7
devono accompagnare i modelli al fine di ottenere una
valutazione completa dell’azienda.
Nel terzo capitolo si discute dei livelli di analisi della
previsione del rischio di credito. Infatti, questa può essere
condotta a due livelli distinti. Da un lato, si può
intervenire sulle caratteristiche delle singole esposizioni
per ridurre le perdite che potrebbero scaturire da ognuna
di esse, dall’altro è necessario intervenire sulla struttura
complessiva del portafoglio crediti della banca per
mantenerne sotto controllo il grado di diversificazione.
Analizzando tale secondo aspetto si entra nell’ambito
dello studio dei modelli basati sul Value at Risk, e cioè, i
modelli sviluppati dalle maggiori istituzioni finanziarie.
Il quarto capitolo entra, invece, nel merito degli Accordi
di Basilea, tema quanto mai attuale data l’entrata in
vigore, gennaio 2007, delle novità introdotte dal Nuovo
Accordo sul Capitale e vengono posti in evidenza i limiti
della precedente formulazione del 1988. Le varie crisi che
si sono succedute nei mercati internazionali a partire dagli
inizi degli anni ’90 fino ad oggi, hanno indotto il Comitato
di Basilea ad elaborare una proposta di revisione che
potesse permettere di superare i precedenti limiti, e tale
proposta è stata oggetto di numerosi studi suggeriti dai
timori che il Nuovo Accordo ha generato sul presunto
razionamento del credito che potrebbe derivarne per le
PMI.
L’ultimo capitolo è il caso pratico della tesi, contiene
l'elaborazione di una procedura di valutazione e
attribuzione di rating frutto dell’esperienza condotta
presso la Banca del Cilento, BCC operante nel territorio
8
del Cilento-Vallo di Diano. Oltre a tale elaborazione, si
analizzano anche il Fondo di Garanzia introdotto con
legge 662/96 e gli elementi principali del nuovo sistema di
classificazione dei rischi di credito, CRC-BCC, sottoposto
alla validazione da parte della Banca d’Italia, che le
Banche di Credito Cooperativo inizieranno ad utilizzare a
partire dal prossimo anno.
9
CAP I: IL RISCHIO DI INSOLVENZA
1.1. - Insolvenza e Orizzonte di Rischio,
concetti apparentemente intuitivi
1.1.1. - L’insolvenza
Quando un soggetto viene considerato insolvente?
In particolare, un’impresa è considerata insolvente solo
quando iniziano le procedure di fallimento oppure anche
prima può essere considerata tale?
Molteplici sono i soggetti, singoli studiosi o
istituzioni, che hanno tentato di rispondere a queste
domande. Secondo la teoria classica di Altman
1
, è
necessario distinguere tra insolvenza in senso statico e
dinamico. In particolare, la prima si verifica quando
l’impresa ha un capitale netto negativo
2
, mentre la
seconda si ha quando il cash flow aziendale è insufficiente
a coprire tutti i pagamenti richiesti.
Successivamente, una parte della letteratura ha
legato il concetto di rischio di insolvenza a quello di
financial distress, ovvero quando il cash flow operativo
1
Si veda: E.I.Altman, “Financial ratios, discriminant analysis and the
prediction of corporate bankruptcy”, in Journal of Finance n.23,1968.
pagg. 589-609.
2
Vale a dire, se gli impieghi a Stato Patrimoniale sono minori del
valore dei suoi debiti.
10
aziendale non permette di poter far fronte alle
obbligazioni correnti
3
.
Mentre le definizioni sopra riportate sono state
estratte da articoli, viene ora presa in considerazione una
definizione più moderna e più elaborata del rischio default
a cura di Sironi e Marsella
4
, che definisce il termine
rischio di credito
5
come “la possibilità che una variazione
inattesa del merito creditizio di una componente nei
confronti della quale esiste un’esposizione, generi una
corrispondente variazione inattesa del valore di mercato
della posizione creditoria”. Il rischio di credito non deve
essere inteso semplicemente come la possibilità di
insolvenza di una controparte, ma può anche essere
rappresentato dal deterioramento del merito creditizio
inteso come una delle manifestazioni del rischio di
insolvenza. In particolare, secondo gli autori, il rischio di
default si divide in “rischio di insolvenza” e “rischio di
spread” dove, il primo rappresenta il rischio di perdita
conseguente al rischio di insolvenza del debitore, mentre
il secondo descrive il rischio di una perdita conseguente al
semplice deterioramento del merito creditizio di
3
K.Wruck, “Financial distress, Reorganization, and Organizational
Efficiency”, in Journal of financial economics, n.27, pag.419.
