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teorizzato da Nonaka e Takeuchi, che si concreta in quattro fasi: socializzazione,
esternalizzazione, combinazione, internalizzazione.
Il terzo capitolo si propone di spiegare il ruolo che assolve la conoscenza in ambito
distrettuale; s’inizia con la descrizione dei modelli di formazione e di riproduzione
evolutiva dei distretti, per poi passare ad un’interpretazione di questi fenomeni in
chiave cognitiva, quindi, si parla di trasferimento e di combinazione di conoscenze.
A proposito del trasferimento di conoscenza s’illustrano gli step del processo e
soprattutto i meccanismi del trasferimento(osservazione imitativa, mobilità delle risorse
umane e relazioni sociali), mentre in materia di combinazione si fa riferimento alla
produzione di sapere nuovo dato dalla combinazione della conoscenza posseduta e
quell’assorbita attraverso i suddetti meccanismi; successivamente si descrive come le
dinamiche cognitive si manifestano nelle aree sistema integrate, cioè nei distretti
canonici.
Si prosegue spostando il discorso dagli sviluppi interni al distretto verso quelli esterni
ad esso; si parla in proposito delle modalità di assorbimento delle conoscenze esterne
al distretto, quindi, di reclutamento di risorse umane che operano all’esterno e di
relazioni con gli attori della filiera produttiva, ma anche dell’interesse delle
multinazionali per le imprese distrettuali e di enti o associazioni distrettuali che
fungono da interfaccia con l’ambiente esterno.
Il capitolo termina con l’esplicitazione delle strategie che i distretti devono mettere in
atto riguardo al cambiamento degli scenari competitivi e per superare la possibile
chiusura verso l’esterno, senza dimenticare l’aspetto locale del distretto e la continua
stimolazione dei meccanismi di trasferimento e combinazione delle conoscenze; inoltre,
si guarda alle tendenze evolutive dei distretti e nello specifico al passaggio da forme di
coordinamento distribuito a forme con centri di coordinamento, fenomeni che, secondo
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il tipo di distretto, assumono diversa natura: attori con funzioni di meta-management,
sviluppo di processi di bipolarizzazione delle imprese distrettuali e affermazione di
imprese leader.
Nel quarto ed ultimo capitolo viene esposto un caso pratico che mette a fuoco il cluster
aerospaziale del Lazio; qui l’obiettivo è quello di esaminare i comportamenti di alcuni
attori del cluster e verificare in che modo avviene il trasferimento della conoscenza tra
gli stessi. Il compito è facilitato dall’utilizzo di un questionario che indaga sul rapporto
tra il soggetto intervistato e la capacità di, innovare al suo interno (innovazione di
prodotto, processo, organizzativa) e collaborare per l’innovazione. Il questionario è
stato sottoposto ad un’impresa del distretto aerospaziale (DTA), la Chorus, ad
un’associazione di piccole e medie imprese aerospaziali, l’AIPAS e ad un ente di
ricerca pubblico, l’ENEA.
Nel capitolo sono esposti, sotto forma di scheda, i risultati del questionario per ogni
intervistato, che hanno come punto d’arrivo una comparazione degli stessi; in più, si
vuole mostrare che tipo di relazioni vi siano tra gli attori del cluster e come esse
determinino l’innovazione interna, ed infine, in che modo favoriscano il trasferimento
di conoscenza.
