno alla produzione
nazionale e/o alle aree depresse,soddisfacimento di particolari interessi. In questo caso
l’impresa pubblica non è vincolata all’obiettivo dell’efficienza. Un esempio molto
calzante in proposito è proprio il settore bancario.
Le banche sono ,da sempre, state considerate soggetti economici molto particolari.
Attraverso di esse lo Stato ha sempre attuato i propri indirizzi di politica monetaria
condizionando il potere di acquisto dell’intera comunità nazionale. Le banche sono
importanti perché costituiscono uno strumento che mette in contatto i preditori di fondi
ed i risparmiatori ( in passato erano gli unici soggetti preposti a svolgere questo ruolo),
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permettendo all’economia di crescere. Le oscillazioni di questo settore si sono
ripercosse in maniera diretta ed indiretta su tutti gli operatori economici (dal
consumatore che acquista beni di consumo, al risparmiatore che versa il proprio denaro
in conti correnti, o investe in titoli,obbligazioni pubbliche ecc.. ,all’impresa che chiede
fidi e prestiti per sostenere la propria attività ecc..). Appare riduttivo, dunque,
annoverare tra gli stakeholders delle banche solo gli azionisti di controllo o i soli
dipendenti e prestatori d’opera o i soli clienti (modello ristretto di corporate
governance) ma vi è una più ampia fascia che comprende il mondo dell’impresa ,i
cittadini,la comunità. Non dimentichiamo che il credito è moneta e dunque capacità di
spesa: la stabilità del sistema garantisce la stabilità della moneta stessa
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.
Questi presupposti sono sicuramente fondati e lo erano molto di più nel passato.
Oggigiorno il mondo è profondamente cambiato. Molte delle peculiarità del compito
“pubblico” delle banche sono venute meno. Ad esempio si pensi alla politica monetaria.
In passato essa era una delle leve attraverso la quale il governo
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favoriva l’esportazione
di merci nazionali (grazie alla svalutazione); determinava il livello dei tassi ,dunque dei
mutui e dei fidi , fissava il rendimento dei Bot ecc…In un contesto del genere ,il
controllo pubblico delle banche era fondamentale . Adesso ,con l’euro, la politica
monetaria viene definita a livello europeo dalla BCE , la quale punta soprattutto al
contenimento dell’inflazione e alla stabilità. Il venir meno della leva monetaria fa
cadere uno dei presupposti fondamentali dell’azione pubblica del mondo bancario. Al
giorno d’oggi , grazie alla globalizzazione ,le imprese possono rivolgersi ai mercati dei
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E’ questa l’ottica che sta alla base della legge del 1936.
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La politica monetaria è sempre stata prerogativa delle banche centrali . Il sistema italiano era alquanto
anomalo: mentre negli altri paesi sviluppati vi era una forte indipendenza delle banche centrali rispetto al
governo, in Italia il governo stesso aveva conservato molti strumenti , indiretti o diretti, per condizionare
le scelte delle banca centrale stessa e dunque la politica monetaria
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capitali per ottenere risorse per crescere ed investire .Le banche non sono più gli
interlocutori unici in questo senso ed il loro controllo da parte dello stato sarebbe
alquanto inefficace. Quanto detto per il settore bancario è valido per molti altri comparti
dell’economia dove nel passato lo Stato era il principale proprietario e controllore (
energia, trasporti, assicurazioni ecc..) . Dunque possiamo concludere che la crisi e il
discredito verso l’impresa pubblica vada da ricercarsi ricercata non in una loro
intrinseca incapacità ad essere efficienti ma nel fatto che esse nel complesso svolgono
compiti che non sono ritenuti più accettabili. Vi sono imprese pubbliche il cui
comportamento è orientato alla massima efficienza, alla massimizzazione del profitto e
non differiscono perciò in ciò in nulla da qualsiasi monopolista privato ( si pensi
all’attuale comportamento dell’Enel e dell’Eni ). Ci si può chiedere in questa
circostanza come si giustifichi la presenza di un’impresa pubblica.
L’impresa pubblica deve agire secondo una funzione del benessere sociale che tiene
conto degli interessi generali della collettività, ivi compresi quelli che sono
raggiungibili attraverso politiche redistributive. Tutto ciò è agevolato se non vi sono
vincoli esterni. Se questi sono presenti l’impresa può essere costretta a concentrarsi solo
sull’aspetto efficientistico, rinunciando perciò a raggiungere quegli obiettivi che sono
peraltro una delle giustificazioni della sua esistenza.