5
tradizioni ancora vive, sagre, feste, balli, confusione. O, viceversa, zone
silenziose, disabitate, quasi magiche. Luoghi sacri immersi nel verde, lontani
da tutto e tutti. All’opposto, le città industriali e i porti di mare, a prima vista
per niente belli. Ma se lo sguardo va un po’ in profondità, c’è tutto un mondo
da scoprire: usanze, modi di vivere, costumi spesso imprevedibili. Perché è
anche questo che rende la Toscana terra da scoprire: i diversi dialetti, le
opposte usanze, visioni della vita, credenze dissimili ma legate da un filo
comune che si perde nei tempi dei tempi. Sono le numerose Toscane dei suoi
abitanti: tanti “popoli” diversi che i Medici riunirono sotto un’unica terra. Con il
risultato di avere ancora oggi un forte legame con la propria piccola comunità,
prima che con la regione: chi è di Pisa o di Firenze è innanzitutto pisano o
fiorentino, innanzi che toscano, per esempio.
In un contesto odierno di globalizzazione, il legame con la propria terra si fa
più sentito, l’appartenenza ad una ristretta comunità dona non solo sicurezza,
ma permette anche di crearsi un’identità ben precisa. E se l’identità di un
Paese e dei suoi abitanti dipende dalla capacità di comunicarla
3
, come scrive
Giovanni Bechelloni in Diventare italiani, diventa cruciale il ruolo del cinema nel
comunicare l’identità toscana (o pisana, fiorentina, senese…).
Toscane, quindi, come diverse sfaccettature di una stessa Toscana. Al cinema il
difficile compito di comunicarle. Di donare allo spettatore, bene o male si
vedrà, delle visioni della regione.
La prima delle quali è una Toscana dell’arte. Il territorio è pieno di arte,
trasuda arte, dipinti, statue, costruzioni tutte da ammirare. E se questa è
sinonimo e metafora di vita, come poterla trascurare in qualsiasi pellicola che
vuol celebrare l’esistenza?
Alla Toscana dell’arte si ispirava Pasolini, tra l’arte volavano i protagonisti de Il
paziente inglese, nell’arte si immergeva lo scrittore esule di Nostalghia.
Arte come vita, ma anche come amore. E vi sono le Toscane che ti fanno
innamorare, quelle cittadine di Camera con vista o quelle campagnole di Io
ballo da sola. Quelle che ti fanno stare sveglio notti intere ne Le notti bianche,
che ti fanno impazzire come Caruso Paskoski e che ti portano alla morte ne La
3
Giovanni Bechelloni, Diventare italiani, Ipermedium libri, Napoli, 2001, pag. 14.
6
Viaccia. L’amore spesso sfocia in follia e ci si ritrova a rincorrere un fantasma
per le strade di Firenze, in preda a una Obsession. E’ la Toscana che ti rende
pazzo, come fosse il respirare il passato crude e sanguinario che ha. Le regioni
degli omicidi, buie e porporee, de Il Conte Ugolino e di Hannibal. E quelle di
streghe e di magie che ancora oggi esistono di Gostanza da Libbiano e delle
tante donne di paese. Erbe, boschi, riti e preghiere, persino Puck, Oberon e
compagnia si sono trasferiti in Toscana, per incantare con A midsummer
night’s dream in San Giminiano. Dalle magie alle favole il salto è breve. Le
Toscane ti fanno sognare, con le loro tradizioni orali di storie e storielle, di
bruscelli e maggi, di Pinocchio e Pia de’ Tolomei, ma anche Molto rumore per
nulla o Il trionfo dell’amore, che dalla Toscana riprendono atmosfere ancora
vive e morte altrove.
Ma è anche una terra fatta di dolore, dramma, lacrime e urla, è quella de Il
prato, quella di Incompreso o quella de Il sorpasso, un grido mancato verso
una Toscana che spesso si fa assassina.
All’opposto, vi sono Toscane leggere come una giornata di sole, riprese in
Under the tuscan sun, scusatemi il gioco di parole, e ne Il ciclone. Di famiglie
numerose e apparentemente serene, sotto sotto piene di gelosie e malizie,
vedi Benvenuti in casa Gori e Baci e abbracci.