4
A.Sironi, M.Marsella, (a cura di), La misurazione e la gestione del
rischio di credito. Modelli, strumenti e politiche, Bancaria
Editrice,1998.
5
Quando si parla di rischio di credito, ci si mette nella posizione delle
banche che valutano la possibilità o meno di riuscire a riscuotere il
credito.
11
quest’ultimo, cui seguirebbe un innalzamento dello spread
richiesto dal mercato.
Una ulteriore componente fondamentale nella
definizione del rischio di credito, è la necessità che la
situazione d’insolvenza sia completamente inaspettata
altrimenti la banca (o l’impresa) sarebbe in grado di
prevedere tale problema ed evitare il rischio.
Nello studio presentato da Sironi e Marsella inoltre,
il rischio di credito si suddivide in tre componenti
essenziali.
La prima è rappresentata dal “tasso di perdita
atteso”, cioè dal valore medio della distribuzione dei tassi
di perdita. La seconda componente è rappresentata dalla
“variabilità della perdita attorno al suo valor medio” che
rappresenta il vero fattore di rischio, cioè il rischio che la
perdita si dimostri, ex post, superiore a quella inizialmente
stimata. La terza componente è rappresentata dall’“effetto
diversificazione”, cioè dalla diminuzione che il tasso di
perdita inattesa subisce quando all’interno del medesimo
portafoglio vengono inseriti impieghi i cui tassi di perdita
inattesa risultano caratterizzati da una correlazione
imperfetta. Quest’ultima appare essere la componente
maggiormente interessante per la previsione del rischio di
credito. Infatti, le variazioni dei rapporti
sofferenze/impieghi e dunque di probabilità di insolvenza
fra settori produttivi e aree geografiche, sono
particolarmente forti e si accentuano in corrispondenza
delle fasi di crisi. In questo modo, è possibile osservare
come un’efficace politica di diversificazione del
portafoglio impieghi, consenta di ridurre
12
significativamente, a parità di rendimento atteso, il grado
di rischio complessivo del portafoglio stesso.
Dopo aver fatto riferimento alla letteratura, appare
opportuno verificare come viene inteso lo stato di
insolvenza da parte delle società di rating
6
.
La definizione suggerita dall’Agenzia di rating Standard
& Poor’s (S&P)
7
, dichiara che “si ha default quando
vengono meno la capacità o la volontà del debitore di
tenere fede ai suoi impegni finanziari relativi a
un’obbligazione, rispettandone i termini originari”. In
particolare si ha insolvenza
8
:
- Quando un pagamento di interessi e/o capitale è
dovuto e non viene effettuato;
- In caso di richiesta spontanea di accesso ad una
procedura concorsuale;
- In seguito ad un’offerta di ristrutturazione del
debito che ne riduce chiaramente il valore totale.
6
In particolare, si farà riferimento alla definizione suggerita
dall’Agenzia di rating Standard & Poor’s. Per l’analisi di tale
definizione è stato utilizzato il testo a cura di A.Resti., Misurare e
gestire il rischio di credito nelle banche: una guida metodologica (a
cura di), Alpha Test, Milano, 2001.
7
In questo caso, si è semplificata la definizione che viene presentata
dall’agenzia. Tuttavia, questa è interamente disponibile nel
documento Corporate Ratings Criteria al sito dell’agenzia:
www.standardandpoors.com .
8
E’ necessario specificare che per le agenzie di rating, insolvenza si
ha anche rispetto ad una sola situazione debitoria. Dunque se chi ha
preso a prestito paga il debito tranne un obbligazione, si parla per
questa precisa posizione di insolvenza selettiva.
13
È necessario sottolineare che, se manca anche solo una di
queste tre condizioni, S&P non considera insolvente il
soggetto debitore.
