2
questione, si consideri quanto scrive Angelo Panebianco sul “Corriere della
Sera” del 6 marzo 2000: “davvero, non fa differenza per noi, e i problemi
sono più o meno gli stessi, se ad arrivare sono, poniamo, cattolici polacchi
o musulmani maghrebini? È plausibile che non sia affatto così, ed è forse
ora di cominciare a identificare i diversi problemi che possono insorgere in
relazione alle specificità culturali delle diverse comunità di immigrati”.
Le problematiche inerenti i rapporti tra culture differenti, compresenti
nell’ambito di uno stesso territorio, oggi vengono comunemente indicate
con il termine ‘multiculturalismo’ ed interessano ormai tutto il pianeta, che
in pochi decenni si è ‘ristretto’ e ‘globalizzato’, grazie soprattutto alla
nuova economia e alle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione. In
questo contesto, si delinea il dovere delle società cosiddette ‘avanzate’ di
riflettere su quali alternative non coercitive siano proponibili per dirimere
le tensioni nazionalistiche e gli attriti originati dalla presenza, all’interno di
tali società, di gruppi sempre più numerosi di individui provenienti da paesi
stranieri e spesso portatori di peculiari usanze e tradizioni che possono
entrare in conflitto con quelle proprie del paese ospitante. In altri termini, è
necessario tentare di costruire un puzzle, di cui le molte culture esistenti nel
nostro mondo rappresentano le tessere, da collocarsi le une accanto alle
altre in un modo corretto, perché ciascuna possa mantenere i propri
contorni, e affinché insieme costituiscano l’immagine unitaria della più
vasta comunità umana. In questo consiste il puzzle multiculturale.
Nel Nord America, il dibattito è avviato da anni, anche perché la nascita di
paesi quali gli Stati Uniti e il Canada è avvenuta proprio attraverso
l’intrecciarsi (spesso tragico) di culture ed etnie diverse, già presenti da
secoli sul continente, o giunte dal Vecchio Mondo per colonizzare.
3
Nell’ambito della filosofia politica americana, tuttavia, l’accesa diatriba fra
comunitaristi e liberali ha spesso portato ad affrontare in modo strumentale
il problema delle relazioni etnoculturali: le due correnti di pensiero hanno
cercato di appoggiarsi ad esso per giustificare le proprie posizioni o per
attaccare quelle altrui, piuttosto che provare a interrogarsi seriamente sui
modi di una sua eventuale soluzione.
Una nuova e interessante prospettiva in merito, è stata introdotta dal
filosofo canadese Will Kymlicka. Pur non facendo mistero del suo
orientamento liberale egualitario, Kymlicka ha dedicato i suoi studi alla
ricerca di adeguate categorie e di argomenti convincenti, mediante i quali
mostrare l’esigenza di “diritti differenziati”, cioè di diritti connessi ad una
specifica appartenenza culturale, da affiancare ai più tradizionali diritti
individuali. La sua convinzione fondamentale è che i particolari diritti
attribuiti a gruppi di persone che condividano una medesima cultura, lungi
dal determinare situazioni di sperequazione, vadano considerati come un
completamento e un rafforzamento della tutela che un’autentica teoria
liberale deve garantire a ogni individuo, sia esso appartenente a una cultura
dominante, o a una minoritaria. In questo modo, Kymlicka non rinuncia ai
valori della libertà e dell’uguaglianza, che anzi fondano la sua difesa
dell’importanza dell’appartenenza culturale. Egli stesso, infatti, dichiara di
non aver perseguito altro obiettivo che quello di formulare una teoria
liberale dei diritti delle minoranze culturali. Si tratta di una teoria che
affonda le sue radici in un terreno filosofico-politico, anche se i suoi
sviluppi si collocano poi prevalentemente su un piano sociologico e
politologico.
