comportamento di richiesta che porta, in un certo grado, ad affidarsi agli altri
(Nadler, 1997).
Nel secondo capitolo, la relazione donatore-ricevente e il comportamento di
richiesta di aiuto, sono stati contestualizzati nell’ambito organizzativo. Al
lavoro il comportamento di richiesta di aiuto, definito “pro-attivo”, è
fondamentale per la crescita e lo sviluppo non solo dell’azienda, ma anche
della persona, l’obiettivo è ottenere specifiche risorse, che permettano al
richiedente di affrontare e superare le difficoltà in maniera attiva.
Il comportamento di richiesta di aiuto promuove l’acquisizione di nuove
capacità e nuove competenze, permette una maggiore capacità di problem-
solving, e la realizzazione di una performance migliore (Lee, 1997). Sebbene la
realizzazione di questo comportamento porti così tanti vantaggi, ci sono molte
variabili legate alla persona, alla sua posizione nell’organizzazione e
all’organizzazione stessa, che possono inibire la realizzazione di un
comportamento di richiesta di aiuto, quando i costi psicologici e sociali
diventano proibitivi per la persona in difficoltà (Lee,2003).
Il terzo capitolo analizza specificatamente una variabile che influenza il
processo di richiesta di aiuto, esso affronta lo studio dell’empatia, costrutto che
si riferisce al fare esperienza di e al condividere lo stato d’animo di un
individuo da parte di un altro. Il termine empatia è stato impiegato fin dagli
inizi del secolo per indicare quella condizione esperenziale che gli individui
vivono quando “sentono dentro” le emozioni di un’altra persona.
Nella psicologia contemporanea l’empatia ha assunto un particolare rilievo, in
parte per l’interesse che il concetto in quanto tale suscita, in parte per effetto
delle conoscenze acquisite in campi di ricerca ad essa contigui come quelli
delle emozioni, del pensiero morale e del comportamento prosociale. Molti
autori (ad es., Batson, 1987) sostengono il ruolo dell’empatia nel generare
motivazioni altruistiche, alcuni altri, hanno argomentato che la capacità
altruistica è fortemente limitata nella realtà, e che l’aiuto invece, sia basato su
ragioni più egoistiche di interesse personale (ad es., Schaller & Cialdini, 1988).
Nel capitolo quindi, vengono confrontati i due orientamenti teorici e le ragioni
5
che portano a credere nell’esistenza di un interesse genuino e reale per il
benessere dell’altro.
Gli autori inoltre, trattano l’empatia come un costrutto multidimensionale e
riconoscono l’apporto delle componenti cognitive, affettive e sociali nella sua
definizione (Davis, 1994).
Il quarto capitolo riprende il tema dell’interesse empatico contestualizzandolo
in ambito lavorativo, facendo luce sul alcuni temi spesso dimenticati dalla
letteratura sul lavoro e sulle organizzazioni, che ricordano la nozione di
burocrazia ideale proposta da Weber, la quale vedeva l’efficienza
incontaminata dall’amore, dall’odio, dalle passioni personali e dalle emozioni.
Il capitolo, invece, prende in considerazione tutte queste sensazioni che,
seppure “impalpabili” rispetto ai goal organizzativi o ai prodotti finiti, sono
l’impalcatura delle organizzazioni e contribuiscono al successo, alla
soddisfazione e alla qualità della vita di ognuno (Fineman, 1993).
Nel quinto ed ultimo capitolo, è presentato uno studio empirico progettato sulla
base delle considerazioni precedentemente esposte. Gli individui possono
valutare il processo di richiesta di aiuto ed affrontarlo, in modo differente, in
accordo oltre che al genere e allo status sociale dell’help-seeker (Nadler, 2002),
anche al livello di empatia provato dai giocatori.
Nell’ambito della psicologia sociale, sono pochi ma differenti, gli studi che
hanno approfondito l’influenza di queste variabili sulle valutazioni dei costi e
dei benefici, questi saranno esaminati a livello empirico, oltre alle differenze di
genere anche le differenze dell’attivazione empatica nelle persone.
