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producibilità algoritmica (cfr. Capucci 1993, Fagone 1990, R. Berger 1993,
Maldonado 1998, Costa 1990). Per non parlare dei risvolti politico-istituzionali e
socio-economici che la conversione nel paradigma digitale degli impianti di
trasmissione e di ricezione ha già originato nell’ambito delle strategie di
globalizzazione delle conglomerate mulimediali e dei riassetti legislativi cui ogni
organismo nazionale deve procedere, ulteriore nodo problematico che ha dato luogo
ad una fioritura di studi giuridici, economici e sociologici in proposito ( per una
rassegna delle tematiche in proposito cfr. Ambrogetti 1998). La crucialità del
paradigma digitale viene quindi ribadita da ogni approccio disciplinare, così come la
comprensione del mutamento storico insito nel passaggio dall’analogico al digitale
diviene questione ineludibile per lo studioso dei processi comunicativi. Il carattere
epocale di tale svolta è segnalato da numerosi autori: Abruzzese ribadisce la
centralità dei new media interattivi nel passaggio dalle dinamiche massificanti e
omologanti sperimentate dai media unidirezionali classici (Stampa, Radio,
Televisione) alle logiche di demassificazione e personalizzazione dei tragitti
comunicativi attraverso i quali l’individuo costruisce la propria identità sociale ed
acquisisce ruoli e posizioni all’interno di un sistema di relazioni simboliche sempre
più fluide e sempre meno vincolate dalle tradizionali determinanti del
comportamento sociale e dalle loro rispettive e tramontanti agenzie di
socializzazione (cfr. anche l’analisi di Meyrowits 1985 sull’impatto dei media
elettronici sui ruoli gerarchici, di affiliazione e di status): i codici culturali che
governano le interazioni tra individui e gruppi sociali entrano in una fase di
rinegoziazione perpetua; questa sorta di utopico e perenne statu nascenti delle
relazioni sociali e del patrimonio cognitivo collettivamente condiviso e costruito,
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sempre aperto a rimodellizzazioni che ne impediscono una rigida cristallizzazione,
viene salutato da Levy come la garanzia del recupero di tutte quelle qualità umane
dei singoli individui che non trovano spazio e riconoscimento sociale all’interno
delle logiche monolitiche e massificanti che hanno caratterizzato i precedenti
ambienti tecnoculturali. Levy concentra inoltre la propria attenzione sulle
potenzialità democratizzanti implicite nell’apertura del nuovo spazio antropologico
del virtuale: la disponibilità di agorà e forum permanenti di discussione su ogni più
minuto problema della convivenza civile permette un accesso chirurgico al tessuto
sociale, eliminando i tipici problemi di fine tuning, di raccordo tra le prassi
decisionali ed il verificarsi dei loro effetti, che hanno caratterizzato la gestione
politica di ambienti sociocomunicativi dominati da tecnologie molari; la posta in
gioco insita nell’avvento delle tecnologie molecolari è nientemeno che il passaggio
da una democrazia rappresentativa ad una democrazia diretta. Naturalmente vi è
anche chi è meno ottimista rispetto all’attuazione delle nuove potenzialità e lancia un
monito di preoccupazione intorno alla potenziale traumaticità delle nuove tecnologie
e delle nuove modalità di formazione, di stoccaggio e di socializzazione del sapere
che si innestano su un organismo sociale che forse non è ancora adeguato a recepirne
il valore e a trasformare la dimensione ipertrofica dell’informazione in un tessuto
sociale abitabile e praticabile: è il caso di chi come Berardi, pur condividendo le
speranze futuribili di Levy, si intrattiene sulla discrasia tra il nuovo ambiente
infosferico che emette segni e messaggi informatizzati e l’organismo sociale che li
recepisce senza saper dare una valutazione sul senso di tali segni difficilmente
disambiguabili: le possibilità di maggiore chiarezza si risolvono in un aumento del
caos e del rumore informativo, sottraendo spessore alle nostre esperienze cognitive.
