legate alla presenza o mancanza di una specifica abilità e,
successivamente, hanno volto lo sguardo a differenti modalità
nell’elaborazione dell’informazione. Diverse abilità, quindi, che
caratterizzano ogni individuo, così, da teorie unifattoriali
dell’intelligenza si è passati ad una concezione di pluralità
dall’intelligenza.
1.2. DEFINIZIONE DI INTELLIGENZA
Per Platone (Abbagnano, N. 1994) si tratta di un concetto semplice:
l’intelligenza è ciò che distingue le diverse classi sociali ed è distribuita
da Dio in maniera diseguale; questa dotazione fissa ed innata è presente
in ogni individuo che, al fine di conseguire una “vita buona”, deve
privilegiare e coltivare alcuni piaceri mescolandoli con l’intelligenza.
Questa mescolanza non è casuale, ma ponderata , e viene elaborata in
maniera equilibrata dall’intelligenza stessa proprio perché essa è
superiore al piacere. Quindi, di per sé, l’intelligenza è maggiormente
presente ed importante nella “vita buona”.
Aristotele, invece, in maniera più egalitaria sostiene che tutti gli
individui, tranne gli schiavi, esprimono facoltà intellettive più o meno
uguali e, se ci sono differenze, queste derivano dall’insegnamento o
dall’esempio.
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Nell’Etica Nicomachea egli afferma che per natura l’uomo consta di
anima e corpo; in esso è presente, quindi, un’anima in parte razionale
ed in parte irrazionale, quest’ultima ha minor valore ed esiste in virtù
di quella razionale. Alla parte razionale appartiene l’intelligenza, che
ha quale prerogativa, l’attività del pensare. L’uomo privo della
percezione e dell’intelligenza, diventa simile ad una pianta, privato
invece della sola intelligenza è paragonabile ad un animale.
In conclusione, l’intelligenza appare in Aristotele come requisito
essenziale che distingue l’essere umano dagli altri esseri senzienti.
Di non poca importanza sembra essere anche il pensiero di Plotino
secondo cui l’intelligenza è l’unico mezzo attraverso il quale l’anima
può tendere al bene: non esiste, infatti, secondo la sua teoria un bene
dell’anima ma piuttosto un bene dell’intelligenza al quale l’anima può
partecipare.
Sebbene molti studiosi, in primis i filosofi, abbiano cercato di fornire
una precisa definizione di questa straordinaria capacità mentale si è
ancora oggi molto lontani dall’aver raggiunto un consenso unanime su
una definizione capace di fissarne le caratteristiche di maggior rilievo.
Alcuni psicologi, concepiscono l’intelligenza come limitata,
semplicemente, all’attività intellettiva di ordine superiore: quali il
ragionamento, la competenza linguistica, la memoria e la conoscenza;
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altri, invece, ritengono che essa comprenda diverse abilità utili agli
individui nell’affrontare l’ambiente in cui vivono, come ad esempio
l’agire in vista di un fine (Gardner, H. 1987). Per altri ancora non può
essere valutata senza un richiamo alla sfera emozionale (Goleman, D.
1996).
Forse, la definizione più condivisa, è quella che vede l’intelligenza
quale capacità di poter apprendere dall’esperienza informazioni utili
nel processo di adattamento all’ambiente circostante.
Non poche controversie, inoltre, sono sorte nel definirne la struttura; in
merito a ciò si può far riferimento a diverse teorie.
La teoria monofattoriale, il cui promotore è Spearman (Cadamuro, A.
2004), sostiene che vi sia un’intelligenza generale affiancata da un
insieme di fattori specifici. Il fattore predominante, definito fattore “g”,
presiederebbe al vertice di una scala di abilità secondarie dette fattori
“s” tra queste vi sono: l’abilità linguistica, spaziale, e aritmetica.
La teoria multifattoriale, proposta inizialmente da Guilford e poi da
Gardner, per contro, sostiene che l’intelligenza si compone e si articola
in un numero elevato di abilità fra loro autonome, ognuna distinta ad
affrontare aspetti specifici della realtà nonostante siano in interazione
tra loro.
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Secondo Guilford (1982), l’intelligenza può essere intesa nei termini di
un cubo caratterizzato dall’intersezione di tre dimensioni tra cui:
ξ le diverse operazioni, costituite da processi mentali semplici, come i
processi della memoria e della valutazione;
ξ i contenuti, rappresentati da diversi termini, possono essere
semantici come le parole o visivi come le figure;
ξ i prodotti, riguardanti i tipi di risposte richieste, possono essere
singole parole, numeri o figure.