6
Capitolo I
I COSTI PSICOLOGICI DELLA RICHIESTA DI
AIUTO
Molti pensano che l’uomo sia naturalmente portato all’aggressività, alla
sopraffazione dell’altro, alla competizione distruttiva nei confronti dei propri
simili. Gli innumerevoli conflitti distribuiti in tante parti del nostro pianeta,
insieme al proliferare di episodi aggressivi nella quotidianità, confermano
sempre più questa opinione, e fanno passare in secondo piano modalità
relazionali diverse, caratterizzate da prosocialità, altruismo, empatia,
condivisione, cooperazione e aiuto. Come se non esistessero. Come se non
fossero mai esistite (Bonino, 2003).
La psicologia sociale ha da tempo affrontato tematiche centrate sul
comportamento prosociale, cercando soprattutto di analizzare le cause dei
diversi comportamenti, elaborando teorie e ipotesi interpretative sui numerosi
fattori e sulle varie condizioni che possono essere chiamate in causa per
spiegare l’azione umana, sia essa di tipo aggressivo che altruistico. I risultati
delle ricerche hanno comunque sottolineato che, la spiegazione dei
comportamenti prosociali non va ricercata né nelle persone prese
singolarmente, né nelle situazioni, ma in una prospettiva multidimensionale,
che privilegia l’interazione tra caratteristiche personali e situazioni specifiche,
tra soggettività e dimensioni sociali in cui tale soggettività si esprime.
Interesse centrale nella ricerca sull’altruismo è l’attenzione sulle motivazioni
che inducono risposte altruiste. I risultati di molti studi empirici, hanno
riportato che il senso del dovere morale, l’empatia, la reciprocità,
l’innalzamento dell’autostima e le gratitudini, sono solo alcuni dei maggiori
fattori determinanti un comportamento prosociale. Tuttavia lo stress, il tempo,
il pericolo, la scarsa competenza, possono essere considerati costi dell’aiuto,
inibenti le risposte altruiste e riconducibili alla teoria dello scambio sociale,
secondo la quale le persone aiutano solo nel momento in cui, dal punto di vista
dell’helper, i benefici superano i costi.
7
Il “comportamento prosociale” è definibile come qualsiasi azione realizzata per
arrecare beneficio a un’altra persona. L’altruismo, può invece essere definito
come il tentativo di aiutare gli altri senza tener conto della propria sicurezza o
del proprio interesse. Nella successive analisi, i due termini saranno utilizzati
come sinonimi
1
.
Gli psicologi sociali, Bibb Latanè e John Darley (1976), hanno fornito un
valido contributo a questa tematica sin dagli anni Sessanta, in seguito a casi
singolari di mancato soccorso, come quello dell’uccisione di Kitty Genovese,
una giovane donna assassinata in piena notte in un sobborgo newyorchese nel
1964, il cui evidente bisogno di aiuto non sollecitò alcun intervento da parte
delle persone presenti. Pensare che più persone assistono ad una situazione di
emergenza, facilmente porta a credere che ci saranno più possibilità di aiuto
per la vittima. In una serie di esperimenti classici però, si è giunti alla
conclusione che, al contrario, il numero dei testimoni non offre alcuna
certezza. Le persone si comportano altruisticamente in un certo contesto ed
egoisticamente in un altro. Darley e Latanè, riportano tre tipi di processi
decisionali ai quali si fa risalire l’inibizione sociale dell’altruismo:
ξ la diffusione di responsabilità: un singolo testimone avverte che la
responsabilità dell’intervento ricade solo su di lui, ma nel caso in cui sono
presenti altri spettatori, la diffusione di responsabilità riduce la possibilità
di comportarsi altruisticamente (“effetto testimone”);
ξ l’ignoranza collettiva: circostanze ambigue, che creano nello spettatore un
senso di incertezza, fanno sì che quest’ultimo esiti ad intervenire mentre
cerchi di capire ciò che sta accadendo, mostrando così passività;
ξ il timore della valutazione: la presenza di altri spettatori crea uno stato di
disagio che esercita un effetto inibitorio ad un eventuale intervento che si
teme venga giudicato come inappropriato.