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La tematica della perdita del senso in relazione ai processi di deterritorializzazione
messi in atto dai mass media è peraltro già ben radicata all’interno della riflessione
mediologica, in autori come Buadrillard e Virilio i quali prendono come oggetto
privilegiato delle loro speculazioni il freudiano dio delle protesi nelle sue mutate
condizioni di cognizione del mondo fisico e sociale, vale a dire il soggetto moderno
nella dimensione ridefinita dai processi di artificializzazione dell’esperienza,
dall’estensione delle sue facoltà cognitive (McLuhan), dall’automatizzazione delle
sue percezioni ereditando quello sguardo apocalittico di quei teorici come Adorno e
Horkheimer o Ortega y Gasset che, dalla loro postazione elitaria, avevano già
analizzato l’industria culturale sulla soglia della sua maturità sistemica, decretando la
negatività del processo storico che ne aveva generato le funzioni. Se si è voluto
richiamare in questa sede l’antecedente storico-culturale della Scuola di Francoforte
le cui analisi sembrano aver apparentemente poco a che fare con la questione dei
linguaggi digitali è per una molteplicità di motivi che cerchiamo di elencare
brevemente: anzitutto le teorizzazioni francofortesi si situano sulla soglia del
mutamento storico che segna la fase di ristrutturazione, integrazione e saldatura
dell’industria culturale col sistema sociale complessivo e con la sua
planetarizzazione (cfr. le analisi di Abruzzese 1973, Abruzzese 1995, Abruzzese
1997 sulla crucialità degli anni Trenta per il sistema dei media) un periodo storico le
cui estreme propaggini vengono vissute ancora oggi e trovano un punto di svolta
proprio nell’avvento dei linguaggi informatici; inoltre la Scuola di Francoforte
presenta un carattere paradigmatico ed emblematico per ciò che riguarda gli
atteggiamenti neoluddistici di condanna e demonizzazione delle nuove tecnologie e
dei linguaggi mediatici (cfr. Capucci e la sua stigmatizzazione della figura sociale
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dell’intellettuale regressivo, timoroso di perdere il suo ruolo di nocchiero culturale,
od anche le polemiche di Abruzzese, disseminate nei suoi scritti, contro le tradizioni
intellettuali che rifiutano aprioristicamente di prendere in considerazione le valenze
socioculturali e financo politiche dei linguaggi mediali). Si può anzi affermare che
l’intero processo storico del divenire-mondo della comunicazione globale (Mattelart,
Flichy) sia stato analizzato ad ogni punto di svolta, ad ogni scatto tecnologico che
comportasse un mutamento qualitativo rilevante nei regimi comunicativi, nei termini
o di una entusiastica fiducia nelle nuove prospettive di democratizzazione sociali,
culturali e politiche, oppure alternativamente e sotto un segno diametralmente
opposto, nei termini di una sconsolata condanna dell’imbarbarimento del gusto e
della cultura, della volgarizzazione dell’arte, dell’alienazione e dell’eterodirezione
che le funzioni e le pratiche dei moderni mezzi di comunicazione di massa
comportavano (cfr. Eco 1965, Statera 1990 per una esauriente rassegna delle più
significative posizioni teoriche al proposito). Sottolineare la continuità e la ciclicità
nel riproporsi di talune assunzioni teoriche di fondo è quindi importante per non
enfatizzare eccessivamente, sia all’interno dei dibattiti che delle concrete pratiche
comunicative cui le innovazioni danno luogo, le fratture e le discontinuità che le
nuove modalità tecniche di produzione delle immagini e dei messaggi sicuramente
comportano, ma le cui funzioni socioculturali trovano certamente antecedenti
significativi in pratiche simbolico-comunicative apparentemente molto dissimili o
storicamente dislocate rispetto all’attualità (e la scelta dell’argomento specifico della
tesi, il passaggio dalla riproduzione analogico-fotografica dell’immagine al
trattamento digitale della stessa, vuole anche essere un banco di prova per valutare il
carattere effettivamente rivoluzionario delle nuove procedure o, alternativamente, di
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compimento di una lenta germinazione insita nello stesso medium fotografico; e la
scelta della Fotografia è sembrata ottimale per i motivi di cui diremo tra breve).