La definizione appena espressa, seppur articolata,
risulta comunque avere carattere meramente
esemplificativo in quanto ogni istituzione finanziaria è
libera di definire dei parametri propri per valutare il
rischio di insolvenza di un’impresa. Tuttavia il Resti
evidenzia dei princìpi generali che un istituto di credito
deve tenere presente rispetto al problema dell’insolvenza:
- Una definizione di default “ampia e prudenziale”
consente di intercettare per tempo le possibili patologie
creditizie, ma si presta a interpretazioni soggettive che
possono pregiudicarne l’applicazione, su basi omogenee,
in tutte le divisioni e dipendenze della banca;
- Una definizione “ristretta” rischia, invece, di
fotografare con ritardo eventuali fenomeni di dissesto e di
crisi finanziaria. Ad esempio, una caratterizzazione basata
esclusivamente sull’esistenza di una procedura
concorsuale in atto finirebbe per classificare come sane
anche imprese palesemente incapaci di fronteggiare i
pagamenti correnti o che hanno già avanzato alla banca
una espressa richiesta di ristrutturazione del debito;
- Infine, la definizione di insolvenza deve essere
esplicitata con chiarezza e portata a conoscenza di tutti gli
analisti della banca. Il vero pericolo appare infatti essere
14
quello che strutture diverse, all’interno dello stesso
intermediario, applichino criteri differenti per valutare se
una controparte vada considerata o no insolvente.
Emerge comunque chiaramente, che il concetto di
default fa riferimento ad un processo di crisi pressoché
irreversibile, tale da rendere necessaria l’escussione delle
garanzie e da far ritenere probabile la perdita di una quota
significativa del capitale prestato. In particolare,
l’insolvenza è uno stato che Resti definisce “assorbente”
in quanto rappresenta l’ultimo stadio nel processo di
degenerazione degli equilibri finanziari.
Nonostante la definizione di insolvenza da parte
degli istituti finanziari sia completamente libera
9
, si è resa
sempre più necessaria la creazione di uno standard per la
definizione di tale problema, dunque molte aziende di
credito tendono comunemente ad identificare il default
con il momento del passaggio in sofferenza
10
.
Rispetto al concetto di “sofferenza”, la Banca
Centrale Europea elabora un insieme di informazioni
statistiche sul rischio di insolvenza basate proprio su tale
concetto in una versione “rettificata” per tener conto di
eventuali difformità di giudizio da parte delle banche
segnalanti
11
.
9
Quanto detto significa che non esistono né leggi né principi che
definiscono il rischio di default.
10
Così infatti viene definito dalla normativa di vigilanza emanata
dalla Banca d’Italia.
11
Su tale definizione si rimanda al testo di Resti citato in precedenza.
15
Ulteriore puntualizzazione necessaria sulla
definizione del rischio di credito, è la suddivisione nelle
sue variabili determinanti:
12
- PD – Probability of Default: è la probabilità di
insolvenza della controparte, cioè la probabilità che il
soggetto finanziato non sia in grado, per qualsiasi ragione,
di adempiere integralmente alla restituzione del
finanziamento alla scadenza dello stesso;
13
- LGD – Loss Given Default: Perdita in caso
d’inadempienza, è la percentuale di perdita effettiva sul
credito, cioè il costo dell’insolvenza al netto della
porzione recuperata;
- EAD – Exposure At Default: Esposizione in caso
d’inadempienza, è l’esposizione al rischio riscontrata al
momento dell’insolvenza o al momento del calcolo dei
requisiti minimi di capitale;
- M – Maturity: Scadenza effettiva, è la scadenza
contrattuale del finanziamento, o la media ponderata delle
scadenze in caso di rimborso rateale.
Solitamente in seguito all’implementazione di un
modello di previsione dell’insolvenza, si giunge alla
12
Tali variabili costituiscono i fattori di ponderazione delle
operazioni di finanziamento presi in considerazione da Basilea 2 e
sono sintetizzati nella definizione di Perdita Attesa (EL), ovvero,
EL=PDxEADxLGD.
13
In particolare tale variabile riveste un ruolo primario all’interno del
Nuovo Accordo di Basilea, dato che questa viene misurata partendo
dal rating assegnato ad ogni controparte.