1
A coniare il termine altruismo fu Augusto Comte nel 1852, in opposizione al concetto di
egoismo, per indicare un atteggiamento sociale basato sul desiderio di “vivere per gli altri”,
sull’amore per l’altro: questo atteggiamento sarebbe determinato da istinti e da motivazioni,
che secondo l’autore potevano essere sviluppati gradualmente da un’educazione ispirata al
positivismo, fino a diventare predominanti.
8
Vi sono inoltre, cinque livelli fondamentali nel processo che produce aiuto in
una situazione di emergenza:
1. rendersi conto della situazione;
2. interpretarla come una situazione di emergenza;
3. decidere quali responsabilità assumersi per intervenire;
4. sapere quale aiuto fornire;
5. decidere di agire.
Dimenticare uno solo di questi punti significa non fornire aiuto, o fornirlo in
modo non appropriato alla situazione. Un ulteriore analisi su questo tema, è
caratterizzata dal contributo di Moscovici, secondo cui l’altruismo costituisce
un problema per una società come la nostra, fondata sul primato dell’interesse
e del successo individuale, in cui la norma culturale dominante è l’egoismo. Il
comportamento disinteressato infatti, crea sospetto, che porta il ricevente a
cercare la motivazione nascosta, reale, e che nella sua mente non può essere
che egoistica, tesa cioè al proprio vantaggio. Secondo Moscovici (1994)
tuttavia, si possono distinguere tre forme di altruismo:
ξ L’altruismo partecipativo, caratterizzato da modalità di dedizione,
impegno, partecipazione, alla vita che lega i membri di uno stesso gruppo.
Non è rivolto ad una “Altro” specifico, ma ad un “Noi”. In questo caso il
beneficio del comportamento altruistico è la collettività nel suo insieme.
ξ L’altruismo fiduciario, è ciò che facciamo per favorire l’Altro in base al
grado di fiducia che gli individui percepiscono o desiderano stabilire tra
loro. La fiducia percepita, porta ad attribuire un particolare valore ad un
gesto di aiuto o ad un sacrificio.
ξ L’altruismo normativo, porta a realizzare comportamenti altruistici per
rispettare le norme sociali vigenti nella propria cultura, che stabiliscono chi
deve essere aiutato, con quali mezzi e modalità, e in quali situazioni in cui
chi si trova in difficoltà va aiutato.
Pertanto, nelle nostre azioni, anche quelle più disinteressate, bisogna fare i
conti con una serie di fattori che intervengono a vari livelli (personale,
9
cognitivo, affettivo, situazionale) e che non sempre sappiamo prevedere e
controllare. Per comprendere così i gesti di solidarietà e indifferenza, piuttosto
che guardare dentro la persona, è necessario analizzare la sua condotta nel
contesto in cui concretamente è situata.
Un altro filone d’indagine sviluppato dalla psicologia sociale pone l’attenzione
sul ricevere aiuto (help receiving). Come ricordava recentemente lo studioso,
psicologo Caprara (2002), occuparsi del benessere altrui contribuisce
significativamente, in tutto il ciclo di vita, a costruire il proprio personale
benessere. Aiutare non fa bene soltanto a chi riceve aiuto, ma anche a chi lo
dà.
L’aiuto però, pur contenendo aspetti positivi e supportivi, non sempre
rappresenta un beneficio per chi lo riceve.
Una persona nel decidere se chiedere aiuto è spesso in conflitto con sé stessa.
Da un lato, l’aiuto può risultare utile o addirittura indispensabile per ottenere
risultati di successo, dall’altro questo importante beneficio è facilmente
attenuato dai costi psicologici insiti nella richiesta di aiuto. Un primo costo
deriva dal fatto che al richiedente, sarà attribuito meno credito se, per realizzare
un certo compito o nel raggiungere un risultato importante ha chiesto aiuto,
rispetto a chi ha realizzato lo stesso compito in maniera indipendente; inoltre,
se il compito per il quale è chiesto l’aiuto è estremamente facile o se è
particolarmente importante per l’individuo, la richiesta d’aiuto può risultare
oltremodo minacciosa per la persona (DePaulo & Fisher, 1980).