Ma le Toscane più simpatiche sono quelle che ridono anche di Dio, che non
prendono sul serio niente, che sminuirebbero anche la creazione dell’universo.
Sono le terre di Mario Monicelli e di Roberto Benigni, degli attori Massimo
Ceccherini e Carlo Monni. E’ una predisposizione tutta toscana, un mettersi
davanti alla vita e sfidarla (per poi darsela a gambe sul più bello…!). Un gioco
di prese in giro che nasconde una sottile amarezza, il pianeta di Alessandro
Benvenuti, lo sguardo di Athina Cenci. La Toscana contadina, quella di
Berlinguer ti voglio bene, ignorante, che maneggia la terra e bestemmia chi sta
lassù, in uno sforzo di toccare entrambi gli estremi dell’universo.
All’opposto, la Toscana industriale, la Prato di Madonna che silenzio c’è stasera.
O la Livorno di Ovosodo, città di porto, che sempre ironica è, ma in maniera
più pulita, con una spiccata arte di arrangiarsi che è caratteristica di un po’
tutta la terra di Dante.
7
Arte, religione, amore, passioni, magia, follia, sangue, lacrime e urli, sorrisi,
ironia, risate fragorose, sentimenti opposti e all’estremo…. son queste le
Toscane e la Toscana… ed è questa, a ben guardare, la vita.
Nelle pagine che seguiranno cercherò di tracciare un percorso di quello che è la
terra degli etruschi per il cinema e che visione ne viene donata allo spettatore.
Cosa la Toscana ha fatto per il cinema e cosa il cinema ha fatto per la Toscana.
Nel primo capitolo analizzerò alcuni tra i registi originari della regione che
maggiormente hanno contribuito a tracciare dei lineamenti di toscanità. Nel
secondo, vedrò cosa è la regione per alcuni registi italiani. E come è vista la
Toscana con l’occhio di registi stranieri, nel terzo capitolo. Mi soffermerò,
infine, nel quarto capitolo, sul legame tra letteratura e cinema nel territorio,
culla di opere note in tutta Italia e nel mondo, come La Divina Commedia,
Pinocchio, Decamerone, ma anche La ragazza di Bube e Metello.
8
Capitolo Primo
LA TOSCANA VISTA DA REGISTI TOSCANI
1.1 C’era una volta…. 28 Dicembre 1895. Il cinema in Toscana
Paris, Boulevard des Capucines, Salon Indien… Louis e Antoine Lumiére
presentarono ad un pubblico scettico il primo film della storia del cinema.
Costo per la visione: un franco. A dire il vero i film erano ben dodici, tutti della
durata di pochi minuti, il primo dei quali fu La sortie des usines Lumière, una
breve ripresa con camera fissa degli operai della Lumière che escono dalla
fabbrica al termine della giornata lavorativa.
La morte cessò di essere assoluta, si disse all’epoca, per spiegare tutta la
meraviglia di poter di dare vita ad immagini altrimenti immobili, di
immortalare per sempre, in teoria, gesta, azioni e persone tutt’altro che
immortali.
Il cinema iniziò il suo grande essor: Russia, Stati Uniti… tutto il mondo plaudiva
quella grande invenzione.
Le proiezioni Lumiére giunsero anche in Toscana, a Livorno, il 30 giugno 1896,
presso il baraccone dell’Eden-Montagne Russe. La città, che rappresentava una
sorta di “porta” della Toscana al mondo, rimase allibita di fronte a sì tanto
spettacolo.
La rivale Pisa vide il suo primo spettacolo il 24 gennaio 1897, presso il Regio
Teatro Ernesto Rossi.
Pochi giorni dopo, il 28 gennaio 1897, l’invenzione dei Lumiére giunse anche a
Firenze, in una sala di Palazzo Pitti, durante l’annuale Festa delle Arti e dei
Fiori.