4
Sebbene ancora relativamente recenti e destinati indubbiamente a ulteriori
evoluzioni, i lavori di Kymlicka non hanno mancato di stimolare, negli
ambienti angloamericani, discussioni e critiche, sia da parte dei liberali, sia
da parte dei comunitaristi. Sul versante liberale, si registrano apprezzamenti
per quello che appare come un audace tentativo di riconciliare una dottrina
ritenuta incapace di considerare altro che individui “atomizzati” (quale è il
liberalismo) e i diritti dei gruppi culturali minoritari; voci di dissenso
sottolineano, da parte opposta, il limite di una prospettiva ancorata a valori
definiti una volta per tutte, la quale perciò poco si presta al dialogo (anche
solo sul piano teorico) con culture diverse da quelle di stampo liberale. Sul
versante comunitarista, si rileva la prossimità del pensiero di Kymlicka al
comunitarismo più che al liberalismo, e in ciò si ritiene di poter vedere una
sorta di ammissione implicita dei gravi limiti che caratterizzerebbero il
liberalismo egualitario, almeno nella sua versione più classica.
Il presente lavoro si propone di ricostruire il percorso speculativo compiuto
fino a oggi da Will Kymlicka e quasi esclusivamente polarizzato attorno
alle tematiche del multiculturalismo e dei diritti delle minoranze culturali.
La convinzione che muove questa ricerca è che le riflessioni di Kymlicka –
sebbene l’autore sia relativamente giovane e ancora poco studiato, almeno
in Europa – possano contribuire a spronare altri studiosi ad intervenire
criticamente su questi argomenti, approntando adeguati strumenti
concettuali, in grado di affrontare le concrete situazioni di incontro/scontro
fra culture, che nelle società moderne sono presenti in gran numero e con
crescente intensità.
Per questo si è andati alla ricerca delle basi della teoria di Kymlicka,
soffermandosi innanzitutto sulle argomentazioni esposte nel suo primo,
5
fondamentale volume (Liberalism, Community, and Culture, 1989),
seguendo poi il loro progressivo affinamento (Multicultural Citizenship,
1995), fino agli ultimi lavori (Finding Our Way, 1998), che manifestano
una sempre maggiore attenzione alla distinzione e alla precisazione dei
concetti in gioco, e alla problematicità delle possibili soluzioni teoriche
proposte.
Questo lavoro si pone come un primo contributo allo studio dell’autore, che
certamente negli anni a venire elaborerà maggiormente le sue posizioni;
pertanto non si vuole qui approdare ad un esito critico compiuto, o
presentare un quadro definitivo della speculazione kymlickiana, quanto
piuttosto identificare le coordinate teoriche che il filosofo canadese ha
finora messo a punto per l’analisi delle molteplici implicazioni connesse
alla problematica dei rapporti etnoculturali.
Nel primo capitolo si cercherà dunque di delineare il contesto teorico in cui
va inserita la riflessione di Will Kymlicka: saranno pertanto brevemente
discussi i concetti di ‘cultura’ e ‘multiculturalismo’, quanto meno per
evidenziare i problemi che il loro impiego comporta. Verrà quindi fornito
uno spaccato esemplare, ma per nulla esaustivo, dell’odierno dibattito
filosofico-politico sul valore delle diverse culture e su ciò che esso implica
in termini di diritti, teorie politiche, e problematiche correlate. Quale
significativo perno di tale discussione è stato scelto uno stimolante
contributo di Charles Taylor (La politica del riconoscimento, 1992),
rispetto al quale molti studiosi, americani ed europei, hanno preso
posizione (tra gli altri, Michael Walzer e Jürgen Habermas).