Per Gardner (1994), invece, è la capacità di risolvere problemi, o di
creare prodotti, ed è apprezzata all’interno di uno o più contesti
culturali.
Una posizione intermedia è occupata dalla teoria delle abilità primarie
proposta da Louise Thurston (Cadamuro, op.cit.) secondo la quale
l’intelligenza si compone di sette abilità: comprensione verbale, fluidità
verbale, capacità numerica, memoria, ragionamento induttivo,
visualizzazione spaziale, abilità numerica.
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1.3. MISURAZIONE DELL’INTELLIGENZA
Al giorno d’oggi esistono diverse concettualizzazioni di intelligenza;
spesso si tende a misurarla sull’onda di studi eseguiti da Binet
(Avanzini, G. 1974) fautore della scala di misurazione del quoziente
intellettivo. Il suo primo test di intelligenza venne pubblicato nel 1905
in Francia, allorché il Ministero della Pubblica Istruzione francese,
incaricò una commissione di studiare dei metodi per l’educazione dei
bambini che presentavano uno sviluppo intellettivo subnormale: si
pensava che se fosse stato possibile accoglierli in scuole speciali, quei
bambini avrebbero potuto raggiungere risultati migliori. Della
commissione faceva parte anche Binet.
Il primo problema da risolvere fu quello dell’individuazione dei
soggetti mentalmente più limitati, Binet e i sui collaboratori, dopo aver
trascorso un gran numero di ore osservando e sottoponendo ai bambini
dei quesiti di vario tipo, elaborarono la prima scala metrica.
La scala fu composta da una serie di item tra cui 30 problemi o “test”
che si propose di offrire una valutazione di alcuni aspetti
dell’intelligenza, come la capacità di comprensione, di ragionamento
logico e di giudizio. I problemi furono scelti in modo da ridurre al
minimo il riferimento alle nozioni scolastiche.
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Uno dei concetti fondamentali introdotti da Binet, per la valutazione
dei risultati del test, fu quello di “età mentale”. Secondo tale concetto,
un bambino era dotato di un’intelligenza corrispondente ai tre anni se
riusciva a risolvere la metà dei test risolti normalmente dai bambini di
quell’età e così via.
Come misura del “ritardo mentale” Binet utilizzò la semplice
differenza tra l’età mentale del bambino e la sua età cronologica. Tale
sistema si rilevò poco pratico, perché non rese bene l’idea dell’entità
del ritardo. Infatti, un ritardo di due anni a un’età di cinque anni,
indicava un limite intellettivo molto serio, mentre lo stesso ritardo
conteggiato, ad esempio in un ragazzo di quattordici anni,
rappresentava uno svantaggio molto più lieve.
Dopo la morte di Binet tale problema venne superato, utilizzando,
invece della “differenza”, il “rapporto” tra l’età mentale e l’età
cronologica. Tale rapporto, moltiplicato per cento (depurato di
eventuali decimali), è quello che viene chiamato comunemente QI
(quoziente di intelligenza).
Nel 1939 la pubblicazione della Scala d’intelligenza Wechsler-Bellevue
(Caracciolo, E. 1977), segnò una data cruciale nella storia della
valutazione del QI. Per la prima volta, infatti, venne costruita una
batteria di prove individuali, eterogenee, che valutò le varie espressioni
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del funzionamento intellettuale, ben accette anche da soggetti adulti, e
tarate in funzione dell’età cronologica o, per meglio dire, rispettose del
“deterioramento fisiologico”; benché fosse stata concepita inizialmente
per valutare il livello di intelligenza globale del soggetto, la scala fu
rapidamente applicata con diversi altri scopi: quello di misurare
l’eventuale deterioramento mentale; individuare il tipo di intelligenza,
se pratica o verbale, e constatare le eventuali carenze.
La scala WAIS (WECHSLER ADULT INTELLIGENCE ASCALE)
fu costituita da undici test differenti: sei di essi misurarono le abilità
cognitive di natura verbale, gli altri cinque le abilità cognitive di natura
principalmente visiva, spaziale, manipolativa.
I risultati delle prime sei scale diedero origine al Quoziente Intellettivo
Verbale, i punteggi delle ultime cinque confluirono nel Quoziente
Intellettivo di performance. La media di questi due indici costituì il
Quoziente Intellettivo Totale.