La relazione interpersonale fra chi dà aiuto e chi lo riceve può essere definita in
vari modi. Secondo Gergen e Gergen (1983), il significato di tale relazione è
frutto di un processo di trattativa: il rapporto può essere interpretato come
scambio reciproco, oppure come una forma di dipendenza duratura da parte di
chi riceve aiuto. Questo secondo caso potrebbe portare la persona beneficiata
ad interpretare l’azione altruistica come una conferma della propria
dipendenza, suscitando sensazioni di debolezza e passività.
La persona che offre il proprio aiuto e il destinatario, hanno prospettive diverse
sulla relazione (Dunkel-Shetter et al., 1992). Il donatore dalla sua parte, ha il
fatto che il comportamento di aiuto è ritenuto giusto e desiderabile, nonostante
10
esso comporti dei costi in termini di tempo e sforzo. La persona che riceve
aiuto invece, vorrebbe certamente evitare di dover ammettere di non riuscire a
controllare il proprio destino.
Chiedere aiuto, dunque, comporta sì benefici strumentali legati al
raggiungimento di risultati importanti, ma anche costi psicologici che rendono
più difficile la formulazione di una richiesta d’aiuto. I primi si riferiscono alla
possibilità di ricevere assistenza per alleviare la sofferenza o per poter
completare un compito, i secondi si riferiscono alla sensazione di dipendenza e
incompetenza che possono minacciare la persona che si affida agli altri per
l’aiuto (Nadler, 1991).
11
1. IL DILEMMA DEL CHIEDERE AIUTO
Inizialmente lo studio del comportamento d’aiuto ha considerato come unico
aspetto problematico del contesto d’aiuto la disponibilità del “potenziale
helper” ad intervenire fornendo supporto alla persona in stato di bisogno. Sotto
questa prospettiva un’azione d’aiuto realizzata, non poteva che suscitare una
reazione positiva, di gratitudine nei confronti del donatore e accettazione
incondizionato dell’aiuto da parte del ricevente. In una società dominata
dall’egoismo un dono non può che essere ben accolto. Infatti, fino agli anni 70,
quasi tutte le ricerche che si sono occupate delle relazioni d’aiuto, hanno
focalizzato solo le variabili che facilitano o inibiscono le azioni dei potenziali
helper ad offrire il proprio supporto. I riceventi erano di fatto ignorati e
l’utilizzo da parte loro dei servizi disponibili era semplicemente dato per
scontato (Gross & Mc Mullen 1983).
Successivamente è nata la consapevolezza che un comportamento d’aiuto si
realizza sempre all’interno di una relazione e che l’efficacia di tale aiuto
dipenda non solo dalla disponibilità dell’helper a fornire il supporto richiesto,
ma anche dall’azione del beneficiario. Per la prima volta si incominciarono ad
analizzare le attitudini ed i comportamenti del ricevente e Nadler, Fisher e
Streufert (1976), con il loro articolo di ricerca intitolato “When helping hurts”,
sottolinearono proprio questo aspetto: l’aiuto non sempre rappresenta per il
beneficiario un’esperienza positiva. Esso può essere minaccioso, a causa
dell’implicita inferiorità, inadeguatezza, dipendenza, intrinseche al ruolo di chi
chiede aiuto. Ognuno di noi è fortemente motivato dal raggiungere e
conservare un immagine positiva di noi stessi, a considerarsi e presentarsi
come dotati di una certa autonomia, di una capacità di agire e operare nella
realtà nel modo più efficace possibile, e di non essere travolti dagli eventi,
piuttosto riuscire a gestirli e controllarli. Quando la rappresentazione di sé si
organizza attorno a caratteristiche di tipo negativo, ciò si collega di solito ad
uno stato di malessere profondo che può configurarsi come vera e propria
depressione (Serino, 2001, p.20).
12
Ad amplificare questa minaccia al sé intervengono le norme sociali: la
dipendenza ad esempio, contrasta con la norma sociale dell’avere fiducia in se
stessi, così radicata nella società occidentale. Naturalmente oltre agli aspetti
negativi, ricevere aiuto contiene importanti e vantaggiosi aspetti positivi e di
supporto che motivano la persona a chiedere aiuto (cioè guadagni tangibili,
segni della preoccupazione e interessamento del donatore). Il nostro modello
teorico (Fisher, Nadler, & Whitcher-Alagna, 1982) suggerisce che l’aiuto
vissuto dal ricevente come sostenitivo per il sé, provoca in modo specifico
reazioni positive/non difensive, mentre un aiuto minaccioso tende a suscitare
reazioni negative/difensive.