Nel secondo capitolo, ci si avvicinerà ai primi scritti di Will Kymlicka,
soffermandosi sul tema del rapporto tra diritti delle minoranze e
6
liberalismo. Si noterà l’importanza che i diritti delle minoranze hanno nelle
società moderne, e si espliciteranno le motivazioni storiche e teoriche che,
secondo Kymlicka, hanno determinato una sorta di ostilità, o almeno di
reciproca diffidenza, tra tali diritti e liberalismo. Soprattutto si mostrerà in
che termini Kymlicka formuli la peculiare prospettiva liberale a partire
dalla quale intende affermare l’importanza dell’appartenenza culturale. Nel
riproporre l’insistenza dell’autore sul valore della scelta, libera e critica,
dell’individuo, ci si confronterà con alcune obiezioni comunitariste, che si
dirigono contro la concezione antropologica che starebbe alla base della
teoria liberale, e si esamineranno le relative risposte di Kymlicka.
Nel terzo capitolo, si esporrà specificamente la teoria kymlickiana del
valore liberale dell’appartenenza culturale: si vedrà infatti come il filosofo
chiarisca l’importanza della cultura intesa come comunità culturale e come
contesto di scelta, capace di offrire all’individuo che ne fa parte una
pluralità di opzioni significative. Si solleveranno pure alcune critiche, in
rapporto alla nozione di ‘cultura’ adottata da Kymlicka. Proseguendo, si
esporrà l’argomentazione con cui il filosofo canadese rileva la necessità
che, in un’ottica liberale, siano tutelate le diverse comunità culturali e non
si determinino discriminazioni che impediscano ad alcuni individui di
disporre del proprio contesto di scelta, in cui poter operare scelte autonome.
In questo caso sorgeranno altri problemi, inerenti alla distinzione tra le
circostanze penalizzanti per gli individui, indipendenti dalla loro volontà
(ad esempio, secondo Kymlicka, il nascere in una comunità culturale
minoritaria, ingiusto svantaggio che andrebbe riequilibrato con diritti
speciali) e le scelte responsabili (che, in quanto tali, vanno semplicemente
rispettate).
7
Nel quarto capitolo, si forniranno alcune distinzioni teoriche sviluppate da
Kymlicka nella sua opera più sistematica, e si chiarirà meglio la sua
nozione di cultura come ”cultura sociale”. Si vedrà come l’autore tenti di
confrontarsi con le culture non liberali, dalle quali lo separa la tesi
dell’irrinunciabile valore dell’individuo in quanto libero e critico decisore,
e come proprio questa distanza culturale, non attenuata ma anzi rimarcata,
lo esponga a nuove critiche.
Nel quinto capitolo, infine, si presenteranno i più recenti scritti di
Kymlicka, dove è messo esplicitamente a tema il processo di “costruzione
della nazione”, con preciso riferimento al caso canadese: a tale processo le
minoranze culturali, almeno all’interno degli stati democratici, rispondono
con rivendicazioni che, secondo Kymlicka, mantengono pur sempre
caratteristiche liberali, e vanno perciò attentamente considerate.
Nell’effettuare la raccolta del materiale di studio, in occasione di un mio
viaggio negli Stati Uniti e in Canada compiuto nell’agosto 1999, ho avuto
l’opportunità di incontrarmi con il Prof. Kymlicka, che mi ha cortesemente
facilitato nell’opera, altrimenti piuttosto difficoltosa, di reperimento dei
suoi numerosi scritti, nonché di una circoscritta ma significativa letteratura
critica. Soprattutto, egli si è dimostrato particolarmente interessato a
riesporre e a discutere la sua teoria, facendomi così partecipe di
un’esperienza umana ed intellettuale del tutto speciale, di cui spero che il
presente lavoro possa in qualche modo conservare e trasmettere l’eco.
8
CAPITOLO PRIMO
Aspetti del dibattito sul multiculturalismo
I.1. Premessa
“Quanta diversità può sopportare una società al suo interno? L’ideale è ex
pluribus unum; ma cosa succede se quei ‘pluralismi’ diventano
divaricanti?”
1
. Con questi interrogativi Nicola Matteucci introduce alcune
riflessioni conclusive al suo breve ma denso scritto (raccolto nella
rinnovata edizione del suo volume su Lo Stato moderno) sul concetto di
“pluralismo”, da lui inteso come espressione del “processo storico di
differenziazione culturale e sociale”
2
, originato dai tormentati decenni della
Riforma Protestante, ed esplicitato nelle teorie pluralistiche
novecentesche
3
.