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CAPITOLO 1
IL DISTRETTO INDUSTRIALE
Origini, caratteristiche, evoluzione
1.1 Dal miracolo economico al made in Italy
Al termine della seconda guerra mondiale, l’Italia poteva apparire
all’osservatore esterno, come un paese che - diviso in un Nord semimoderno ed
un Sud ancora immerso nelle brume del Medioevo - con un modesto reddito pro-
capite, l’altissimo grado di ruralità ed un apparato produttivo in ritardo si
mostrava arretrato ed ai margini dell’Occidente (Becattini, 2000a). Invece,
ultimata, col 1949-50, la ricostruzione del suo apparato produttivo e sistemate le
questioni istituzionali, l’Italia, inizia una corsa che la porterà, in anni recenti, al
sesto - settimo posto nel mondo per livello di reddito, importanza industriale e
peso nel commercio mondiale. Il periodo del dopoguerra, che si chiude nel
1972-73, vede una continua espansione economica dell’Italia ed al suo interno
un sottoperiodo, che va dal 1958 al 1963, che è stato denominato “miracolo
economico”. Si tratta d’anni di crescita delle grandezze macroeconomiche ed in
cui l’industria, le costruzioni, le esportazioni e gli investimenti crebbero ad un
ritmo tra il 9 e l’11 per cento annuo, aumentando il carattere industriale del
sistema economico italiano e aprendo sempre più il paese agli scambi con
l’estero (Zamagni, 1990).
I motivi per i quali un paese largamente agricolo e con limitate e concentrate
presenze industriali ottenne quei risultati sono vari. In primo luogo, vanno
ricercati sull’abbondanza dell’offerta di lavoro a buon mercato provenente dai
milioni di disoccupati del dopoguerra e della sottoccupazione agricola; un
modello di sviluppo, quello italiano, basato sull’illimitata offerta di manodopera
nel quale i mutamenti di produttività sono assorbiti dai profitti più che dai salari,
a causa di un’offerta elastica nella forza-lavoro, così da determinare
un’espansione degli investimenti, incrementi di produttività più rapidi degli
aumenti salariali, più profitti, più investimenti. Gli aumenti di produttività erano
trasferiti in prezzi all’esportazione ridotti, il che ne provocava l’espansione, e
quindi, nuovi profitti e produttività (Kindleberger, 1974). In secondo luogo, il
“miracolo” si può spiegare come un’esplosione d’imprenditorialità fino a quel
momento inespressa ed ancor di più nel periodo fascista. Si tratta in sostanza del
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disagio profondo, dello strato più qualificato ed intraprendente dei lavoratori, per
un senso di compressione della loro personalità, di sottoutilizzo delle capacità e
della loro intelligenza, a causa di un’organizzazione produttiva rigida e
gerarchizzata, che non prestava attenzione al desiderio di stima, alle ambizioni,
alle speranze e alle illusioni della cosiddetta manodopera (Fuà, 1965).
Un’altra faccia del miracolo economico mostra un’autentica ecatombe di piccole
imprese: mugnai, falegnami, fabbri, ciabattini e così via, scompaiono un po’
dappertutto, sia a Nord che a Sud, negli anni cinquanta e sessanta; ma se si
analizza meglio la situazione si nota che mentre nel Sud si assiste effettivamente
ad una strage dell’artigianato e piccola industria, nel Centro-Nord, gli artigiani
non scompaiono affatto, ma si trasformano spesso, in piccole imprese
manifatturiere, o, se scompaiono, non lo fanno in modo uniforme. Tra gli anni
cinquanta e gli anni settanta si evidenziano meglio i tratti del cambiamento,
infatti, i centri manifatturieri si moltiplicano al Centro-Nord ed indeboliscono
enormemente al Sud, ed in particolare nel Centro-Nord-Est sorgono
concentrazioni territoriali di imprese che alcuni anni dopo prenderanno il nome
di distretti industriali (Becattini, 2000a).
1.2 L’affermazione del made in Italy
La già citata espansione economica, che ha portato l’Italia a scalare il vertice dei
paesi industrializzati, è stata per anni attribuita, e quasi all’unanimità
riconosciuta, all’azione della grande industria, dei grandi gruppi, l’alta finanza e
dell’export altamente tecnologico. Nulla si diceva invece, sul ruolo della piccola
impresa, sino a tempi recenti, quando si è accertato che le nostre salate bollette,
energetiche ed alimentari, sono state pagate dai prodotti di quelle sottovalutate
piccole e medie imprese. Si tratta di prodotti che si sono affermati sui mercati
mondiali, generando vantaggi competitivi per le rispettive imprese, e che
possono ricollegarsi per le loro caratteristiche, principalmente, al made in Italy.