Sulla scia del grande successo della serata, un impiegato del Catasto
Fiorentino, Filoteo Albertini, ottenne il permesso di istituire in pianta stabile un
cinematografo-Lumiére a Firenze, in Piazza Vittorio Emanuele, oggi Piazza della
Repubblica. Era il 1899 e nasceva il primo esercente toscano di cinema. Per la
9
cronaca, Filoteo inventò il Kinetografo Albertini, che riprendeva, stampava e
proiettava le immagini. Per un soffio, soffio burocratico a dire il vero, arrivò
secondo ai fratelli Lumiére.
Nacquero successivamente a Firenze vari concorrenti del geniale inventore
Albertini: la Sala, Cinema, Edison
4
.
E, dai primi del Novecento, in tutta la Toscana sorsero numerosi i
cinematografi.
E sorsero anche le case di produzione. La prima nacque a Pisa, nel 1908, con il
nome di Fabbrica Italiana di Pellicole Parlate. Grazie all’isosincronizzatore,
invenzione del pisano Pietro Pietrini, si dava l’impressione che la pellicola fosse
parlata. Ma l’innovazione non bastò a mantenere in vita la società, che nel
1919 chiuse, dopo aver prodotto qualche cortometraggio di canzoni e brani
d’opera.
Sempre nel 1908 sorse a Firenze la IREOS, che produsse nell’anno successivo
una quindicina di film dagli strabilianti titoli: comici, come Il Bacillo
Interrogativo (1909), drammatici, come Il Pugnale della Zingara o Veronica
Cybo
5
(1909) e documentari, come Un Concorso di Bellezza nel Comune di
Magnacavallo (1909) e Lo Scoppio del Carro a Firenze (1909). Dopodiché
chiuse, nel 1910. Gli impianti furono rilevati dall’attore teatrale di Fucecchio
Alfredo Robert, che creò l’Azienda Robert. L’anno successivo, l’attore si trasferì
a Roma e la società divenne la Firenze Film, di Riccardo Nobili, che poco però
diede al mondo del cinema.
Nel frattempo, a Firenze, già dagli anni Dieci era nata la Casa Cinematografica
Montalbano, dal fondatore il conte Giovanni Montalbano, particolarmente attiva
nell’immediato primo dopoguerra. Nel 1920 la casa cinematografica si
trasformò in VIS, Visioni Italiane Storiche, con lo scopo primo di produrre film
storici, in un contesto cinematografico italiano decadente. L’unica via di ripresa
sembrava essere quella di girare pellicole spettacolari e storiche, in costume,
dei grandi polpettoni medioevali piuttosto che romani o di guerra. La Vis in
gran parte puntava sulle celebrazioni del sesto centenario della morte di Dante
4
Il cinema Edison esiste ancora oggi, in Piazza della Repubblica, prima chiamata Piazza
Vittorio Emanuele, a Firenze. Al suo fianco c’è la famosa libreria Edison.
5
Il fantasma di Veronica si dice che aleggi ancora per Villa Serristori a Figline Valdarno (Fi),
dove la donna visse gli ultimi anni della sua vita, nel Cinquecento.
10
Alighieri, avendo avuto l’esclusiva per produrre un film colossale. Per costruire
lo stabilimento cinematografico, nel 1921 furono acquistati terreni dalla Vis a
Rifredi, tra Firenze e Sesto Fiorentino e lì sorsero, per mano del conte, gli
Stabilimenti Cinematografici di Rifredi, in via delle Panche 60. Doveva essere la
culla del colossal per il sommo poeta. Furono spesi fiori di soldi, fu ricostruita
in studio mezza Firenze dai migliori artigiani locali. Il film, che fu intitolato
Dante nella vita e nei tempi suoi, fu diretto da Domenico Gaido. Ma già prima
della sua uscita nelle sale, la Vis era già stata messa in liquidazione al
Tribunale di Firenze. Le celebrazioni di Dante furono un disastro e il colossal,
uscito anni dopo, lo fu ancora di più.
A dare un nuovo guizzo di splendore agli stabilimenti di Rifredi furono gli
americani. Infatti, qui vi fu girato Romola
6
, nel 1924, da Henry King.
Protagonista, l’icona Lilian Gish, nel ruolo di Romola de’ Bardi. Fu ricostruita
all’interno degli stabilimenti una Firenze quattrocentesca, teatro delle lotte tra
Savonarola e i Medici, tra i Piagnoni e i Palleschi.
