Tuttavia, la mia ricerca si occuperà degli appelli intimidatori solo all’interno di
pubblicità con fini sociali, ed in particolare di quelle campagne definite di
prevenzione. Sarà quindi utile spiegare perché gli appelli alla paura sono ritenuti
importanti all’interno di questo specifico settore comunicazionale. Per fare ciò sarà
necessario specificare cosa s’intende per pubblicità di prevenzione e definire gli
obbiettivi che tali comunicazioni vogliono raggiungere. Dopo aver dichiarato che le
campagne di prevenzione sono volte al cambiamento dell’individuo, si farà ricorso
ad alcune teorie di psicologia sociale che spiegano le diverse modalità del
cambiamento individuale (cognitivo, d’azione, comportamentale, di valori).
Una volta definito il territorio della ricerca verrà spiegato in modo dettagliato la
costruzione di un fear appeal e le variabili da cui dipende in generale la sua efficacia,
attenendosi alle teorie esposte da diversi studiosi. Trattandosi inoltre di un messaggio
che fa leva sulle componenti affettive e cognitive dell’individuo, bisognerà anche
stabilire dei modelli di valutazione etica che ne permettano un adeguato utilizzo,
saranno di aiuto per raggiungere tale scopo gli studi di autori come Duke, Pickett,
Carlson e Grove (1993) e Arthur e Quester (2003). Infine verranno descritti i
principali modelli teorici del fear arousal process, i quali saranno utili anche per
capire i casi sperimentali che verranno trattati in seguito.
Tutto ciò rientrerà a far parte dell’argomento del primo capitolo, in modo da poter
fornire una visione completa del fear arousing appeal prima di iniziare l’analisi
dettagliata di alcuni casi.
All’interno del secondo capitolo, restringendo ancora di più il fuoco della ricerca, si
passerà all’analisi dell’utilizzo degli appelli alla paura in un determinato campo delle
pubblicità di prevenzione: quello della prevenzione dell’AIDS. Sarà immediatamente
evidente che anche in questo caso, come nella parte teorica, che la maggior parte
delle ricerche condotte è stata svolta su territori oltre oceano, soprattutto americani.
Ciò è probabilmente determinato dal fatto che nei paesi statunitensi il problema della
prevenzione dell’AIDS è stato subito affrontato con una forte attività
comunicazionale. Ciò probabilmente a causa, come affermano Frankenberger e
Sukhidal (1994), del fatto che tra fine anni ’80 e inizio anni ’90, il tasso di crescita
dei casi di AIDS aumentava del 21% ogni tre mesi sull’intero territorio americano.
Per sottolineare l’importanza degli Stati Uniti nel campo della prevenzione dell’HIV
6
verrà riportata un’analisi retorica delle prime tre campagne di prevenzione (1987 –
1988 -1989), tale ricerca è stata condotta nel 1991 da Bush e Boller. I due autori,
inoltre, offrono inconsciamente la possibilità di vedere a macro livelli la costruzione
completa di un fear arousal process; essi infatti dimostrano che nell’arco di tre anni
di campagne di prevenzione dell’AIDS, si sono presentati i tre fattori fondamentali
che permettono il corretto funzionamento di un fear appeal: informare/educare
(1987); generare paura (1988); offrire una soluzione (1989).
Infine, dopo avere riportato, l’analisi di cinque ricerche sperimentali all’interno delle
quali si cercherà di dimostrare la validità di tutti i modelli teorici, si cercherà di
valutare e dare un giudizio conclusivo sella reale efficacia dei fear appeals.
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CAPITOLO I
FEAR AROUSING APPEAL
1.1 Il fear appeal nelle campagne di prevenzione sociale
“Il fear arousing sa parlare anche all’emisfero destro, si muove sulla scia di quella
retorica psicagogica, ossia trascinatrice dell’animo (che fonda le sue radici nei
discorsi pitagorici, IV sec. a.C.), che mira a provocare la reazione emotiva
dell’individuo per conquistare la sua attenzione, il suo consenso” (Polesana, 1997, p.
