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L’abitudine al confronto con “l’altro”, che mi ha indotta a ritenere naturali le
differenze senza ignorare o cercare di oscurare i rapporti di forza realmente
esistenti tra “noi” e gli “altri”, mi ha anche spinta verso il tentativo di
comprendere come si costruiscano le distanze e i rapporti di potere tra, per usare le
parole di Ernesto De Martino, il “proprio” e “l’alieno”.
Oggi l’alieno per antonomasia è lo straniero, il migrante povero, che fa emergere
senza mezzi termini la reale situazione di dominio esistente tra il Primo mondo e i
paesi poveri e dominati da questo. L’estraneo, che di quel rapporto è frutto,
arrivando nelle nostre società, crea crisi, traumi, incertezze, poiché mette in
discussione tutto ciò che fino a poco prima del suo arrivo sembrava essere certo e
duraturo. Inoltre egli, avendo una visione esterna sul “nostro” mondo riesce meglio
di “noi” a giudicare ed a sottolineare storture ed incongruenze della cui bontà e
validità siamo fortemente convinti e secondo le quali organizziamo il nostro vivere
in società.
Il timore scatenato dall’arrivo dello straniero presso di “noi” deriva, quindi, dalla
rottura delle sicurezze sulle quali fondiamo la nostra unità ed a partire dalle quali ci
rapportiamo con il mondo. L’elemento esterno, l’estraneo che entra nella nostra
società che va sempre più, in modo paradossale, configurandosi come una società
chiusa, chiarisce come la posizione dominante nella quale oggi noi occidentali ci
troviamo, sia relativa al momento storico che stiamo vivendo, a congiunture che
potrebbero essere ribaltate, mettendo in discussione i termini del dominio e le
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strategie di comando: venendo presso di noi, lo straniero ci ricorda
quotidianamente quanto la posizione che occupiamo sia labile.
La paura che il possibile sovvertimento dell’ordine innesca in noi ci porta ad
attuare strategie di difesa, che spesso si risolvono nell’ allontanamento, seppur
simbolico, “dell’altro da noi”, nella sua interiorizzazione; strategie che a volte
diventano disegni politici, miranti al mantenimento di uno status quo che
garantisca i nazionali da eventuali dubbi sulla liceità della cittadinanza, sulla
sicurezza del dominio economico e politico.
I discorsi sull’immigrazione sono spesso posti in termini tendenziosi.
Già l’uso della formula “fenomeno migratorio” rivela l’idea assai diffusa che
l’immigrazione sia un fatto transitorio. In questa formula, la parola fenomeno –che
deriva dal verbo greco fainomai, “apparire”- è il catalizzatore della definizione, il
significante primo di ciò che si vuole dire; l’aggettivo “migratorio” ha invece una
posizione e un valore secondari, è qualcosa che potrebbe anche non esserci: il
“fenomeno” in fondo è destinato a scomparire, farà il suo percorso, che ci si augura
sia breve, per poi tornare da dove è venuto, cioè nel nulla.
Sì, perché è questa spesso la sensazione che si riceve dai discorsi sui migranti:
coltivando l’idea che questi esseri umani siano venuti dal nulla, si tacciono le reali
cause dei movimenti migratori e ci si illude della transitorietà, molto rassicurante,
di eventi che, invece, devono essere inquadrati storicamente perché se ne possa
comprendere appieno il senso.
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Le parole spese sui migranti, la migrazione, il “diverso” in generale, sono spesso
eufemismi. Anche a livello istituzionale si scelgono termini che attutiscano la forza
di concetti che risulterebbero politicamente poco corretti.
Basti pensare, per esempio, al nome con cui vengono indicati i luoghi nei quali
vengono reclusi i clandestini: C.P.T.A. centri di permanenza temporanea e
assistenza, per notare innanzi tutto quanto sia paradossale attribuire alla
permanenza l’aggettivo temporanea, ma anche per avere chiaro quanto sia
eufemistica e falsa la definizione che vuole che quelli che sono veri e propri lager
per stranieri vengano identificati come centri di assistenza, nei quali i detenuti
sono, sempre seguendo la stessa logica, chiamati “ospiti”.
Adesso, però, che il “fenomeno” pare non essere veramente tale, adesso che appare
chiaro che l’immigrato è colui che arriva per restare, la corsa alle soluzioni, per un
problema che si rivela essere di portata epocale, è quasi affannosa.
