5
“Mio marito è un appassionato del teatro fin da quando era giovinetto come
lui, e sotto sotto gli piace di vedere il figliolo che vien su con la medesima
predilezione. Del resto il teatro piace anche a me, una bell’opera o un bel
dramma, un bravo attore, destano in me il più vivo interesse.” ( pag. 269)
Una spinta verso il mondo del teatro appare quindi derivargli da una certa
passione di famiglia, del padre soprattutto, che già a cinque anni lo aveva
portato con sé a vedere un melodramma, Il Trovatore.
O comunque a Palazzeschi piace vedere nella passione teatrale l’unico punto
di confidenza e unione con il padre, che a sua volta da giovane, costretto
dalla necessità ad un’attività di immediato profitto, aveva trovato nel teatro
uno sbocco alla sua aspirazione di poesia e di cultura.
Anzi, il teatro era stato “la sua università” e quanto il padre sapeva di nobile
e di bello, di profondo, Palazzeschi lo attribuisce a tutta quella serie di
passioni, lotte, vittorie, sconfitte, problemi sociali e storia di popoli che
aveva potuto cogliere negli spettacoli a cui aveva assistito da giovane.
Un’esperienza che “ne aveva fatto un uomo di vasta umanità e di pronta,
generosa comprensione”, tanto da sentire che poteva affidare al figlio
quattordicenne le chiavi di casa perciò che si recasse a teatro, senza temere
che quell’atto di fiducia venisse deluso.
Palazzeschi ricorda di come il padre lo guardasse uscire di casa “frettoloso,
impaziente come chi si reca al proprio lavoro” per andare ad acquistare un
biglietto di galleria e scegliersi quindi il posto più favorevole.
Un’abitudine che era comunque già iniziata qualche anno addietro, nella
primissima infanzia, e che gli aveva destato un’enorme attrazione e curiosità,
tanto da fargli ammettere che il palcoscenico era il luogo più affascinante e
misterioso, il campo di tutte le possibilità, di tutte le sorprese. Palazzeschi era
attirato soprattutto dai drammi e dalle commedie, spettacoli che lo facevano
fantasticare sulle vicende della vita, portandolo a conoscere e a scoprire
segrete bellezze, insondate e insondabili profondità. E spettacoli che anche lo
6
distraevano un po' dalla sua ufficiale professione di studente. Lo stesso
Palazzeschi confesserà:
Seguivo le lezioni pensando al travaglio della sera precedente e alle sorprese
che mi aspettavano la sera di quel giorno. La voce monotona del professore di
diritto o di economia politica cullava il mio pensiero in cui era l’eco di tante
voci messaggere di sogni e di poesia. E sovente, fingendo di prendere appunti
scrivevo le scene di un dramma che mi venivano alla memoria e di cui la mia
mente era piena. Durante le lezioni di un pomeriggio scrissi una commedia in
cinque atti brevissimi, sintetici. ( pag. 280)
Dopo due anni di intensa frequentazione teatrale, nel giovane Palazzeschi
scatta l’esigenza di cimentarsi nella professione di attore. Una decisione che
desta scompiglio nella madre e provoca un’inefficace contestazione da parte
del padre, che lo ammonisce: “In quell’arte bisogna assurgere alle cime, la
mediocrità è pietosa, non tollerabile.”
Merita soffermarsi un attimo sul mestiere d’attore così come era considerato
in quegli anni nella mentalità diffusa del tempo. Ancora una volta ci risultano
preziose le considerazioni dello stesso “attore mancato”, che in
quell’ambiente visse anche da vicino e in cui certo maturò importanti
convinzioni.
La vita zingaresca e disagiata degli attori, che tutti amavano ed applaudivano
ma come una specie a sé, che nulla aveva in comune con la normale società
borghese, un certo equivoco morale aleggiante sopra le loro teste, e lo stesso
fisico che li distingueva dagli altri, erano i soli uomini, coi sacerdoti, che per
le necessità della loro arte non portassero i baffi, e allorquando si vedeva un
borghese senza baffi era segnato a dito e subito riconosciuto come attore,
quasi ci fosse stata una forma di tonsura anche per essi; categoria per la quale
tutti avevano una particolare ammirazione, ma alla quale nessuno desiderava
appartenere. ( pag. 271)
7
Bisogna anche aggiungere che a quei tempi la stessa organizzazione delle
compagnie rappresentava una continua sfida alla sopravvivenza: gli stessi
attori erano capocomici, pronti a rischiare la propria reputazione e i propri
averi per far continuare una tournée.