Nonostante, il relativo successo, questa scala non tenne in
considerazione come le differenze nel Quoziente Intellettivo potessero
dipendere, oltre che da fattori genetici, anche da quelli ambientali-
culturali, o da entrambe.
Sicuramente, il patrimonio genetico individuale ha un’importanza
fondamentale nell’individuare le basi e i meccanismi dello sviluppo,
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ma è pur vero che sono necessari una società ed un ambiente adatti
perché si possa sviluppare un’intelligenza normale.
Il modo più semplice per studiare quanto i geni determinano il QI, è lo
studio dei gemelli monozigoti (quindi con lo stesso DNA) che siano
stati separati dalla nascita (cresciuti quindi in ambienti differenti).
L’interpretazione dei risultati di diverse ricerche tende ad affermare
che il corredo genetico influisce per il 50% nel determinare le basi
dell’intelligenza; in definitiva i geni e l’ambiente contribuiscono in
eguale misura alla formazione del QI.
Particolarmente interessanti sono gli studi per individuare eventuali
differenze legate al sesso, alla classe sociale e alla razza (Burr,V.
2000).
Per secoli la donna è stata considerata meno intelligente dell’uomo e, a
sostegno di questa tesi, si portava il fatto che le donne, nel corso della
storia non avevano elaborato sistemi filosofici complessi, né realizzato
scoperte scientifiche che potessero anche lontanamente uguagliare
quelle compiute dall’uomo. Oggi si tende a considerare la questione in
maniera differente: non vi sono differenze significate tra uomini e
donne ma piuttosto influenzate da fattori sociali e culturali; sono state
registrate, infatti, differenze grandi e nette nel quoziente intellettivo
medio tra classi sociali e professionali diverse; chi svolge lavori
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intellettuali riporta valori più elevati nei test di intelligenza. Il fattore
determinante di tale differenza sembra essere l’istruzione ricevuta, ma
anche il contesto sociale di riferimento; compaiono infatti differenze
legate alla classi sociali già prima dei cinque anni di età; ciò implica
che i fattori ambientali rilevanti operino già prima che il bambino vada
a scuola.
Sotto questo punto di vista viene sottolineato il fondamentale ruolo
della famiglia nell’influenzare tutto lo sviluppo intellettivo del
soggetto. Il dibattito più acceso è nato intorno al ruolo della razza nel
determinare minori o maggiori punteggi nei test di intelligenza. Gli
studi condotti negli Stati Uniti rilevano, appunto, che la popolazione di
colore riporta punteggi significativamente inferiori rispetto alla
popolazione bianca; questo è un dato certo, ma l’interpretazione è
controversa. Per lungo tempo questi test sono stati utilizzati con fini
politici, per confermare l’inferiorità genetica della gente di colore ed
avvalorare le scelte in tema di educazione ed immigrazione. Oggi, gli
psicologi, più attenti alle ragioni della scienza e dell’analisi
metodologica che alle considerazioni politiche, rilevano due fatti:
innanzitutto i test sono nati e sono stati standardizzati su popolazioni
bianche quasi a voler sottolineare certe differenze e non altre; in
secondo luogo, le osservazioni sperimentali negli Stati Uniti implicano
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spesso una sovrapposizione tra razza e contesto sociale. Le popolazioni
negre, non a caso, negli USA appartengono per lo più a classi sociali
disagiate.
1.3.1. I TEST D’INTELLIGENZA: CHE COSA SONO E A COSA
SERVONO
Il test è un insieme di stimoli che vengono presentati al soggetto
utilizzando una particolare procedura che permette di ricavare risposte
valutabili sulla base di criteri specifici (Huteau, M.- Lautrey, J. 2000).
Gli stimoli presentati possono essere svariati come disegni o domande
a cui si può rispondere per iscritto o a voce, a risposta chiusa o aperta.
Il test permette di “fotografare” una situazione in cui si valuta il
comportamento dell’individuo comparandolo a quello di altri individui
messi nella stessa situazione. Questo significa che il punteggio
raggiunto non ha senso se preso da solo, ma solo se confrontato con le
prestazioni di altre persone: dire che Michele ha un quoziente
intellettivo di 118 (secondo la scala di Wechsler) non significa nulla se
non si sapesse che la media della popolazione raggiunge un QI di 100.