16
creazione di un sistema di rating per la valutazione del
rischio di credito. Risulta dunque necessario, a questo
punto, chiarire la nozione di “rating”. Con questo termine
si vuole definire un giudizio sintetico che consente di
quantificare il rischio di credito di una controparte,
attraverso l’analisi congiunta di variabili finanziarie e non.
Per dare un “giudizio di rating” è necessario:
- Definire un’analisi settoriale e competitiva;
- Effettuare ed analizzare l’analisi di bilancio;
- Effettuare l’analisi qualitativa;
- Effettuare una valutazione soggettiva del
relationship manager;
- Verificare e valutare i dati comportamentali;
- Effettuare un’analisi andamentale.
Dall’analisi condotta, si può facilmente notare che
non esiste una definizione univoca del rischio di
insolvenza. Tuttavia, qualsiasi sia l’obiettivo, è necessario
definire chiaramente che cosa si intende con rischio di
default in quanto è importante per riuscire a capire quale
situazione aziendale si sta analizzando. Se manca questo
passaggio sarà difficile, se non impossibile, riuscire a
comprendere quali variabili inserire nel modello per
l’analisi dell’insolvenza.
14
14
A questo proposito vale la pena ricordare che il Comitato di
Basilea nel Nuovo Accordo ha proposto una definizione unica
d’insolvenza per il metodo di adeguatezza patrimoniale basato sui
rating interni. Si veda: Basel Committee on Banking Supervision, The
New Basel Capital Accord,gennaio 2001.
17
L’adozione di un unico concetto di default, valido
tre banche e tra paesi, mira a trovare un punto di equilibrio
tra due obiettivi in una certa misura contrastanti: cogliere
con adeguata tempestività lo stato di dissesto della
clientela e, al contempo, evitare una eccessiva soggettività
nella classificazione delle esposizioni.
La definizione proposta dal Comitato prevede che la
clientela venga classificata in default in presenza di
almeno uno dei seguenti eventi creditizi:
a) l’impresa non è in grado di pagare il debito totale
(capitale, interessi o commissioni);
b) vi sono perdite associate ad un’obbligazione
creditizia, quali svalutazioni, accantonamenti
specifici ovvero piani di ristrutturazione del
debito;
c) pagamenti scaduti da più di 90 giorni
15
;
d) situazioni di fallimento o ad esso associabili.
Molti operatori hanno, però, messo in evidenza la
diversa natura del default per il portafoglio corporate
rispetto a quello retail: se nel primo caso l’insolvenza
15
Le norme transitorie prevedono che per alcuni paesi tale termine
possa essere elevato a 180 giorni per un periodo massimo di 5 anni
successivamente all’entrata in vigore dell’accordo. Per l’Italia vale
tale deroga. Pertanto, fino al 2011, per le banche italiane la situazione
di inadempienza del debitore sarà determinata da crediti scaduti da
180 giorni.
18
generalmente si manifesta a livello di cliente, nel secondo
essa si registra spesso a livello di singola operazione (non
è rara la situazione in cui al default sul pagamento
effettuato con carta di credito non corrisponde
l’insolvenza sulle altre linee di credito). L’ISDA
16
ritiene
più opportuno che per il portafoglio retail le quattro
fattispecie considerate dal Comitato siano riferite alla
singola transazione; inoltre, il criterio del mancato
pagamento da oltre 90 giorni dovrebbe essere interpretato
con maggiore flessibilità, in quanto il periodo temporale
che caratterizza i ritardi nei pagamenti differisce a
seconda dei prodotti, ad esempio, 120 giorni per le carte di
credito, 90 giorni per il credito al consumo.
In conclusione, l’introduzione di una definizione
univoca a fini regolamentari, articolata nelle fattispecie
menzionate, presenta il vantaggio di contribuire al
mantenimento della parità di condizioni concorrenziali, ed
ovviamente, si potrebbe arrivare a comprendere meglio
quale situazione finanziaria è da considerarsi a rischio (di
insolvenza) o meno.
16
ISDA, ISDA’s response to the Basel Committee on Banking
Supervision’s consultation on the New Capital Accord, May 2001,
www.bis.org.