Esso, secondo Fortis (1998), comprenderebbe i prodotti di un complesso di
settori che, nell’immaginario collettivo mondiale, sono strettamente associati
all’immagine del nostro paese. Gli elementi principali sono: a) i beni ad uso
ripetuto, non di vasta serie, per la cura della persona(abiti, calzature, gioielli
ecc.); b) i beni ad uso ripetuto del complesso arredo-casa(mobili, piastrelle,
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rubinetteria ecc.); c) molti fra i beni alimentari che fanno parte della cosiddetta
“dieta mediterranea”(pasta, parmigiano, olio ecc.). Questi prodotti inoltre hanno
determinato l’ingresso e l’affermazione sul mercato di produzioni strumentali e
collaterali ad essi che si possono etichettare come made in Italy allargato. Il
successo nel commercio mondiale, ha dato avvio allo studio di Porter (1990) ed
alla ricerca sul dove e come erano prodotte le merci in cui l’Italia deteneva un
vantaggio competitivo. I risultati dell’indagine, (e anche di quelle successive),
mostrarono che il grosso del made in Italy più qualificato proveniva dai distretti
industriali e, allo stesso modo, che il grosso delle produzioni tipiche dei distretti
industriali apparteneva al made in Italy. A successiva conferma di ciò si
pongono le osservazioni di Conti e Menghinello (1997), che affermano che la
natura del vantaggio competitivo dei sistemi locali, risiede nel modo in cui le
singole unità interagiscono con il contesto locale e, in particolare, con le
conoscenze/esperienze produttive ivi sedimentate. Esse, infatti, stimolano
continue innovazioni di prodotto, processo e mercato da una comune base di
conoscenze disponibili. Inoltre, la presenza di un contesto territoriale definito e
socialmente coeso consente di realizzare processi cumulativi sulle conoscenze
sviluppate e di preservare le condizioni più idonee affinché tali processi si
compiano. Non si tratta però solo di nessi d’induzione tecnica e/o
interdipendenza legati alla rete locale dei mercati, ma anche di fenomeni di
contagio intellettuale, derivanti dalla commistione intima dei momenti produttivi
e della vita ordinaria degli agenti umani del distretto. In sostanza dentro il
coacervo delle produzioni di un paese, esistono tanti “nucleoli organici” di
produzioni legate fra loro da qualcosa che è indotto dalla prossimità territoriale e
culturale che si realizza nei sistemi locali di piccole e medie imprese che vanno
sotto il nome di distretti industriali (Becattini, Menghinello 1998). Questo
insieme di “nucleoli” rappresenta il core distrettuale del made in Italy, che
secondo le ricerche effettuate raggiunge poco più di un quinto dell’export totale.
Il quadro di riferimento illustra un processo capitalistico “imbrigliato” in una
struttura produttiva e sociale - il distretto industriale – che obbliga
l’accumulazione del capitale a trascinarsi dietro gran parte della società locale;
in questo modo il distretto realizza lo spostamento del suo baricentro produttivo
verso produzioni “vicine”, ed una modificazione della sua riproduzione sociale
interna mantenendo la propria identità (Becattini 2000a).