L’analisi del comportamento sociale ha dunque da poco spostato la sua
attenzione dalla ricezione dell’aiuto, alla richiesta d’aiuto collegata alle
reazioni del ricevere l’aiuto. Una persona che in un particolare momento della
propria vita si trova afflitta da un pesante dubbio, una persona incapace di
gestire le relazioni sociali, una persona che si trova in difficoltà sul lavoro.. pur
sapendo che un counselor, uno psicologo, un collega più esperto o anche un
buon amico potrebbero aiutarlo, spesso non è in grado di chiedere aiuto. Questi
esempi riguardano un dilemma comune: la persona sa di aver bisogno di aiuto
eppure chiedere è difficile perché può essere associato ad un'ammissione aperta
di fallimento e dipendenza dagli altri, così seppure da un lato preme il bisogno
strumentale, di risolvere un problema, dall’altro lato ci sono i costi psicologici
che limitano la disponibilità a chiedere. L’intervento di questi costi psicologici,
se pur inconscio, potrà ostacolare la stessa richiesta di aiuto, portando ad
un'intensificazione del problema.
La diffusione di questo fenomeno suggerisce che si tratta di un conflitto umano
di base fra il bisogno d'indipendenza e l’inevitabile necessità sociale di guida,
supporto, aiuto.
Il “dilemma del chiedere aiuto” necessita dell’adozione di un processo
decisionale, sulla base del quale si attua una valutazione dei benefici
strumentali, ma anche dei costi psicologici, a livello sociale e personale. Molti
teorici della personalità considerano la risoluzione di questa tensione come un
importante compito evolutivo.
13
Tale conflitto è emerso in numerosi setting: di comunità, di salute mentale
(Fischer, Weiner, & Abramowitz, 1983), in contesti educativi (Ames & Lau,
1982) e organizzativi (Burke, Weir, & Duncan, 1976), e in tutte le situazioni in
cui i soggetti si trovano ad affrontare una scelta fra “dipendere da se stessi” o
“dipendere dagli altri” per alleviare le proprie sofferenze. In ognuno di questi
contesti ricevere aiuto potrebbe essere per il ricevente un’esperienza
minacciosa o sostenitrice del sé (Fisher, Nadler & Whitcher-Alagna, 1982). Le
ricerche indicano che se un individuo sceglierà o no di affidarsi agli altri per
alleviare le proprie difficoltà, tale decisione, dipenderà da numerose variabili
situazionali e personali. Allo stesso modo le reazioni del ricevente all’aiuto,
non possono essere considerate come un concetto unidimensionale, ma come
un insieme di fenomeni correlati, multidimensionali e dinamici. Tali reazioni
dipendono dalle condizioni associate alla ricezione d'aiuto, ad esempio il modo
in cui il ricevente si sente, il modo in cui valuta e si comporta in relazione al sé
e agli altri (Tessler & Schwartz, 1972). Infine, ma non meno importante,
troviamo il problema dell’efficacia dell’aiuto dato: l’aiuto, infatti, può essere
efficace nel motivare il ricevente a riguadagnare l’indipendenza o può essere
inefficace, realizzando così il primo anello di una catena di passività e
dipendenza.
14
2. RICERCA PASSATA E TEORIA
La precedente ricerca in psicologia sociale sull’aiuto ha analizzato
principalmente il comportamento d’aiuto, oggi l’attenzione si è spostata sulla
richiesta d’aiuto. Le discussioni empiriche e teoriche su questo comportamento
sono state condotte all’interno di tre grandi contesti disciplinari: la ricerca sulla
richiesta di aiuto in psicologia sociale, gli studi epidemiologici sull’utilizzo
dell’assistenza, e la letteratura sul supporto sociale. Ognuna di queste linee di
ricerca ha adottato metodologie differenti, ha indagato varie situazioni
problematiche e ha collocato l’interpretazione dei risultati in diverse tradizioni
teoriche.
La maggior parte delle ricerche condotte in psicologia sociale sono di tipo
sperimentale, nelle quali vengono analizzate situazioni problematiche concrete.