Gli stabilimenti furono acquistati nel 1926 da un gruppo di intellettuali e artisti,
i quali fondarono l’ICSA (Imprese Cinematografiche s.a.). Un altro centenario
da celebrare li aspettava: quello di San Francesco d’Assisi. Il film che lo ricordò
fu Frate Francesco, uscito nel 1927 e presentato anche a Parigi e Londra. La
critica, tuttavia, non fu molto soddisfatta, giudicando la pellicola alquanto
noiosa.
Successivamente a Rifredi si fece strada la SACRAS (Società Anonima
Cinematografie Religiose Artistiche Sonore), che produsse il film Antonio di
Padova (1930), con l’appoggio finanziario nientemeno che del Vaticano, del re
Vittorio Emanuele e di Mussolini. Il fiasco fu indubbio. Fu ugualmente tentata la
via della produzione di film prevalentemente su santi e mistici, sulla scia del
motto della società Servite Domino in laetitia. Ma la fine giunse rapida e nel
1937 gli studio di Rifredi chiusero definitivamente (mentre a Roma nascevano
gli studi di Cinecittà).
Nel frattempo, nel 1916 era nata a Pistoia la Pistoia Film, che però produsse
una sola pellicola, L’Amore Trionfò (1917). Al Centro Sperimentale di
6
Romola era tratto da un romanzo della scrittrice inglese Gorge Eliot e narra le vicende di
Romola de’Bardi, nella Firenze del Quattrocento.
11
Cinematografia di Roma vi sono due bobine finali del film, ma l’intera trama
non è stata possibile ricostruirla. Così come nulla si sa del regista e degli attori.
A Firenze vi era un’altra figura di produttore, anzi produttrice: Daisy Silvan, a
capo della Daisy Film, via Filippo Strozzi 1, costituita nel 1919. La bella e
coraggiosa ragazza era sia attrice che regista dei film. Di questi sappiamo solo
che il primo fu Bolscevismo??!! (1919), pellicola cruda, con donne violentate
ed esecuzioni brutali, che suscitò aspre polemiche. L’ultimo, e forse il secondo,
fu Sovrana
7
(1923), di poco eco e non brutale. La figura di Daisy rimane
tuttavia avvolta nel mistero e poco si sa di lei, se non che fosse molto molto
bella.
Siamo nel 1934 e a Tirrenia prende vita la Pisorno. Nome già di per sé ironico,
quale fusione letterale di Pisa e Livorno: il diavolo e l’acqua santa, per
intenderci.
Padre della nuova società era tale Giovacchino Forzano, classe 1883, Borgo
San Lorenzo, Mugello. Si narra di lui come di un personaggio dalle mille
sfaccettature, dai mille mestieri e da mille interessi: la medicina, la legge, la
musica, il teatro, la scrittura e il cinema. Grande amico della famiglia Agnelli,
ma anche di Benito Mussolini, con la Pisorno realizzò, produsse e distribui’ film
di ogni genere (settantasei tra il 1934 e il 1943).
Caduto il regime fascista e finita la guerra, la Pisorno cessò le attività fino al
1951, quando le riprese con film come Enrico Caruso: la leggenda di una voce
(1951, Giacomo Gentilomo), con Gina Lollobrigida e Imbarco a Mezzanotte di
Joseph Losey (1951), per poi fallire nel 1959. E divenire due anni dopo la
Cosmopolitan Film, di Carlo Ponti e Maleno Malenotti. Qui videro la luce film di
De Sica, I Sequestrati di Altona
8
(1962), con Sofia Loren, Cyrano e D’Artagnan
(1963) di Abel Gance e altre produzioni internazionali con artisti noti. Poi fu
tutta una discesa: Malenotti fuggì e la RAI, alla quale era stato chiesto aiuto,
non rispose. L’ultimo film fu girato da Mauro Bolognini, nel 1969, il regista de
La Viaccia, che qui firmò L’Assoluto Naturale.