3). Così Polesana definisce gli appelli intimidatori, in una conferenza su “10 anni di
spot sociale a Cannes”. Volendo comprendere più specificatamente questo
fenomeno, si può aggiungere che l’appello alla paura è un espediente comunicativo
persuasivo, utilizzato dalla marketing communication in modo significativo da quasi
un secolo. L’uso di tale strategia, definita anche psico-attiva, si fonda sulla
convinzione che essa sia necessaria per influenzare e modificare i comportamenti del
fruitore. Si pensa infatti che attraverso un impatto forte, talvolta traumatico, sul
destinatario, si sia in grado di generare paura (fear arousal) e di conseguenza di
smuovere gli individui. Nuovamente Polesana (1997), lo definisce come “un
linguaggio che sa commuovere il suo destinatario, nel senso di costringerlo a
interagire con quanto gli viene proposto all’interno del messaggio pubblicitario” (p.
2).
L’utilizzo di messaggi intimidatori ha riscontrato grande successo nel mondo della
pubblicità sociale, soprattutto negli Stati Uniti d’America ed in particolar modo nelle
campagne di prevenzione.
Tali pubblicità, dette anche di cambiamento sociale, hanno infatti come finalità
fondamentale, quella di generare un cambiamento nell’individuo. Tale fine può
essere raggiunto auspicando il raggiungimento di uno tra quattro differenti obbiettivi,
la cui definizione deriva dall’ambito di studi della psicologia sociale.
1) Cambiamento Cognitivo (Cognitve Change). Cedri (2002) afferma: “lo scopo
principale è quello di creare consapevolezza e conoscenza, fornendo esclusivamente
adeguate informazioni” (p. 389). Si fa riferimento a quelle campagne che sono state
pianificate sfruttando soprattutto i mezzi di comunicazione, per diffondere delle
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informazioni riguardanti un argomento di interesse collettivo e per aumentare la
conoscenza degli individui su di esso. Quelle campagne che hanno scelto di
utilizzare un taglio razionale-informativo, poiché ritengono l’informazione l’arma
migliore per affrontare un pericolo collettivo.
2) Cambiamento d’azione (Action Change). Nel testo della Cedri (2002) viene
descritto nel seguente modo: “si tratta di indurre un certo numero di persone a
compiere una specifica azione entro un determinato periodo di tempo” (p. 390).
Come esempio si possono citare quelle campagne pubblicitarie che vogliono
spingere gli individui a compiere un’azione che comporta un costo (es. utilizzare i
preservativi per prevenire la trasmissione dell’AIDS). È proprio in questo tipo di
campagne, che il fear arousing appeal viene spesso usato per gli effetti sopra
indicati.
3) Cambiamento comportamentale (Behavioral Change). Di nuovo l’autrice
afferma: “Consiste nell’indurre una modificazione più o meno permanente del
comportamento di un gruppo di persone che presentano o meno un atteggiamento
favorevole verso di esso” (p. 390). Sono strettamente legati a questo concetto gli
studi di psicologia sociale condotti sull’atteggiamento. Si ritiene, infatti, che agendo
su una sola delle componenti che costituiscono l’atteggiamento (cognitiva ed
affettiva), si sia in grado di cambiarlo nella sua totalità. Tuttavia non è detto che,
dopo aver creato un atteggiamento favorevole verso una determinata pratica (es.
mettere le cinture di sicurezza), l’adozione del comportamento da parte
dell’individuo avvenga automaticamente. Ciò che risulta di notevole importanza
negli studi di psicologia sociale è il concetto di centralità di un atteggiamento,
ovvero il suo essere più o meno rilevante per il gruppo di individui a cui si fa
riferimento. Questo concetto risulta di notevole interesse anche per la
determinazione dell’efficacia di un fear appeal, e sarà meglio approfondito nei
paragrafi successivi.
4) Cambiamento di valori (Valute Change). Cedri (2002) continua spiegando
che “si tratta di modificare valori e opinioni profondamente radicati che alcuni
individui presentano rispetto ad alcuni argomenti e situazioni” ( p. 391). Si pensi, ad
esempio, alle campagne contro i pregiudizi razziali. Spesso, data la difficoltà di
attuazione, lo stato ricorre a provvedimenti legislativi.
9
Una volta individuato l’obbiettivo che una campagna di prevenzione vorrà
perseguire, i creativi e tutti i professionisti pubblicitari, dovranno affrontare il
problema dell’elaborazione del messaggio. Tra le molteplici modalità d’espressione
della pubblicità, si può individuare un linguaggio di cui spesso fa uso la pubblicità
sociale: i fear appeals o appelli alla paura.