Questa breve ed assolutamente non esaustiva disamina di alcune delle questioni
epistemologiche e delle dinamiche sociologiche innescate dal mutamento
paradigmatico della digitalizzazione voleva avere la mera funzione di suggerire la
complessità eterogenea delle problematiche ad esso inerenti ed è proprio la
consapevolezza di non poter fornire un resoconto minimamente ragionevole intorno
alla globalità delle suddette trasformazioni che ha orientato la scelta dell’argomento
di tesi verso un segmento più limitato che fornisse non soltanto maggiori garanzie di
controllabilità metodologica ma anche, e soprattutto, presentasse una rilevanza
teorica ed una pertinenza simbolica che sono state individuate nel nuovo statuto delle
immagini sintetiche in relazione al tradizionale statuto analogico del messaggio
fotografico. Cercando ora di argomentarne le motivazioni in linea del tutto generale,
possiamo anzitutto dire che i regimi della rappresentazione iconica sono sempre stati
uno dei principali codici culturali attraverso i quali l’umanità ha espresso i propri
valori, le proprie mitologie ed i principi che rendono possibile la convivenza sociale:
dalle pitture rupestri con i loro connessi valori mitico-religiosi e rituali, passando per
i moniti lanciati ai fedeli dagli affreschi delle cattedrali gotiche o per
l’organizzazione armonica degli spazi della pittura rinascimentale (espressione della
fiducia nelle capacità ordinatrici della razionalità umana; sul ruolo simbolico della
prospettiva geometrica cfr. Gombrich 1965, Panofsky 1967), fino ad arrivare alle
fantasmatiche immagini cinematografiche ed alla loro capacità di spaziare una nuova
dimensione dell’esperienza, quella dell’inconscio tecnologico (Benjamin, Vaccari),
per non parlare degli ipertrofici flussi delle immagini elettroniche televisive (sul cui
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ruolo le analisi certamente più stimolanti, ancorché discusse, sono state svolte da
McLuhan), lo statuto dell’immagine ha sempre mantenuto una centralità nell’
organizzazione simbolica delle mutevoli relazioni sociali, dando senso e visibilità ai
valori dai quali venivano ispirate; e forse ancor più fondamentali sono state le
funzioni socioantropologiche svolte dall’immagine se è vero, come sostiene Debray,
che le incisioni, le immagini, le effigi sono state le prime pratiche di
metabolizzazione della morte, attraverso le quali l’uomo ha reso sopportabile il
carattere transeunte della sua esistenza (sulle magistrali analisi dell’autore appena
citato avremo modo di tornare spesso e più in profondità). Ebbene, analizzare i
mutamenti nella struttura del messaggio fotografico classico, linguaggio archetipico
della riproducibilità tecnica visiva del Reale, sulle soglie delle sue trasformazioni in
ambito digitale vuol dire quindi tentare di descrivere le nuove significazioni, le
nuove procedure di costruzione del senso inaugurate dalle odierne modalità di
produzione tecnica dell’immagine, nonché tentare di mostrare come le antiche
questioni si traducano nei nuovi ambienti della rappresentazione. Quindi,
riassumendo dal punto di vista metodologico i progressivi spostamenti concettuali
che hanno permesso di focalizzare il nostro oggetto d’indagine, siamo passati dalla
problematica generale del passaggio dall’analogico al digitale a quella più
circoscritta della centralità dei linguaggi della comunicazione visiva e dei regimi
della rappresentazione iconica (problematica che, come si crede di aver suggerito
anche dalla brevissima e incompleta panoramica storica svolta poco sopra, è ancora
troppo vasta ed una trattazione della quale esula ovviamente dalle nostre
competenze): da qui si è allora scelto di concentrare la propria attenzione sul medium
fotografico e le sue rappresentazioni, e le modificazioni da esso subite in ambito
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digitale. Tuttavia si ritiene di dover porre un’ulteriore e fondamentale restrizione
metodologica per poter definire un campo d’analisi praticabile in proposito: in tal
senso segnaliamo come l’argomento centrale della tesi (il passaggio dal messaggio
fotografico tradizionale e analogico all’immagine fotografica digitalizzata) e la
conseguente organizzazione di un diverso spazio semiotico con peculiari modalità di
significazione (cfr. Stiegler 1998, Debray 1998) che preludono a nuovi processi di
attribuzione di senso alle immagini, prevede l’esclusione dalla trattazione della pura
immagine di sintesi, generata dalla producibilità algoritmica autoreferenziale della
simulazione informatica: prendere in considerazione i processi morfogenetici che
danno luogo a immagini completamente prive di referenti, derivanti dalla perfezione
computazionale dei modelli matematici, per quanto questione interessantissima,
aumenterebbe a dismisura le implicazioni da affrontare, vista la varietà e complessità
delle procedure suddette (per la stesura di un agenda in tal senso, che va dalla
produzione estetica e dalla speculazione filosofica fino alla ricerca scientifica, cfr.