Infine, un sogno mai diventato realtà: gli stabilimenti cinematografici di
Sant’Angelo in Lecore, a Campi Bisenzio, tra Firenze e Prato. Il fiorentino
7
Sovrana era tratto dalla piéce teatrale “Suzeraine” di Dario Niccodemi.
8
I sequestrati di Altona era tratto da un dramma di Jean Paul Sartre.
12
Alfonso Pagliai, negli anni del fascismo, progettò la costruzione di un grandioso
e moderno complesso cinematografico, che avrebbe portato lavoro e sfarzo alla
toscana e all’Italia tutta, su disegno dell’architetto Italo Gamberini. Già nel
1953 il progetto naufragò e il sogno di una Firenze al centro di un mondo in
celluloide si frantumò: nessuno vi credeva abbastanza
9
.
1.2 Gli amici di Mario Monicelli
Iniziamo da uno dei cineasti toscani più conosciuti al mondo. Si tratta del
regista di cinque classici maledetti (e benedetti) toscani, in giro per una
Firenze ormai quasi dimenticata. Facile indovinare il nome: Mario Monicelli. Il
film è ovviamente Amici Miei, girato nel 1975. In realtà l’idea fu di Pietro
Germi, che ormai gravemente malato decise di fidarsi dell’amico Monicelli. E
fece bene.
Nato a Viareggio, o forse no
10
, nel 1915, Mario Monicelli è regista
cinematografico, ma anche teatrale e televisivo, commediografo,
occasionalmente attore e sceneggiatore della maggior parte delle sue storie e
di molte di altri registi.
Con I soliti ignoti
11
(1958), segnò l’inizio della commedia all’italiana, risate e
tristezza, e presentò un Vittorio Gassman in vesti insolitamente comiche. Ma fu
con La grande guerra
12
(1959) che il mondo lo acclamò con un Leone d’Oro a
Venezia e nomination all’Oscar. Anche I compagni
13
(1963) gli valsero delle
nomination a Hollywood e L’armata Brancaleone
14
(1965) vinse numerosi
premi prestigiosi. Impossibile rammentare tutti i lavori di Monicelli, qui ve ne è
9
A questo proposito si vedano i libri di: -Stefano Beccastrini, Vista Nova, Il cinema in Toscana
la Toscana nel cinema, ed. Aska, 2002; -La Toscana e il cinema, volume a cura di Luca
Giannelli, ed. Fenice le Monnier, Firenze, 1994, edito grazie alla Banca Toscana in occasione
del centenario della nascita del cinema.
10
Sul luogo di nascita di Monicelli c’è un dubbio: alcuni autori sostengono che sia nato a
Viareggio, altri che, invece, sia nato a Roma ma si sia trasferito in Toscana subito dopo.
11
Commedia che narra le avventure di un gruppo di ladri “impacciati” e per questo divertenti.
Oltre a Vittorio Gassman, tra gli altri, vi recitavano Marcello Mastroianni e Totò.
12
Il romano Oreste Jacovacci e il milanese Giovanni Busacca si incontrano/scontrano durante
la chiamata alle armi della Prima Guerra Mondiale.
13
Film sul movimento operaio e socialista nella Torino di fine Ottocento, con protagonista
Marcello Mastroianni.
14
Epopea comica di un cavaliere medioevale con Vittorio Gassman e Folco Lulli.
13
solo una piccola parte. Ha lavorato con i più grandi artisti italiani: Totò, Vittorio
Gassman, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Peppino de Filippo, Anna Magnani,
Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Ugo Tognazzi, Giuliana de Sio… E
scritto con sceneggiatori come Suso Cecchi d’Amico, Tonino Guerra, Steno,
Ennio Flajano…
La carriera di Monicelli decollò non in Toscana, bensì chiaramente a Roma. E
nelle sue pellicole vi era tutta l’Italia. Ma con Amici miei, e il successivo Amici
miei atto ΙΙ, il regista apre una nuova strada, da molti poi battuta, quella della
comicità toscana sul grande schermo.
Amici miei è la storia di una “banda”, così tipicamente fiorentina, che scherza
“coi’ foco”. Cinque amici che vagano per Firenze burlandosi del mondo: Ugo
Tognazzi, Adolfo Celi, Philippe Noiret
15
, Duilio del Prete e Gastone Moschin.