Proprio la velocità di questa corsa impedisce che l’attenzione verso la realtà
migratoria sia puntuale e scrupolosa ed il continuo illudersi dell’esistenza di un
“fenomeno” porta al raggiungimento di soluzioni, teoricamente, momentanee ed
eccezionali.
La storia dell’immigrazione in Italia è molto recente, ha avuto inizio negli anni ’60,
ma ha fatto il suo ingresso dirompente nella vita sociale e politica italiana solo nel
1991, anno in cui i profughi albanesi, ormai liberi dalla dittatura, raggiunsero con
un esodo , che si pensava non sarebbe mai finito, le coste pugliesi.
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In effetti, quella previsione era giusta; infatti, il passaggio di persone, tra le due
sponde dell’Adriatico, ancora non si è interrotto.
La situazione di grave crisi ingenerata dall’arrivo dei profughi albanesi in quel
lontano 1991, diede vita a soluzioni d’emergenza e, per citarne solo una, basta
ricordare la chiusura dei profughi nello stadio di Bari, decisione che, insieme ad
altre che riguardarono gli immigrati albanesi, venne accolta da molti come
qualcosa di provvisorio, utile a tamponare il grosso flusso di persone che stava
investendo una società per nulla preparata a reagire, quale era quella italiana.
Questo lavoro, che è il frutto di oltre un anno di ricerca, condotta sul campo, è
costruito in modo da analizzare i percorsi di vita degli immigrati, fin dalla loro
origine, e mira a dimostrare l’infondatezza dell’assunto secondo il quale gli
stranieri vengono dal nulla.
Durante questi mesi ho avuto un rapporto costante con gli immigrati, sono entrata
nelle loro case, nelle aule dei tribunali, li ho raggiunti sui posti di lavoro ed, infine,
li ho osservati durante la loro permanenza nei cpt. I racconti di vita sono stati
raccolti in modo diverso da quanto si farebbe con delle semplici interviste, basate
su uno schema di domande e risposte per cui le storie degli immigrati che riporterò
si sono quasi autocostruite, grazie ad un confronto diretto e libero da schemi tra
osservatore ed osservati e da un rapporto di fiducia reciproca costruito col dialogo.
I succitati rapporti di forza impediscono ad una grossa parte della popolazione
globale di esprimere il proprio giudizio, il diritto alla parola ed allo sguardo sugli
altri pare essere riservato solo a quanti detengono il potere economico e politico. I
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discorsi sul mondo sono, quindi, prodotti quasi esclusivamente in Occidente e
quelli che, invece, nascono per l’azione coraggiosa di qualche rappresentante
politico del terzo mondo, hanno un peso, nelle logiche internazionali, molto
relativo.
Il mondo, forse, non si fonda sulle parole, ma queste possono aiutare a capire il
senso che diamo alle cose; se, però, le parole provengono sempre dalla stessa
“bocca” è facile intuire quanto sia povera e monocorde la visione che abbiamo
della realtà.
C’è un’ulteriore implicazione nell’uso univoco delle parole, ossia la possibilità di
assegnare un nome alle cose che ci circondano, esiste quindi chi ha il potere di dare
nomi e chi quei nomi deve solo subirli e non è nuova la teoria secondo la quale chi
nomina possiede, per cui l’uomo occidentale, quasi novello Adamo nel paradiso
terrestre, nomina l’uomo del terzo mondo. In questo modo istituisce su di lui un
dominio, seppure solo simbolico, che intrecciandosi con quello reale dato dalle
disuguaglianze economiche, sociali e politiche tra i due blocchi che costituiscono il
pianeta, crea un dominio totale.
Ho creduto fondamentale far entrare, quale parte viva e partecipante, nel mio
lavoro, le idee degli immigrati ed i loro modi di vedere e di rappresentarsi il
mondo, perché lo sguardo sulla diversità non fosse monocolore, ma venisse a
costituirsi per un incontro di punti di vista differenti, nel tentativo di decostruire
l’idea che vuole che la diversità stia sempre dalla stessa parte, in una concezione
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immobilistica della realtà che non ha giustificazione per se stessa né per le
mostruosità che ha prodotto e che continua a produrre.
Un altro dei motivi che mi ha indotta a fare ricerca tra gli immigrati è quello di
tentare di dimostrare la falsità degli olismi secondo i quali gli stranieri fanno parte
di una massa informe, costituita di esseri con caratteristiche comuni, tutti con
uguali esigenze ed aspettative.