Capucci 1993). Naturalmente, ciò non vuol dire che alcune di tali tematiche non
troveranno spazio nell’ analisi, ma ciò avverrà solo in funzione degli obiettivi
cognitivi della tesi: d’altronde si mostrerà come la semplice inserzione di elementi
minimali, i pixel (per i quali Walter Bruno ha coniato l’efficace neologismo di
iconemi, in analogia con i fonemi dei linguisti), all’interno della trama analogica e
continua di immagini precedentemente registrate con le tradizionali procedure
chimico-ottiche comporti una complessificazione del nuovo spazio semiotico di
rappresentazione e delle sue valenze socioculturali tale da giustificare la restrizione
dell’oggetto di studio a questa area tematica. Dopo aver cercato di delineare nella
maniera più precisa possibile il nostro campo d’indagine attraverso progressivi
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avvicinamenti concentrici al nucleo del nostro tema, cerchiamo ora di spiegare per
quali motivi la scelta del medium fotografico e delle sue odierne evoluzioni è
sembrata ottimale rispetto ad altre modalità di produzione tecnica dell’immagine e
dei loro corrispettivi spazi semiotici quali quelli del Cinema e della Televisione (che
troveranno comunque spazio all’ interno di un confronto strutturale tra i vari statuti
della rappresentazione). Abruzzese, in un fondamentale lavoro di ricognizione
storico-culturale delle forme e delle pratiche sociali e antropologiche apparentemente
anche molto distanti fra loro che sono poi confluite nel polimorfico dispositivo
tecnologico della Televisione, annovera il linguaggio fotografico tra le dinamiche
prototelevisive a pieno titolo: nuova modalità di spazializzazione del tempo (Focault,
Harvey), la Fotografia all’epoca del suo avvento e oltre ha permesso di sperimentare
una diversa capacità di cognizione e di rappresentazione dell’ambiente, degli eventi,
delle figure sociali e dei rituali a tutto ciò connessi che la Televisione avrebbe poi
ereditato insieme alle numerose altre pratiche di cui si diceva: sottolineare le
contiguità e i rapporti di filiazione tra i vari mezzi di comunicazione di massa (e tra
le funzioni che svolgono) ovviamente non vuol dire procedere a una indebita
omologazione strutturale dei linguaggi mediatici, ma serve semplicemente a ribadire
la dimensione storica delle forme di comunicazione che troppo spesso vengono
concepite come fratture radicali o eventi privi di storia, quando invece raccolgono e
rielaborano (ovviamente modificandolo) un patrimonio culturale preesistente: questo
sottile filo rosso che unisce le modalità di rappresentazione e di comunicazione
sperimentate dall’Occidente in maniera sempre più intensiva si spinge oggi fino a
ricomprendere i linguaggi postmoderni dell’interattività, del multimediale e del
virtuale che a loro volta svolgono quella funzione di rielaborazione attiva che si è già
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riconosciuta ai precedenti linguaggi, nell’ambito del loro peculiare campo semiotico
e tecnoculturale (Levy, DeKerkchove, R. Berger, Debray). A conferma di questo
continuo processo osmotico e di questa vocazione sistemica dei linguaggi della
comunicazione riteniamo opportuno citare alcuni articoli di un erudito intellettuale
americano dell’Ottocento, O. W. Holmes, il cui straordinario contributo risiede nella
capacità di descrivere le nuove soglie della sensibilità e della percezione aperte dal
nuovo medium di riproduzione della realtà: la fotografia predispone i modelli
fondamentali del consumo di massa di immagini, alimenta il desiderio dei fantasmi
intesi come figure capaci di attivare forti processi di investimento simbolico (cfr.
Milner 1989), è fattore attivo dei processi di contaminazione e ibridazione tra cultura
e industria (mercificazione e serializzazione della produzione culturale; cfr.