Il giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret) è il narratore delle vicende del
gruppo. Separato dalla moglie, vive in un appartamento che, a giorni alterni,
condivide con il figlio, serio e composto professore. Una mattina, dopo una
notte di lavoro in redazione, il Perozzi non ha voglia di tornare a casa da solo e
si mette in cerca degli amici. Dopo un giro in macchina in piazza Santa Croce,
il primo che trova è l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), a
passeggio per una Firenze fresca e mattutina con il grande cane Birillo.
Insieme vanno a bussare alla finestra di Nello Mascetti (Ugo Tognazzi), conte
dimesso costretto a vivere con la famiglia in uno scantinato minuscolo. L’ultimo
da prendere rimane il barista Guido Necchi (Duilio del Prete). Poi i quattro,
vecchi compagni di scuola e di militare con l’abitudine tutta toscana di
chiamarsi per cognome, possono partire per una loro consueta zingarata. Il
termine significa, in gergo fiorentino, una fuga fuori dagli schemi (gli zingari
vivono in maniera del tutto diversa e alternativa alla nostra), ma anche una
burla, una goliardia, la capacità di raggirare e truffare (la visione stereotipata
degli zingari è quella che li vede ladri e truffatori) con uno scherzo furbo e
fantasioso. Ancora: lo scappare dalla quotidianità per stare tutto il giorno a
bighellonare, a non fare niente che richieda sforzi, come il lavoro, “una
15
Philippe Noiret è stato il protagonista dell’edizione 2006 di France Cinéma, che si è svolta a
Firenze dal 30 ottobre al 5 novembre. A lui è stata dedicata una retrospettiva e vari incontri
con registi che lo hanno diretto, come Mario Monicelli e Ettore Scola. L’attore è morto, all’età di
76 anni, il 23 novembre 2006.
14
partenza senza mete e senza scopi e senza tempo” come la definiscono i
quattro zingari. Una volta la zingarata durò addirittura una settimana e gli
amici finirono all’ ospedale, a Pescia, curati da suore costrette a subire le loro
canzoni e i loro scherzi. Il Melandri qui si innamora della moglie del dottore
psichiatra, Prof. Sassaroli (Adolfo Celi), il “grullaio” come lo chiamano loro e
riuscirà ad avere una relazione con lei. Dopo essere stati dimessi dall’ospedale,
i quattro esagerano i postumi dell’incidente per risolvere piccoli problemi: il
Perozzi si finge gobbo per mandare definitivamente via di casa la moglie, ma
anche per trovare posto a sedere in autobus, il Necchi ha un improvviso dolore
al pollice della mano destra per non dover giocare le schedine del Totocalcio e
il Mascetti, nel mezzo del mercatino di San Lorenzo, in una giornata di pioggia,
tenta di vendere i diritti sulla sua gamba malata.
Il Melandri è in crisi con l’amante e tenta il tutto per tutto: si reca dal marito di
lei per chiederne una sorta di cessione. E l’avrà, ma con “tutto il pacchetto”:
figlie, cane, canarino e tata. Gli amici non lo rivedranno per un bel pezzo,
preferivano “ricordarselo da vivo piuttosto che da morto”. Poi, una sera di
pioggia, “la pecorella smarrita tornò all’ovile”, che altro non è che il bar del
Necchi, con la sua piccola sala da biliardo. Insieme riusciranno a liberarlo dalla
donna (che chiamano “Cippa Lippa”) e “tutto il pacchetto” e troveranno nel suo
ex marito, il dottor Sassaroli, un
nuovo compagno di zingarate.
Il gruppo così ricomposto e ampliato
va a fare il suo gioco preferito: gli
schiaffi ai passeggeri del treno in
partenza dalla stazione fiorentina
Santa Maria Novella, binario sedici.