1
Matteucci N., Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna 1993; nuova ed. ampl., 1997; p.
344.
2
Matteucci, op. cit., p. 322.
3
Cfr. Matteucci, op. cit., pp. 322-333.
9
L’opinione di Matteucci è che, dopo gli scontri interstatali della modernità,
protrattisi fino al termine del periodo della Guerra Fredda, nel nostro futuro
un nuovo tipo di conflitto sia destinato a crescere in frequenza e gravità,
minando la pace delle società umane.
Le ragioni delle recenti manifestazioni di ostilità vanno trovate in
motivazioni etniche, religiose, linguistiche, che hanno assunto, dopo il
1989
4
, il ruolo di principale motore di massacri e violenze in tutti i
continenti, in nome di ideali tribali (come in Rwanda e Burundi),
nazionalistici (come nell’ex Jugoslavia), regionalistici (come nell’Irlanda
del Nord e in Spagna).
Nel frattempo, il fenomeno migratorio dai Paesi più poveri dell’emisfero
meridionale verso il Nord industrializzato ha assunto proporzioni
impressionanti, portando forti tensioni direttamente all’interno del mondo
‘occidentale’ di matrice cristiana, e avvicinandolo, come mai era successo
in passato, a culture profondamente diverse: una per tutte, la religione
islamica. Secondo Matteucci, quest’ultimo elemento dello scenario odierno
è forse il più importante, perché implica la necessità non più eludibile di
instaurare un dialogo tra civiltà prive di uno sfondo culturale condiviso: né
un comune credo, né medesimi principi etici e politici possono infatti
costituire le basi immediate di un incontro
5
.
4
È doveroso notare come la caduta del Muro abbia permesso a lacerazioni sociali e politiche di carattere
culturale, sorte e acuitesi nel corso dei secoli, di manifestarsi in tutta la gravità, prima colpevolmente
obliata dagli animi accecati dalle ideologie.
5
Cfr. Matteucci, op. cit., pp. 339-343.
10
Pertanto siamo di fronte a “una nuova – forse difficile – forma di
pluralismo”
6
, da affrontare con la piena consapevolezza degli ostacoli da
superare: “si parla molto – scrive Matteucci – di società multi-culturali e di
società multi-etniche, senza accorgersi che cultura ed etnia sono cose
diverse, o meglio, non coincidenti, e senza tenere presente il fatto che
l’integralismo islamico rappresenta un grave fattore perturbante per un vero
pluralismo”
7
.
Se le culture rappresentano patrimoni di grande valore, nel cui scambio si
arricchisce l’umanità, le etnie indicano una chiusura verso chi sia ‘estraneo’
a legami parentali e vincoli di sangue, assumendo una forte connotazione
esclusiva. Tale precisazione non va trascurata, se si vuol evitare di trarre
conclusioni sbilanciate verso ingenui ottimismi (che già considerano
esistente un pianeta multiculturale, in realtà tutto da costruire), o
superficiali pregiudizi (che vedono solo incolmabili distanze fra le
molteplici ‘famiglie’ umane).
Allo stesso modo, le eterogenee esperienze storiche e politiche che
distinguono l’Islam dalle nostre società non possono non indurre a
riflessioni prudenti circa una convivenza che, se da un lato appare
inevitabile, per altro verso non si può improvvisare sommariamente, ma
deve essere costruita con pazienza e con intelligenza.
Matteucci conclude insistendo sul valore della sfera privata (in particolare
in riferimento ai matrimoni misti), in cui si può davvero tentare di
realizzare quell’integrazione, che astratti discorsi si limitano a vagheggiare
6
Matteucci, op. cit., p. 339.
7
Matteucci, op. cit., p. 344.
11
utopisticamente; la tolleranza comunque appare come la cornice
imprescindibile in cui realizzare un pluralismo che sia “ragionevole”
8
.