Troppo spesso le ricerche etnologiche si occupano solamente di culture, di popoli,
ma questi popoli sono composti da individui, che non possono rimanere oggetto di
studio passivo e che devono avere parte attiva nella creazione della loro storia e
nella conoscenza che lo studioso vuole avere di loro.
Il doppio sguardo, la doppia voce permettono di andare al di là di ciò che
comunemente si ritiene, affondando la sonda della ricerca nella realtà per evitare
il rischio di schermarsi dietro facili preconcetti.
Il lavoro svolto da me e dagli immigrati che mi hanno aiutata e supportata, non ha
seguito un percorso che ci inducesse a ritrovare nella realtà le teorie studiate nei
libri, anzi la strada scelta è stata quella opposta. Il punto di partenza sono state le
storie dei singoli migranti, nella consapevolezza che esse rappresentano solo
alcune prospettive sulla migrazione, proprio perché vissute da persone diverse,
provenienti da realtà differenti e con disparate aspettative.
La proposta di lavoro di questa tesi viene, quindi, in gran parte da ciò che gli
immigrati hanno voluto dirmi, le loro prospettive si sono intrecciate alle mie, senza
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però confondersi tra loro e tale percorso ha arricchito molto il mio lavoro, che
altrimenti sarebbe rimasto astratto e svincolato dalla realtà.
C’è da dire, però, che siccome il rapporto tra osservatore ed osservato non è mai
totalmente privo di implicazioni, la presenza di un estraneo nel gruppo fa sì che la
spontaneità lasci, spesso, il posto a riflessioni avvedute, derivanti anche dal
contatto che gli stranieri hanno avuto con la realtà italiana. Mi è parso che, spesso,
gli immigrati, specialmente all’inizio della nostra collaborazione, soprattutto i più
disagiati, si predisponessero nei miei confronti chiedendosi cosa io volessi sentirmi
dire, quasi intimoriti dal dare la risposta sbagliata ai miei perché.
Bisogna poi sottolineare che molti degli immigrati con i quali ho lavorato,
specialmente quelli che hanno avuto bisogno di rapportarsi direttamente agli
italiani ed in particolar modo a quegli italiani che hanno una impostazione politica
ben definita, hanno conformato le loro idee sulla migrazione, sulle leggi, sul
rapporto nazionale – straniero, in qualche modo uniformandosi al pensiero, e a
volte ripetendolo pedissequamente, di quegli italiani con i quali hanno avuto a che
fare.
Sarebbe difficile, altrimenti, spiegarsi in che modo un immigrato residente da poco
tempo in Italia possa cogliere il paradosso esistente nella definizione dei C.P.T.A.
Come potrebbe, infatti, uno straniero che parla ancora a stento la nostra lingua,
riuscire a comprendere l’incongruenza insita nel definire temporanea la
permanenza?
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Indicativo di questo è anche un altro esempio; molti immigrati dimostrano di
scandalizzarsi per via dei nomi dati ai cpt, mi riferisco a nomi quali Regina Pacis,
Don Tonino Bello, S. Anna e mi chiedo come possa un fedele Musulmano
conoscere il senso dei Santi Cattolici, quando nella sua religione la figura
dell’uomo santo ha una funzione esclusivamente terrena e politica. Questo infatti è
“santo” in vita ed ha la funzione di mediare tra il Governo centrale ed i territori che
non accettano la sottomissione al suo potere.
Ancor di più mi domando in quale modo i migranti musulmani possano sentirsi
offesi da un oltraggio a rappresentanti di una religione che non è la loro, e che non
intacca molto, a dire il vero, nemmeno la coscienza degli Italiani, che
probabilmente non si scandalizzano perché, in fondo, Don Tonino Bello parlava
delle mele marce e nel cpt vengono rinchiuse proprio quelle persone che dalla
società italiana sono ritenute tali.
L’argomento sul quale ho scelto di focalizzare l’attenzione sono i C.P.T.A. (centri
di permanenza temporanea e assistenza), perché sono convinta che noi siamo ciò
che creiamo; i cpt rappresentano ciò che noi abbiamo creato per rapportarci agli
altri, agli stranieri.
I centri di permanenza temporanea sono il frutto della nostra cultura, il solo modo
che si è ritenuto idoneo per mediare col “diverso”.