Altro scherzo “rituale” è “la
distruzione dei paesini”. I quattro, ora in cinque, si recano in un paesetto
periferico della toscana di campagna, di quelli abitati da soli contadini, una
bottega, una stanza per giocare a carte e la chiesa ed il prete come unico
punto di riferimento. Arrivano in macchina, si fermano davanti alla chiesa,
scendono in tutta furia e fanno finta di essere tecnici venuti a prendere le
15
misure per costruire una grossa tangenziale che attraverserà il paese. Tutti i
paesani accorrono, fanno comunella stupefatti intorno ai fiorentini e anche il
prete è sconvolto. La scena è fondamentale per capire cosa era la Toscana
provinciale degli anni Settanta. Era la regione nella quale i giovani non
facevano quasi più il lavoro nei campi, se ne andavano spesso verso le città,
ma le famiglie contadine rimanevano comunque un numero elevato e la
mentalità da paese, da “bottegaia” per dirla alla Mascetti, iniziava solo da
allora a mutare. Tutto questo si può notare dalle comparse, persone anziane,
che hanno preso parte alla scena: sono tutte in giacca e cravatta, cappello e
cappotto. Hanno il vestito “bono della domenica”, quello che lasciavano da
parte per la messa domenicale, per le grandi occasioni, una festa, il Natale. O
un film nel quale fare la comparsa. Sono convinta che nessuno della troupe
avesse detto loro di vestirsi obbligatoriamente bene, ma non sarebbero mai,
assolutamente in nessun modo, andati su un set cinematografico vestiti
normalmente, qualunque fossero state le esigenze della scena.
Dopo questa ennesima burla, gli amici decidono di andare a mangiare in un
buon ristorante, ma il conte Mascetti non può permettersi di spendere soldi.
Grazie ad un flash-back scopriamo che non solo ha dilaniato il suo ingente
patrimonio, ma anche quello della moglie, interpretata da Milena Vukotic.
Indebitato e senza un soldo, Mascetti spedisce moglie e figlia nel paese di
origine della donna, albergate in una pensione. E mentre “le villeggianti” sono
lontane, lui viene ospitato a turno dagli amici, costretti a subire anche le
continue litigate con la sua amante ventenne Titti. Nello è tremendamente
orgoglioso e i compagni, con un escamotage, riusciranno ad affittargli uno
scantinato, far tornare la famiglia e preparare a tutti un lauto pranzo.
Poi arriva lo scherzo degli scherzi, il re delle beffe, che dura ben venticinque
giorni. Il malcapitato è un ometto, il Righi, interpretato da Bernard Briel. Fanno
credere al sempliciotto di far parte di una banda che traffica droga e compie
affari sporchi. Non solo: lo includono nel gruppo, inventano parole d’ordine,
finte sparatorie. Fino alla strage finale, una messinscena nella quale il dottor
Sassaroli, il boss, fingerà di morire (“Icchè si fa senza boss, icchè si fa? Si
scappa!” urlano gli altri). La buffonata continua con una finta copertina di
16
giornale, con l’identikit del Righi, costretto così a fuggire da Firenze, vestito da
frate, con il primo treno in partenza.
Dopo, gli altri iniziano ad essere stanchi, le zingarate non sempre pagano di
tutto: “Sentite ragazzi, non so voi, ma io un c’ho più voglia, sono
ventiquattr’ore che non dormo. Insomma, non mi sento più tanto zingaro!”
dice, nella solita saletta del bar, il Perozzi. E così vale per gli altri, ognuno è
affaticato e ha da pensare chi alla famiglia, chi al lavoro.
Una volta tornato a casa, il Perozzi sente improvvisamente sulle spalle tutta la
pesantezza della vita, che fino ad allora gli sembrava incredibilmente leggera.
Tutte le sensazioni che aveva sempre scacciato per non star male, per non
soffrire, gli si presentano davanti. Ed era talmente alto il prezzo da pagare per
non averle ascoltato in tutti questi anni, che il Perozzi non ne regge il peso. E si
sente male. Nella nottata arrivano gli amici, il giornalista è in punto di morte.