Si è voluto, molto sinteticamente, richiamare le riflessioni di un autorevole
studioso delle teorie politiche (qual è Matteucci), per introdurre il tema del
presente lavoro, consistente nella ricostruzione critica della teoria dei diritti
delle minoranze culturali elaborata da Will Kymlicka
9
, filosofo politico
8
Matteucci, op. cit., p. 345.
9
Will Kymlicka nasce a Winnipeg (Stato del Manitoba, Canada), il 22 ottobre 1962.
Consegue il B. A. (with Honours, First-class) in Filosofia e Scienza Politica presso la Queen’s University
di Kingston (Stato dell’Ontario, Canada) nel giugno del 1984; due anni dopo, presso la University of
Oxford, in Gran Bretagna, ottiene il B. Phil. in Filosofia (with distinction); sempre a Oxford, nel 1987, gli
è conferito il D. Phil. in Filosofia.
Vince numerose borse di studio della SSHRC (Social Sciences and Humanities Research Council of
Canada), e gli viene affidato l’incarico di Lecturer presso la Queen’s University, la Princeton University
(Stati Uniti) e la University of Toronto.
Nel 1989 pubblica il suo primo volume, Liberalism, Community, and Culture, versione rielaborata della
tesi di Dottorato, discussa con una commissione di cui faceva parte, tra altri, Ronald Dworkin. In questo
primo testo già si delinea la sfida teoretica lanciata dal filosofo canadese: proporre una teoria liberale dei
diritti delle minoranze culturali, in alternativa alle soluzioni comunitariste, le quali, pur sottolineando
giustamente l’importanza del contesto in cui ognuno è situato, finiscono per limitare seriamente le libertà
individuali in nome del ‘bene comune’. Per riuscire in questo tentativo, secondo Kymlicka, è necessario
però un profondo ripensamento della tradizione liberale del secondo dopoguerra.
In quegli anni, inizia a collaborare con numerosi periodici di teoria politica (tra cui “Philosophy and
Public Affairs” e “Ethics”), partecipando ai comitati di redazione e scrivendo recensioni e articoli, in cui
frequentemente prendono forma le idee poi ordinate ed ampliate nei suoi testi (dal 1995 è anche
responsabile di “Citizenship, Democracy and Ethnocultural Diversity”, foglio elettronico del Canadian
Centre for Philosophy and Public Policy, di cui è Research Director, presso l’Università di Ottawa).
Nel 1990 dà alle stampe il suo secondo libro, Contemporary Political Philosophy: An Introduction,
tradotto nelle principali lingue europee. Si tratta di una storia della filosofia politica contemporanea
presentata secondo il punto di vista liberale egualitario: utilitarismo, liberismo, marxismo, comunitarismo
e femminismo sono vagliati in confronto continuo con la dottrina liberale egualitaria.
Contattato dalla Royal Commission on New Reproductive Technologies, per alcuni mesi si dedica a
problemi di bioetica, che restano tuttavia una interessante ma breve parentesi, continuando ad essere lo
studio dei problemi delle minoranze il fulcro della sua attività.
Dal 1991 si muove tra l’America e l’Europa in qualità di Visiting Professor presso numerose Università
(a Ottawa, Vienna, Budapest, Barcellona…); da enti governativi canadesi viene incaricato di svolgere
ricerche inerenti le teorie e le politiche d’integrazione culturale (redige, ad esempio, un rapporto sulle
teorie dedicate alla cittadinanza, commissionato dal Department of Multiculturalism and Citizenship del
Canada).
Intanto, nel 1992, cura l’edizione di due volumi miscellanei intitolati Justice in Political Philosophy, in
cui sono presentate le posizioni assunte da diversi teorici contemporanei anglo-americani circa il tema
della giustizia sociale e delle sue condizioni; nel 1995 pubblica The Rights of Minority Cultures, raccolta
di saggi di vari autori, che Kymlicka ha riunito per fornire un quadro del dibattito sui diritti delle
minoranze.