La tipologia di uno studio effettuato in questo contesto vede un individuo
impegnato in un compito in cui si trova ad affrontare numerose difficoltà e il
suo comportamento di richiesta di aiuto, in termini quantitativi o di latenza,
viene utilizzato come variabile dipendente.
La ricerca in psicologia sociale ha ripetutamente dimostrato che gli individui
sono restii a chiedere e ricevere aiuto soprattutto quando l’altro è simile a loro
(Nadler & Fisher, 1986). A causa dello “stress da confronto” che si prova
quando, attraverso la richiesta di aiuto, il soggetto rivela la propria
inadeguatezza ad un altro socialmente vicino. Questa è la principale area di
disaccordo empirico fra la psicologia sociale e gli approcci sul supporto
sociale.
La seconda area di ricerca mostra la richiesta di aiuto come una modalità
alternativa di coping. A livello metodologico queste ricerche si basano
soprattutto sui resoconti che riguardano i comportamenti di richiesta di
supporto che le persone realizzano, o hanno realizzato, durante situazioni
stressanti o particolari periodi di vita. La letteratura sul supporto sociale
sostiene che quando la persona chiede aiuto si affida ad altri intimi o simili a
sé, piuttosto che a persone distanti. Il motivo di questo disaccordo risiede nel
fatto che la letteratura sul supporto sociale si è concentrata maggiormente sulle
15
relazioni con persone intime come coniugi e amici, mentre la letteratura della
psicologia sociale ha guardato ad altri non vicini che vengono utilizzati come
cornice di riferimento per la valutazione di sé stessi.
Il terzo approccio, quello epidemiologico, utilizza i dati d’archivio relativi alla
richiesta di aiuto come variabile dipendente. La maggior parte di queste
ricerche sono state condotte in contesti medici o di salute mentale ed
esaminano questioni relative al numero effettivo di visite effettuate presso le
cliniche di salute mentale o i centri di counseling universitari in relazione a
diverse variabili demografiche. Queste ricerche tendono a focalizzarsi sulla
richiesta di aiuto professionale, piuttosto che interpersonale (es., chiedere aiuto
a professionisti di salute mentale). Nella letteratura relativa a questi studi sono
comuni i resoconti di relazioni lineari in cui la richiesta di aiuto cresce
proporzionalmente al bisogno della persona. Tuttavia, i risultati riportati da
Karabenick (1988) indicano che livelli estremamente alti di bisogno sono
associati ad una scarsa richiesta di aiuto. Egli spiega che in queste situazioni le
persone assumono una posizione di impotenza in cui non riescono né a
chiedere un sostegno esterno né riescono ad auto aiutarsi.
Nonostante le differenze, questi filoni di ricerca cercano tutti di rispondere allo
stesso dilemma di base: cosa spiega la decisione che le persone prendono
quando si trovano in uno stato di bisogno, ad “agire autonomamente” o
“chiedere aiuto” per risolvere la difficoltà, che si trovano ad affrontare?
(Nadler & Fisher, 1986).
2.1. Evidenze empiriche
La ricerca passata si è interessata maggiormente al modo in cui le reazioni del
ricevente sono influenzate dalle condizioni situazionali (caratteristiche
dell'aiuto, dell'helper, del ricevente..), e dalla personalità di chi chiede aiuto. Le
risposte del ricevente possono essere considerate come una funzione
dell’interazione fra tutti questi elementi (Nadler, Fischer, & Streufert, 1976;
Nadler et al., 1985), ma per chiarezza, da molti approcci di ricerca queste
variabili indipendenti sono considerate isolatamente.
16
ξ Caratteristiche del bisogno
La centralità del bisogno è una caratteristica fondamentale del comportamento
di richiesta d’aiuto, esso determina la disponibilità a chiedere. Quando il
bisogno riflette inadeguatezza su dimensioni centrali (ad es. l’intelligenza) le
persone tendono a chiedere meno aiuto a causa dell’elevata minaccia per il sé
intrinseca alla richiesta, mentre, per dimensioni personali non-centrali, le
persone potrebbero essere più disposte ad affidarsi agli altri (Nadler, 1991).