“Allora, levatevi da’ cogl…, che devo morire!” dice il povero Perozzi, che non
rinuncia allo scherzo neanche davanti al prete, venuto per confessarlo. E,
invece dei peccati, gli propina la supercazzola e antani, come il Mascetti
insegna. Ma la sua faccia è sofferente, gli occhi sono spenti, la voce è tremula
e dura molto fatica a parlare: la scena, grazie all’accostamento del tragico con
il comico, è tremendamente triste e pietosa. “Ma è morto davvero?” chiede la
ex moglie, ancora incerta se si tratta dell’ennesimo scherzo o della realtà. Il
film si chiude con il funerale, durante il quale arriva il Righi, la vittima del loro
più lungo scherzo, e gli amici non riescono a trattenere le risate, camuffate
furbescamente in pianti.
La sceneggiatura iniziale di Pietro Germi era stata scritta per essere
interpretata da un gruppo di amici bolognesi. Dice a tal proposito Monicelli:
“Germi…voleva girare a Bologna. Anche per via di un
superstizione secondo la quale il vernacolo toscano al cinema non
funzionava: era troppo antipatico…”.
16
Quando Germi, ormai gravemente malato, chiese a Monicelli di realizzare il
film, il regista accettò a patto di ambientare la storia a Firenze. L’intuizione fu
16
La Repubblica, 20 febbraio 2002, intervista con Mario Monicelli.
17
giusta: il cinema italiano avrebbe riscoperto la Toscana, non solo nel dialetto e
nella cultura, ma anche nel paesaggio. In Amici miei, infatti, vi sono ampie
riprese di Firenze, con la piazza Santa Croce, il mercatino di San Lorenzo, i
Lungarni, oltre che la campagna circostante. Quelle colline verdi e marroni,
quei cipressi tanto tutelati quanto particolari
17
. Monicelli aveva aperto una
strada: la comicità toscana prenderà il suo posto nel cinema e nella televisione,
con comico-autori come Roberto Benigni e Carlo Monni, attori di una toscanità
rustica di campagna, che sorpassava tutte le censure; Francesco Nuti e
Alessandro Benvenuti, surreali, ma più soft nei dialoghi e nelle azioni,
testimoni della toscanità sub-urbana; Leonardo Pieraccioni, Massimo Ceccherini
e Giorgio Panariello, che dagli anni Novanta sono diventati quasi degli idoli
nazionali
18
. Fondamentale, poi, è diventata l’idea del gruppo di amici che
interagiscono tra loro e nella società. Seguiranno infatti film come A Ovest di
Paperino, di Alessandro Benvenuti, nel quale tre amici vagano per la città dei
Medici, ma anche Benvenuti in casa Gori, dove, seppur in secondo piano, vi è
la banda di compagni poco raccomandabili di Danilo (Massimo Ceccherini). E
Roberto Benigni con Berlinguer ti voglio bene, narrazione del giovane Cioni
Mario alle prese con gli scherzi della brigata del paese. Infine Leonardo
Pieraccioni con I laureati, storia di quattro compagni di studi che, come la
banda del film di Monicelli, dura fatica a prendere sul serio la vita.
Monicelli, in Amici miei, non ha abusato del dialetto toscano, non l’ha reso
esageratamente volgare. Forse, poteva giocarci di più, tanto che, durante la
visione del film, mi sono spesso chiesta chi fosse veramente toscano e chi no
tra gli attori. In realtà nessuno dei cinque lo è. E si sente. Nel parlare, più
volte, sia Ugo Tognazzi che gli altri sembra si scordino in quale dialetto devono
discutere e le famose c “strascicate” a volte scompaiono. Il solo che parla
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Il cipresso toscano è molto presente nel paesaggio regionale, sia come pianta ornamentale,
sia per segnare i confini tra poderi. La sua bellezza, con la forma simile ad una fiamma o ad
una sentinella, è accompagnata anche da qualità benefiche: i suoi frutti contengono un olio
essenziale, utilizzato in farmacologia, ricco di sostanze attive, tra cui il tannino. Inoltre, il suo
legno è molto resistente.
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Leonardo Pieraccioni ha fatto un enorme successo in Italia con I laureati (1995) e il
successivo Il ciclone (1996), sempre con Massimo Ceccherini al suo fianco. Il loro collega e
amico Giorgio Panariello è diventato uno dei comici più apprezzati dopo i vari show del sabato
sera sulla Rai, nei quali rappresentava tutti i suoi più riusciti personaggi teatrali.