Sempre nel 1995 esce il suo terzo libro, Multicultural Citizenship, vincitore del Macpherson Prize
(conferito dalla Canadian Political Science Association) e del Bunche Award (assegnato dalla American
Political Science Association), e tradotto in tutto il mondo: con questo contributo, Kymlicka propone in
modo più puntuale la sua prospettiva circa la complessa questione dei diritti delle minoranze culturali,
12
canadese di orientamento liberale, che alle questioni inerenti i nuovi
(dis)equilibri mondiali tra le culture ha dedicato la gran parte dei suoi studi.
Prima di avvicinarsi allo specifico pensiero dell’autore, tuttavia, vale la
pena di delineare sinteticamente il contesto teorico in cui egli si muove.
Tale è appunto l’intendimento di questo primo capitolo.
I.2. A proposito del termine ‘multiculturalismo’
Le problematiche a cui sopra si è accennato, legate a conflitti etnici e
culturali, da alcuni anni sono attentamente studiate da sociologi e scienziati
politici, intenti a decifrare le caratteristiche dei fenomeni in questione,
ricercando modelli interpretativi adatti a comprenderne, e se possibile
prevederne, l’evoluzione, in vista di un ideale equilibrio tra le diversità, che
non si identifichi con un mero livellamento di queste ultime, e sappia
evitare di risolversi in un monismo disumano e totalitario.
Queste tematiche, al centro anche della riflessione di Will Kymlicka, sono
ormai correntemente sintetizzate nel termine ‘multiculturalismo’
10
; l’uso di
fornendo utili distinzioni teoriche, e mostrandosi ben consapevole delle difficoltà di conciliare tolleranza
e pratiche illiberali, diritti umani universali e culture non omogenee alla matrice occidentale.
Nel 1997, insieme a Ian Shapiro, si occupa dell’edizione di Ethnicity and Group Rights, ancora su
tematiche legate ai rapporti etnoculturali; pubblica inoltre due lezioni tenute ad Amsterdam, intitolate
States, Nations and Cultures, in cui riassume e in parte sviluppa le sue teorie.
Nel 1998 esce Finding Our Way: Rethinking Ethnocultural Relations in Canada, in cui le ricerche di
Kymlicka si focalizzano specificamente sul caso canadese, nell’intento di fare un bilancio delle misure
‘multiculturali’ da tempo adottate nel Paese.
Dal 1999 è National Scholar alla Queen’s University di Kingston, dove risiede.
Attualmente sta preparando la pubblicazione di una raccolta di suoi articoli, dal titolo Politics in the
Vernacular: Essays on Nationalism, Multiculturalism and Citizenship; sta curando inoltre l’edizione di
tre volumi miscellanei, sulle medesime problematiche.
10
Alcuni titoli, utili a presentare varie posizioni riguardanti il ‘multiculturalismo’ nel dibattito di questi
anni, sono: – Bonazzi T., Dunne M. (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, il
Mulino, Bologna 1994; – Crespi F., Segatori R. (a cura di), Multiculturalismo e democrazia, Donzelli,
Roma 1996; – Marazzi A. (a cura di), Domande sul multiculturalismo: Atti del seminario del gennaio
13
tale termine risulta però a volte troppo disinvolto e ambiguo, così che si
rendono necessarie alcune chiarificazioni preliminari.
Innanzi tutto, va precisato che cosa si debba intendere per ‘cultura’,
essendo evidentemente questo termine la matrice dell’idea stessa di
‘multiculturalismo’
11
.