Non si può credere, infatti, che questi luoghi anomici abbiano solo un senso fisico,
di protezione dei cittadini e di reclusione di coloro i quali cittadini non sono, i cpt
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sono il frutto di una cultura dell’esclusione, del dominio assoluto su coloro i quali
non possono accampare diritti.
Credo che il cpt, come luogo di incontro e scontro di civiltà, sia un punto di
osservazione ottimale, per analizzare l’incrociarsi dei due modi di vedere, quello
degli occidentali e quello degli immigrati; non solo, ma analizzare il senso di quelli
che forse con un abuso terminologico vengono definiti lager per stranieri, dà modo
di comprendere anche come il nostro Paese, come tutti quelli che di questo istituto
fanno uso, si pongano nei confronti dei propri cittadini.
Sono convinta che i cpt non siano luoghi di reclusione solo per gli stranieri perchè
visitandoli si ha la netta sensazione che ad essere in gabbia non siano solo loro, per
cui mi preme sottolineare, anche grazie alle sollecitazioni ricevute dagli stranieri,
che imperdonabile è la mancanza di rispetto di un Governo nei confronti dei suoi
cittadini, quando agisce non tenendo conto della loro volontà.
Entrando nei cpt è chiaro quale sia la situazione di impotenza non solo del
cittadino straniero, ma anche quella del cittadino nazionale; il potere politico
impone la sua forza assoluta utilizzando questi “non luoghi”, nei quali anche il
cittadino italiano diventa un recluso: lo straniero non può uscirne, l’Italiano non
può entrarvi, almeno non liberamente.
Studiare i cpt è stato interessante per capire come la dialettica che si basa sul
contrasto di civiltà venga fatta pesare sempre sui Paesi poveri, anche quando i
rappresentanti di questi sono sul territorio del mondo opulento, quasi che essere un
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migrante povero sia una macchia ed essere nato in un paese terzo costituisca una
differenza ontologica.
Si dirà, però, che molti degli immigrati che arrivano nel nostro Paese provengono
da situazioni di guerra, da dittature e che, quindi, non dovrebbero stupirsi del fatto
che uno Stato agisca senza tenere conto della volontà popolare, ma forse è proprio
la loro esperienza pregressa a renderli capaci di distinguere quali siano le
condizioni necessarie perchè un Paese possa definirsi democratico, condizioni che
vengono a mancare nel momento in cui il potere politico prende le distanze dalla
base che lo ha istituito, agendo come se la popolazione non avesse alcun peso nelle
sue decisioni.
Non è ormai più possibile analizzare la situazione dell’immigrazione in Italia,
senza tenere presente l’esistenza della Comunità Europea, struttura
sovranazionale, che ha creato delle nuove appartenenze, ha sconvolto anche il
sentimento del diverso, per cui se prima la categoria di straniero comprendeva
anche i nostri confinanti europei, oggi la costruzione dell’altro è da legarsi ad una
logica di creazione di un’identità nuova, quella dei comunitari, diversa e staccata
da quella degli extra comunitari.
Proprio per evitare quello che sarebbe un falso isolamento, si è resa necessaria
un’analisi comparativa, di quelle che sono le modalità di rapportarsi allo straniero
nei vari stati europei.
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L’ottica allargata che ci propone la prospettiva europea, vuole dimostrare come la
creazione di una nascente identità, non ancora forte e con annosi problemi, richieda
l’invenzione di una nuova alterità, la strutturazione di nuove differenze.
Questi processi ci inducono a ripensare a quelle che Clastre chiamava “società per
la guerra”, ossia quelle società che per sancire la loro nascita e la loro unità,
avevano bisogno di fare guerra a qualcuno, con lo scopo di creare una forza
inesistente, della quale però si sentiva l’incombente necessità.
Come i Romani facevano guerra ai propri simili per creare differenze fittizie, che
garantissero un buon equilibrio interno, così l’Europa cementa l’unione tra i vari
Stati, non su qualche presunta uguaglianza interna, ma sulla invenzione di alterità
esterne inassimilabili.
A distanza di 15 anni da quell’esodo dei profughi albanesi, è chiaro come ancora
oggi l’Italia sia in forte difficoltà nell’incontro con lo straniero. Nei discorsi
sull’immigrazione si sente ancora parlare di “emergenza”, i provvedimenti che in
quell’anno si pensava dovessero essere provvisori, utili solo a fronteggiare
qualcosa di inaspettato, sono ormai stati istituzionalizzati e negli ultimi anni anche
peggiorati.