Gli appelli alla paura s’inseriscono all’interno di una più ampia classe di stile
pubblicitario, quello dei richiami emozionali, volto a giocare con l’emotività
dell’individuo, non solo facendo leva sulla paura, ma anche in modo positivo
facendo uso di temi, che vengono elencati da Kotler, Armstrong, Saunders e Wong
(2001): “l’amore, l’ironia, l’orgoglio, la promessa di successo e la gloria” ( p. 583).
Gadotti (2003) spiega all’interno del suo saggio che l’utilizzo di messaggi con
contenuti negativi è oggi più facilmente usato dalle organizzazioni non profit, in
quanto queste sono, afferma l’autrice, “più libere sia nella scelta del tema da
affrontare che nella scelta del registro e delle leve emozionali da utilizzare nella loro
comunicazione[…]. All’interno delle loro campagne troveremo maggiore
innovazione e coraggio espressivo rispetto alla comunicazione sociale del soggetto
pubblico, che utilizza spesso un tono soft anche su temi che avrebbero supportato un
linguaggio più aggressivo o comunque più vicino alla sensibilità e al gergo dei
destinatari delle campagne” (p. 6).
La tipica messa in atto di un fear appeal all’interno di un messaggio pubblicitario,
consiste nella rappresentazione di situazioni scioccanti che scaturiscono stati di
paura, ansia ed angoscia. Vengono rappresentate situazioni in cui l’individuo viene a
trovarsi, per avere adottato comportamenti irresponsabili. Attraverso la messa in
scena di tali circostanze viene perseguito lo scopo di invitare il consumatore a
seguire le raccomandazioni contenute all’interno della comunicazione, i così detti
“coping-response”, ovvero, come spiega Cedri (2002), la presentazione di piani o
soluzioni per estinguere la minaccia rappresentata, e poter condurre una vita serena e
fuori pericolo.
In particolare Puggelli (2002), descrive tre fasi attraverso la quali si compongono i
messaggi contenenti appelli intimidatori:
1) “creazione di una situazione minacciosa e paurosa atta a stimolare la
sensazione di rischio e la vulnerabilità […].
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2) Il pericolo viene descritto in modo tale da essere sufficientemente serio da
giustificare l’attenzione e la tensione del destinatario […].
3) Viene fornita la soluzione come mezzo indispensabile per la riduzione della
paura, soluzione che viene spesso seguita da rassicurazioni in modo tale da
sottolineare che seguendo le raccomandazioni fornite dal messaggio non si corre
alcun rischio” (p. 41).
4)
1.2 Efficacia dei fear appeals
L’utilizzo del fear appeal non è universalmente accettato, esiste infatti una corrente
di pensiero critica nei confronti di questa strategia comunicativa, che molti studiosi
giudicano non eticamente corretta e spesso causa di effetti negativi inaspettati sui
consumatori. Gran parte della critica, viene riportato nello studio di LaTour, Snipes e
Bliss (1996), ritiene, ad esempio, che se un fruitore giudica un messaggio non
eticamente corretto ciò potrebbe avere come conseguenza una serie di interpretazioni
indesiderate da parte del fruitore, non solo verso il messaggio pubblicitario, ma
anche nei confronti della marca e sul comportamento d’acquisto. Altri autori come
Dahl, Frankenberger e Manchanda (2003), ribadiscono che il contenuto della
pubblicità scioccante è quello di volere sorprendere il proprio audience mostrando
deliberatamente la violazione di norme sociali, valori ed idee personali; questo tipo
di pubblicità potrebbe quindi risultare offensiva per i destinatari, che la valutano
secondo le proprie aspettative e le regole sociali della cultura di appartenenza.
Un’ulteriore accusa che viene spesso fatta nei confronti dei fear appeals, è
determinata dal fatto che il loro utilizzo possa apparire come una mancanza di
responsabilità sociale da parte dei professionisti pubblicitari, incolpati di farne un uso
inappropriato.
In alcuni casi la valutazione etica dei fear appeals è stata sostituita da una critica sul
funzionamento e sulla reale efficacia di questa particolare forma di linguaggio. È
stato ad esempio provato che tali messaggi possono alienare i soggetti coinvolti,
portandoli ad un rifiuto della natura rischiosa del loro comportamento. Può accadere
inoltre che, affermano Duck, Terry e Hogg (1995), di fronte a un messaggio
intimidatorio, l’individuo ritenga se stesso più forte, quindi meno suscettibile oppure
che non si senta coinvolto dalla minaccia rappresentata, rifiutandola del tutto.
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