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1.3 La formazione dei distretti industriali
L’imprevista fioritura postbellica dei distretti industriali s’inquadra nelle
seguenti circostanze:
a) l’aumento notevole e continuo delle possibilità di collegamento di certi tipi di
prodotto sui mercati di paesi che avevano realizzato un aumento sensibile e
continuo del loro PIL pro capite;
b) l’incapacità, da un lato dei paesi che avevano sperimentato una
industrializzazione classica e dall’altro dei paesi civilmente arretrati, di
rispondere a quel particolare tipo di bisogni;
c) il fatto che l’Italia avesse conservato, ancora alla fine della seconda guerra
mondiale, in alcune sue zone, la “complessità socioeconomica”(ad esempio la
coesistenza di forma produttive usualmente ascritte a stadi diversi dello sviluppo
industriale, come la fabbrica, il laboratorio artigiano, il lavoro a domicilio,
l’autoproduzione) tipica della fase storica antecedente la rivoluzione industriale
(Becattini, 2000a).
Con la miriade di piccole e piccolissime imprese manifatturiere, “immerse” nelle
società locali di una parte del paese (l’Italia “terza”), l’Italia avrebbe approfittato
egregiamente dei “diradamenti di concorrenza” prodottisi qua e là sul mercato
mondiale, a causa della concomitanza della crescita del reddito pro capite e del
contemporaneo sconvolgimento di costumi e idee. Conquistate posizioni di
preminenza – i cosiddetti “vantaggi competitivi” - nel mercato mondiale di tutta
una serie di produzioni, i produttori-esportatori italiani le avrebbero poi
conservate e consolidate con una prassi d’intensa concorrenza innovativa sulle
caratteristiche, soprattutto estetiche, ma anche funzionali, del prodotto (Porter,
1990).
Un diverso approccio all’analisi sulla formazione dei distretti, guardando alla
loro differente distribuzione territoriale, è adottato da Brusco (1989) che
individua i seguenti fattori:
a) la diffusione della mezzadria, (nelle aree della Terza Italia), che ha
sollecitato il crescere delle capacità imprenditoriali utilizzate negli anni
successivi per la gestione delle piccole imprese;
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b) il ruolo delle città come luoghi di traffici, dell’organizzazione commerciale e
finanziaria e luoghi dei mercati che hanno sviluppato parte della prima
generazione di imprenditori;
c) l’ingresso delle grandi imprese in settori, che successivamente, grazie alla
diffusione delle competenze tecniche e professionali, sono diventati terreno
fertile per lo sviluppo di distretti industriali ad opera di quei lavoratori
dipendenti della grande impresa ora trasformatisi in lavoratori autonomi;
d) il ruolo del sistema scolastico come fornitore di elementi teorici
fondamentali del mestiere per gli operai, nelle aree di diffusione della
piccola impresa;
L’insieme di questi fattori, individua il percorso lungo il quale le singole
comunità locali hanno accumulato competenze e capacità imprenditoriali,
tecniche e commerciali; ed è caratteristica distintiva dei distretti industriali la
diffusione ampia di queste conoscenze in tutti gli strati sociali andando ad
alimentare la crescita di nuove imprese. Solo la collaborazione tra operai può
spiegare come, in conformità ad incontri lavorativi e discussioni, un’esigenza
poco chiara può risolversi in una minimizzazione di costi o in nuovi prodotti.
1.4 Le caratteristiche del distretto industriale marshalliano
Dopo aver focalizzato l’attenzione sulle origini della formazione dei distretti
industriali, si passa ora ad analizzare il distretto, teorizzato secondo l’approccio
neo-marshalliano, come concetto socio-economico ed i singoli soggetti che lo
costituiscono. Intanto possiamo definire il “distretto industriale come un’entità
socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale
circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di
persone e di una popolazione di imprese industriali” (Becattini, 2000b). Il
processo di autocontenimento e la progressività della divisione del lavoro ,
insieme alla specializzazione produttiva che vi si realizzano, producono un
crescente surplus di prodotti che non possono essere venduti nel distretto; si ha,
quindi, un problema di collocazione di tale surplus sul mercato esterno che
determina la nascita di una rete stabile di collegamenti del distretto coi suoi
fornitori e clienti. Alle caratteristiche “locali” del distretto (territorio, comunità,