L’eccezionalità è diventata la regola, le capacità di creare una rete di rapporti
globali, che includa anche le popolazioni dei Paesi poveri, invece di crescere col
tempo, forgiate dall’esperienza, stanno scemando.
L’immigrazione è un percorso che interessa due diverse società, quella di partenza
e quella d’arrivo, due modi di rappresentarsi il mondo e di strutturare la realtà.
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Credo per questo che sia fondamentale un dialogo a più voci su tale tema, affinché
si abbia una conoscenza più specifica e profonda dei problemi ad esso legati.
Io non credo che la conoscenza “dell’altro” porti all’eliminazione di politiche o
strategie discriminanti e razziste, i nazisti hanno sterminato gli ebrei proprio perché
li conoscevano a fondo, ma sono convinta che l’incontro tra culture differenti, su
un piano il più paritario possibile, sia utile innanzi tutto per evidenziare che
l’alterità è qualcosa di fortemente relativo e poi perché l’analisi di punti di vista
diversi dal nostro può indurre a mettere in discussione sistemi che sembrano dati
una volta per tutte e che, invece, devono essere negoziati quotidianamente.
Occorre creare “la breccia nella sfera” che costringa a guardare fuori dal proprio
microcosmo, alla ricerca di un modus vivendi che, ormai è chiaro, deve essere
inclusivo non solo delle culture diverse dalla nostra, ma anche di coloro i quali
agiscono quelle culture: le persone.
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Capitolo primo
Breve storia dell’immigrazione in Italia
L’Italia, quale Paese di immigrazione, ha una storia molto recente, che risale agli
anni settanta del Novecento, periodo in cui i Paesi del Nord Europa, mete storiche
dell’immigrazione, iniziano ad applicare politiche di forte chiusura delle frontiere e
di repressione.
Negli anni che vanno dal 1870 al 1970, con le sole interruzioni dei due conflitti
mondiali, l’Italia era stata Paese di emigrazione, contribuendo con le sue risorse
umane allo sviluppo delle economie capitalistiche ed al decollo di alcuni Paesi del
Sud America.
Negli anni Sessanta, grazie allo sviluppo economico ed all’industrializzazione,
dopo una fase di migrazioni interne dal Sud al Nord del Paese, l’Italia ha avuto la
necessità di importare manodopera dal Terzo mondo.
Entrare a far parte della rosa dei luoghi di destinazione dei movimenti migratori in
corrispondenza con la chiusura delle frontiere di altri Paesi, non è un fatto casuale,
né è privo di conseguenze. Per questo molti sostengono che non sia stato tanto il
bisogno di manodopera straniera e, quindi, l’accresciuta offerta lavorativa, ad
attirare i flussi migratori verso l’Italia, quanto piuttosto la chiusura delle frontiere
degli Stati storicamente interessati all’immigrazione.
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Proprio il fatto che questo cambiamento di direzione dei flussi migratori si sia
avuto nelle suddette circostanze ha fatto sì che le politiche per l’immigrazione nel
nostro Paese siano nate, conformandosi a quelle prodotte nello stesso periodo dagli
altri Stati, sotto il segno della repressione.
Fino agli anni Settanta l’atteggiamento nei confronti degli immigrati era stato di
sostanziale indifferenza; essi erano circa 300.000 e provenivano, nella
maggioranza dei casi, da altri Paesi Europei. È negli anni Ottanta che si ha una
maggiore presa di coscienza del “problema” ed è nel 1981 che l’Italia ratifica la
convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui lavoratori migranti,
che risale al 1975, focalizzando l’attenzione solo sulle questioni lavorative e
tralasciando di creare una regolamentazione circa il soggiorno e la permanenza
degli immigrati sul territorio nazionale.
La situazione cambia nel decennio che va dalla metà degli anni Ottanta alla metà
degli anni Novanta, quando si comincia a parlare di emergenza immigrazione, con
un discorso che anticipa ed in qualche modo prepara i provvedimenti restrittivi
voluti nel 1995 dal governo di centro-destra, allora alla guida del Paese, che
prevedevano un inasprimento della normativa in materia di espulsioni.
Nel 1998 vede la luce la legge 40, la cosiddetta Turco-Napolitano, che
sostanzialmente aveva tre scopi principali: 1. contrasto e repressione
dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento dei flussi; 2. programmazione
triennale attraverso il sistema delle quote, non subordinate alla indisponibilità della