Nicola Abbagnano, nella voce ‘cultura’ del suo Dizionario di filosofia,
distingue due concetti fondamentali: “il primo e più antico è quello per il
quale significa la formazione dell’uomo, il suo migliorarsi e raffinarsi”
12
. In
tal senso, la cultura rispecchia la sua etimologia (dal verbo latino colĕre,
coltivare) e corrisponde al processo di realizzazione piena dell’essere
umano, attuato attraverso l’acquisizione di conoscenze che permettano di
sviluppare una sempre maggiore capacità di apertura critica alla realtà e
alla sua complessità. Tale processo va generalmente incontro a una
valutazione rispetto al grado di compimento raggiunto (da cui la distinzione
fra l’uomo “colto”, più completo e degno di ammirazione, e l’uomo
”incolto”)
13
.
1998, “Quaderni I.S.MU.”, 1999, 2; – Rusconi G. E., Multiculturalismo e cittadinanza democratica, in
“Teoria politica”, 12, 1996, 3, pp. 17-22; – Cristin R., L’interculturalità, in “Teoria politica”, 11, 1995, 3,
pp. 89-98; – Gutmann A., The Challenge of Multiculturalism to Political Ethics, in “Philosophy and
Public Affairs”, 22, 1993, 3, pp. 171-206; trad. it., La sfida del multiculturalismo all’etica politica, in
“Teoria politica”, 9, 1993, 3, pp. 3-40; – Gambino A., Gli altri e noi: la sfida del multiculturalismo, il
Mulino, Bologna 1996; – Cesareo V., Società multietnica e multiculturalismo, in “Studi di sociologia”,
1998, 4, pp. 347-377. Sono inoltre preziosi due volumi miscellanei curati da Will Kymlicka: The Rights
of Minority Cultures, Oxford University Press, Oxford 1995, e (con I. Shapiro) NOMOS 39: Ethnicity and
Group Rights, New York University Press, New York 1997.
11
Come afferma Antonio Marazzi, “il multiculturalismo è una filiazione diretta, un’estensione” del
concetto di cultura; per cui “l’aggiunta del ‘multi’ al termine ‘cultura’ indica una serie di stratificazioni
ulteriori” di differenti componenti culturali; cfr. Marazzi A., Intervento al Seminario di Studio sul
Multiculturalismo, in Marazzi, op. cit., pp. 8-13; p. 9.
12
Abbagnano N., Dizionario di filosofia, U.T.E.T., Torino 1960; ed. agg. e ampl. da G. Fornero, 1998,
pp. 248-251; p. 248.
13
Cfr. Abbagnano, op. cit., p. 250. Notando come la cultura così intesa si sia identificata sempre più,
dall’Illuminismo fino alla contemporaneità, con competenze tecniche e specialistiche riduttive per le
potenzialità umane, Abbagnano afferma l’esigenza di quella che chiama “cultura generale”, che consista
in vera disposizione alla critica, nel segno di idee particolarmente aperte: “non c’è cultura, in altri termini,
senza quelle che si chiamano comunemente ‘idee generali’; ma dall’altro lato le idee generali non
debbono né possono, dall’uomo colto, essere imposte arbitrariamente o accettate passivamente, nella
14
Venendo al secondo significato di ‘cultura’, Abbagnano scrive che “la
parola è oggi specialmente usata da sociologi e antropologi per indicare
l’insieme dei modi di vita che sono creati, appresi e trasmessi da una
generazione all’altra, fra i membri di una particolare società. In questo
significato la cultura non è la formazione di un individuo nella sua umanità
o la sua maturità spirituale, ma è la formazione collettiva anonima di un
gruppo sociale nelle istituzioni che lo definiscono”. Pertanto, si passa dalla
considerazione di un processo all’attenzione per il prodotto che ne deriva.
In questa nuova accezione, il termine ‘cultura’ assume un “significato
neutro”, poiché riguarda “l’insieme dei modi di vita di un gruppo umano
determinato, senza riferimento al sistema di valori verso i quali questi modi
di vita sono orientati”
14
. A tale nozione, più sociologica, di ‘cultura’ si
riferiscono principalmente le tematiche del multiculturalismo.