L’obiettivo di chi somministra un test è valutare le caratteristiche del
comportamento, le abilità mentali, o qualunque altro fattore che possa
aiutare nella comprensione della persona.
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Più in dettaglio i test possono essere usati per i seguenti scopi:
ξ orientamento scolastico o professionale: si cerca di comprendere
quale tipo di mestiere potrebbe essere adatto ad una determinata
persona tenendo conto delle sue abilità, passioni e caratteristiche
personali.
ξ valutazione di abilità cognitive: quali i test di intelligenza per
valutare il QI.
ξ valutazione del cambiamento avvenuto in un soggetto, facendo
un confronto tra il prima e il dopo di un trattamento.
ξ diagnosi psicologica per dare un nome alla sofferenza del
paziente e consigliare la cura adeguata.
La realizzazione di un test richiede un processo complesso.
Bisogna formulare i vari quesiti accertandosi che essi vadano a
misurare ciò che si intende valutare. Ad esempio, sarebbe insensato
inserire problemi aritmetici nel momento in cui si voglia misurare il
grado di depressione.
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Bisogna pensare alle condizioni ottimali di somministrazione del test,
se, ad esempio, somministrarlo individualmente o in gruppo, se con
l’esaminatore o autonomamente.
Ci si dovrebbe, inoltre, accertare se i punteggi ottenuti siano ripetibili,
in tal caso, un soggetto sottoposto allo stesso test in tempi diversi
dovrebbe ottenere un risultato simile. Di notevole importanza, infine,
sono i criteri di valutazione .
Una volta ottenuta la valutazione finale, è possibile formulare
previsioni e prendere decisioni, purchè i dati siano il più possibile
obiettivi, cioè depurati da qualsiasi pregiudizio dell’esaminatore.
Spesso, soprattutto in ambito clinico, il test si rivela insufficiente per
una obiettiva valutazione del soggetto e, in tal caso, risulta necessario
instaurare anche una relazione attraverso il dialogo ed un’attenta
osservazione; la valutazione testistica, infatti, può generare ansia nel
paziente che, avvertendo di essere sottoposto a giudizio, per difesa
potrebbe dare risposte false. Lo stesso fenomeno carenziale nell’uso
dei test è riscontrabile in situazioni di selezione del personale in ambito
lavorativo, dove spesso il soggetto, pressato dalla competizione con gli
altri candidati, desidera apparire migliore di quanto non sia.
In breve, i test spesso spaventano ed è compito della persona che li
somministra rassicurare i partecipanti, mettendoli a proprio agio,
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facendo appello alle proprie doti di sensibilità, del tutto necessarie in
tale ambito.
1.3.2. CARATTERISTICHE DEI TEST
I test, per essere validi strumenti di misurazione, devono presentare
alcune caratteristiche (Huteau, Lautrey, op. cit.) tra cui:
ξ La standardizzazione: la somministrazione deve avvenire con
procedure uniformi ossia con le stesse modalità (materiali, limiti
di tempo, frasi da utilizzare, assegnazione del punteggio) per
tutti i soggetti testati.
La standardizzazione prevede anche la determinazione delle
norme statistiche, senza le quali non si può attribuire un
punteggio; i punti ottenuti da un soggetto detti “punti grezzi”
vengono confrontati con quelli ottenuti da un campione di
soggetti e quindi convertiti in “punteggi standard”. Da qui, si
verifica se la prestazione rientri o meno nella norma statistica.
ξ La validità: il test deve realmente misurare ciò che si è prefissato
di constatare. La validità può essere di contenuto, di criterio e
predittiva.
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a) Validità di contenuto: riguarda le variabili da misurare; a chi
è destinato il test, il modello teorico cui esso si rifà, le
caratteristiche degli item (domande), le indicazioni per il
punteggio e le codifiche.
b) Validità rispetto a un criterio: fornisce informazioni
sull’utilità diagnostica di un test. Si basa su valutazioni
concorrenti, attraverso il confronto con altri test già ritenuti
validi.
c) Validità predittiva: è data dal confronto dei risultati del test
con gli indici di successo professionale o scolastico
effettivamente ottenuti in un periodo successivo
all’applicazione del test stesso.
ξ L’attendibilità: riguarda l’accuratezza e la coerenza del test e si basa
sulla necessità che questo fornisca misurazioni precise, stabili e
oggettive.
Se lo stesso individuo è sottoposto più volte al medesimo test, o ad
una sua forma equivalente, si deve ottenere lo stesso punteggio sia in
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