Benjamin 1966), sconvolge lo spazio di rappresentazione tradizionale canonizzato
dalla prospettiva rinascimentale favorendo la moltiplicazione dei punti di vista
(McLuhan; Benjamin; Speroni), rende accessibili spazi e tempi precedentemente
preclusi all’esperienza cognitiva del soggetto prefigurando quella sensibilità per la
contemporaneità del non contemporaneo (Broch) tipicamente moderna e soprattutto
stimolando quel gusto per il viaggio immobile e a domicilio attraverso il mondo reso
disponibile dalla disseminazione delle protesi tecnologiche dello sguardo: la
navigazione, ed il naufragio (Blumenberg) dello spettatore non più protetto dalle
tradizionali barriere percettive, nel mare dell’informazione metaterritoriale e
fantasmatica dei simulacri è già resa possibile grazie alla prolificità della produzione
industrializzata di fotografie provenienti da tutto il mondo (e Holmes si sofferma sui
piaceri e gli incredibili stimoli forniti da questo mondo pellicolare, disincarnato, reso
catalogabile e fruibile in maniera economica grazie all’avvenuto “divorzio della
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forma dalla materia”). L’iperrealtà derealizzante dei simulacri (Baudrillard,
Perniola), la postmoderna società dello spettacolo, della visibilità voyeuristica,
dell’effimero e del frammento (Debord, Jameson, Harvey), i processi di
smaterializzazione e le estetiche della sparizione ad essi connesse (Virilio) trovano
nel medium fotografico un dispositivo embrionale che ne ha curato la gestazione a
molteplici livelli. Il metaterritorio televisivo e quello telematico delle reti
interconnesse trovano quindi nel linguaggio fotografico un significativo antecedente
storico che ne delinea già alcune funzioni peculiari. È quantomai indicativo che
questi contributi teorico-letterari di Holmes vengano ora pubblicati col sottotitolo
“Origini fotografiche del Virtuale” ed a legittimare ulteriormente, laddove ve ne
fosse bisogno, l’importanza delle osservazioni di Holmes, possiamo notare come
Abruzzese nel suo già richiamato lavoro sulle dinamiche prototelevisive privilegi
proprio tali analisi alle pur fondamentali teorizzazioni di Benjamin, Barthes, Sontag,
evidenziandone il carattere profetico ed anticipatore: la consonanza tra Fotografia e
Moda (linguaggi della Modernità, capaci di cogliere ed esprimere i mutamenti e i
transiti sempre più fugaci delle società industrializzate, in contrapposizione ai
linguaggi artistico-estetici della Tradizione sempre più inadeguati a cogliere il senso
di tali trasformazioni nelle dimensioni dell’habitat metropolitano), la creazione di
nuove modalità cognitive e percettive, l’artificializzazione dell’esperienza, la
smaterializzazione della comunicazione etc.. E non è un caso che S. Ewen in un
saggio dedicato alla storia delle espressioni culturali e simboliche delle società
moderne riproponga a più riprese ed in passaggi chiave della sua ricostruzione
teorica proprio le analisi di Holmes sul medium fotografico, ritenuto linguaggio
emblematico di quel culto delle superfici, di quella ricerca di segni e di capitale
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simbolico (Bordieu, Harvey, Veblen) da spendere nell’ambito della costruzione della
propria individualità e nell’ambito delle relazioni sociali e di classe sempre meno
determinate dall’appartenenza ai vari ceti e quindi sempre più bisognose di orientarsi
in base a nuove segnaletiche sociali: nell’analisi di Ewen la politica dello stile, la
quale si estrinseca a vari livelli (Moda, Abbigliamento, Design, Architettura, Musica
ed anche Politica) trova una matrice comune proprio in quella pulsione
deterritorializzante che decontestualizza i segni dai loro ambienti originari e dalle
loro funzioni per attestare lo status di chi viene a fregiarsi con questo materiale
pregiato ( si pensi alla vicenda, sempre citata in Ewen, delle illustrazioni e delle
iconografie ecclesiastiche tradotte nella dimora borghese dalle classi medie
desiderose di compensare quella ferita originaria della non appartenenza alla classi
agiate e aristocratiche, mediante i segni di una formazione culturale superiore e
propria delle classi invidiate): la ricerca di una forma disincarnata, economica e
trasportabile (che prelude anche ad un possibile uso fittizio e mendace dei segni) è
proprio quella matrice che unifica le molteplici sfaccettature della politica dello stile
nelle società moderne, ed è espressamente l’essenza delle analisi di Holmes sul
linguaggio fotografico.
Se si è voluto quindi riportare in maniera abbastanza estesa l’insieme delle tematiche
sollevate da Holmes, e perché si è così potuto delineare intanto un corpus di
questioni che verranno maggiormente approfondite nel corso della tesi, ed inoltre
perché ci è sembrato un contributo teorico particolarmente efficace per argomentare
la pertinenza storico-teorica del medium fotografico in relazione agli esiti odierni dei
linguaggi dell’informatica.
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Passeremo ora ad esplicitare le impostazioni metodologiche e lo schema analitico
attraverso il quale si tenterà di delineare i due differenti paradigmi della
rappresentazione fotografica e le loro rispettive implicazioni socioantropologiche,
psicologiche, semiotiche ed estetiche.