Per esempio, Amy Gutmann, professoressa di Politica all’Università di
Princeton, esaminando il difficile rapporto tra il multiculturalismo e l’etica
politica, definisce la cultura come “una comunità di individui che
comprenda più di qualche famiglia e che sia associabile a modi di vedere,
fare e pensare comuni e perduranti”
15
. In queste parole viene fortemente
evidenziato il valore dell’unione di più individui: per un ipotetico soggetto
isolato non si potrebbe, a rigore, parlare di cultura: quest’ultima suppone,
forma di ideologie istituzionalizzate, ma devono poter essere formate in modo autonomo e continuamente
commisurate alle situazioni reali”.
14
Abbagnano, op. cit., p. 251. Cfr. anche Francesco Remotti, Cultura, in Enciclopedia delle scienze
sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, vol. II, pp. 641-660. Remotti riprende
sostanzialmente la distinzione di Abbagnano tra una concezione più classica e “normativa” di cultura, e
una più moderna e “descrittiva”; in particolare, scrive che “in sintesi, si può affermare che la differenza
essenziale tra la concezione classica e quella moderna è data dalla assenza o dalla presenza dei costumi
come contenuti specifici della cultura. Se la cultura in senso classico era costituita da ideali, verità e valori
non condizionati dai mores, e se la sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle
consuetudini locali, la cultura in senso moderno è invece costituita dai costumi, e un’analisi in termini
culturali comporta il riconoscimento della loro importanza e della loro incidenza in una molteplicità di
ambiti del comportamento umano” (p. 642).
15
Gutmann, art. cit., pp. 3-4.
15
in questo contesto teorico, la socialità come dimensione essenziale
dell’uomo. Inoltre la durata, intesa come il protrarsi nel tempo di un certo
legame sociale, è considerata importante perché si costituisca qualcosa che
non sia un passeggero atteggiamento di vita.
Così definita, la cultura perde qualsiasi connotazione elitaria o accademica
e tende piuttosto a coincidere con la comunità di uomini e donne che,
condividendo un passato di tradizioni, storia e costumi, ereditato dalle
generazioni precedenti, e un presente in cui agire, comunicando attraverso
una lingua comune, si proiettano nel futuro producendo ‘oggetti’ materiali
e spirituali (ad esempio, opere d’arte e utensili, concetti filosofici e
credenze religiose) che a loro volta ristrutturano le percezioni dell’esistenza
proprie dei loro medesimi artefici e delle generazioni seguenti.
Certamente, la nozione che si è cercato di descrivere non è così immediata
o lineare: la componente critica individuale (riferibile al primo significato
descritto da Abbagnano) entra sempre in gioco nella produzione dei modi
di vita collettivi, nella loro evoluzione e nella loro trasmissione (elementi
della cultura nel secondo significato). Tale rapporto tra l’individuo e la
comunità, tra i meccanismi dei gruppi sociali e la rielaborazione del
singolo, è tutt’altro che scontato e mantiene aperto un ampio margine di
discussione
16
.
16
Il delicato problema della definizione di cultura sarà ripreso discutendo la posizione di Will Kymlicka
sull’argomento; cfr. infra, pp. 65 ss, 94 ss. Solo per dare un esempio della complessità di questo tema e
delle diverse prospettive da cui lo si può considerare, si pensi alla comune equazione tra ‘cultura’ e
‘umanità’, per cui si ritiene la prima essere il tratto caratteristico della seconda. Francesco Remotti spiega
come oggi tale radicata convinzione (già propria del pensiero classico) sia inficiata da significative
ricerche etologiche che testimoniano forme di cultura (tradizioni e costumi socialmente appresi) rinvenute
in diverse specie animali (tra alcuni primati, ma anche tra volatili e testuggini). Ciò indica che “la cultura,
come possibilità zoologica, ha preceduto e non seguito l’origine e la storia dell’uomo”, e può essere
definita come una “dimensione del comportamento animale non determinata geneticamente” (cfr. Remotti
F., Natura e cultura, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma
1996, vol. VI, pp. 151-166; p. 155). Si tratta di un campo di indagine che non interessa al presente lavoro,