L’ego-centralità del bisogno è una condizione certamente necessaria affinché la
richiesta possa essere considerata più o meno costosa da un punto di vista
psicologico, ma non è sufficiente, per scoraggiare chi è in stato di bisogno dal
chiedere aiuto. A questo primo aspetto, è necessario aggiungere il livello di
bisogno percepito della persona.
Molti studi dimostrano che livelli estremamente alti di bisogno percepito, sono
associati ad una scarsa richiesta d’aiuto (Amato & Saunders, 1985) questo
fenomeno porta le persone che si trovano in situazioni particolarmente gravi di
bisogno, ad assumere una posizione di impotenza appresa
2
, in cui non riescono
né a chiedere un sostegno esterno, né ad auto-aiutarsi.
Stati di bisogno molto alti sono associati ad alti livelli di minaccia alla stima di
sé. In questo caso, ciò che risulta minacciata è la percezione che le persone
hanno rispetto alla propria abilità. Se il bisogno di essere aiutati è alto, gli
individui che godono di un buon livello di controllo (ad es. alto livello di self-
efficacy, alto livello di autostima..) sapranno meglio aiutare loro stessi e
difficilmente vivranno stati di impotenza appresa, rispetto a chi non avendo un
elevato livello di controllo difficilmente sarà disposto a chiedere aiuto o ad
auto aiutarsi. Il livello di controllo sulla situazione percepito del ricevente,
costituisce quindi un importante moderatore delle sue reazioni, quando l’aiuto
è minaccioso ma è associato ad elevate aspettative di controllo, si prova una
minaccia del sé controllabile. Se invece l’individuo nutre basse aspettative di
controllo sulla situazione, allora si verifica una minaccia del sé incontrollabile
2
L’impotenza appresa (Seligman, 1975), descrive un modello di risposta che si può osservare a
causa dell’esposizione a risultati non congruenti o incontrollabili. è uno stato caratterizzato da
deficit di apprendimento, emozioni negative e comportamento passivo, quando le persone
apprendono che le loro risposte sono indipendenti dai risultati desiderati.
17
che in termini comportamentali porta ad una minore richiesta d’aiuto (Nadler,
1991).
ξ Caratteristiche dell’aiuto
Le caratteristiche dell’aiuto agiscono sulle percezioni esterne del ricevente e
sui suoi comportamenti diretti verso l’esterno. I riceventi attribuiscono maggior
interessamento ad un donatore il cui aiuto è considerato come indicatore di un
sacrificio piuttosto grande e valutano lo stesso più positivamente (Fisher &
Nadler, 1976; Gergen, Ellsworth, Maslach, & Seipel, 1975). Ricevere un aiuto
che rappresenta un “costo” relativamente alto per il donatore, è un’esperienza
che porta il ricevente a considerare l’aiuto e l’helper stesso, sotto una luce
positiva, perché trasmette informazioni positive circa l’interesse del donatore,
mentre ricevere un aiuto “poco costoso”per chi lo offre, è vissuta come
un'esperienza minacciosa per il sé, perché accentua la sensazione di fallimento
e dipendenza del ricevente, inoltre, maggiori quantità di aiuto possono
condurre a percepire l’helper, motivato da un interesse reale per il ricevente in
stato di bisogno (Greenberg & Frish, 1972). Invece, se l’aiuto è dato con delle
condizioni sull’impiego dello stesso, e quindi a “condizioni restrittive”, è meno
probabile esso venga accettato serenamente (Gergen, Morse & Kristeller,
1973).
ξ Caratteristiche dell’helper
Molti studiosi si sono chiesti se le persone rispondono in modo differente
all’aiuto ricevuto da diversi tipi di helper. Dati validi segnalano una risposta
affermativa.
Alcuni studi, servendosi di concetti derivati dalla teoria delle attribuzioni
(Nadler, Fisher & Streufert, 1976), dall’analisi di Goffman sulle azioni umane
(Clark & Mills, 1979), e dalla teoria dei ruoli (Bar-Tal et al., 1977), indicano
che l’aiuto ricevuto da una persona con la quale c’è una relazione positiva,
come un amico, è un evento interpersonale positivo perché una persona intima
dovrebbe comprendere maggiormente senza giudicare la persona in stato di
bisogno.
18