Dopo essersi diplomato ragioniere nel 1902, Palazzeschi inizia a frequentare
la Reale Scuola di Recitazione “Tommaso Salvini” in via Laura 68, a
Firenze: a dirigerla c’è Luigi Rasi e tra gli allievi troviamo Gabriellino
D’Annunzio e Marino Moretti, che diventerà suo grande amico. In una
poesia intitolata A Firenze con Palazzeschi, Moretti ricorderà proprio la loro
amicizia giovanile: “Una felicità fatta di cose/ randage, di brevi attimi
passanti, / di ritornelli facili, di pose/ vecchie d’innamorati interessanti.”
I due amici hanno conservato entrambi un lucido ricordo di Luigi Rasi, “il
signor Direttore”- come aveva insegnato a chiamarlo la moglie Teresa, un
tempo autrice di commedie e insegnante di letteratura presso la scuola di
recitazione - un tempo attore di grido, oltre che insegnante, scrittore e storico
di molto merito dell’arte drammatica. In particolare, il Rasi era un dicitore
del Carducci, ma era soprattutto un insegnante attento e scrupoloso, pronto a
correggere la pronuncia o la dizione e ad approfondire il carattere di un
personaggio con precise dissertazioni ed esempi, anche pratici.
Marino Moretti nel Libro dei sorprendenti vent’anni e in Via Laura rievoca
ricordi e racconta aneddoti legati alla sua esperienza attoriale. Dalle sue
pagine veniamo ad apprendere che l’ammissione alla scuola di recitazione
“Tommaso Salvini” non era un’impresa impossibile; ma quel che più ci
interessa è sapere dal poeta Moretti come all’esperienza teatrale, nella sua
vita e in quella di Palazzeschi si affiancasse anche un interesse per la poesia.
Nel 1905, parallelamente alla pubblicazione, a sue spese, della prima raccolta
di poesie - I cavalli bianchi - Palazzeschi continua a seguire i corsi di
recitazione e si trova ad affrontare anche le prime prove d’attore.
8
A dir la verità, il suo esordio come attore si era avuto, dopo solo due mesi
dall’ammissione alla scuola di recitazione, con una commedia di Goldoni, Il
Ventaglio, da cui gli derivò, per aver impersonato il Baron del Cedro, il
soprannome Baronetto.
“Ero così imbevuto di palcoscenico e di commedie che salirvi e recitare fu
una cosa sola”: è questo il commento a tanti anni di distanza di Palazzeschi,
che ebbe l’onore di avere tra gli spettatori, seduto in prima fila, anche
Tommaso Salvini, titolare e patrono della scuola.
Ma l’esperienza folgorante di quel periodo fu sicuramente la conoscenza
della Duse, venuta inaspettatamente a sentir recitare gli allievi del Rasi. “Era
allegra e loquace, una Duse giovanile e di buonumore” afferma Palazzeschi,
che, assieme ad altri compagni di corso, affiancò come comparsa per quei
giorni di spettacolo alla Pergola di Firenze la grande attrice, impegnata in
Monna Vanna di Maeterlinck e in Badessa di Jouarre di Renan. Fu
soprattutto una scusa per sorprendere al lavoro la Duse, e per apprezzarne
l’immensa forza scenica, anche se poi, arrivata la vigilia dello spettacolo,
preferì non andare in scena e ripropose invece Moglie di Claudio, offrendo
agli allievi del Rasi i palchetti del teatro per le due ultime recite. Ma per
Palazzeschi la visita della Duse fu anche un’occasione per cimentarsi davanti
alla diva, su invito del Rasi, in un atto unico, accompagnato da una signorina
rumena. La Duse “ogni tanto, smettendo di parlare, ascoltava alcune battute,
ma aveva tutta l’aria di guardare più che di ascoltare”.
9
Duse a parte, dopo due anni passati come assiduo spettatore e quasi il doppio
come aspirante attore, Palazzeschi lascia aperta la porta a qualche dubbio:
come l’amico Moretti si dice convinto che “nascere attori è qualcosa di più
che nascere poeti”, così Palazzeschi si pone delle riserve sulla sua piena
dedizione alla pratica attoriale:
(...) Non era la mia persona che volevo prestare in tutta la sua integrità ai più
svariati personaggi, dunque, era un unico personaggio che volevo rivelare in
tutta la sua integrità e con parole mie, col gesto che mi è naturale, la
personalità che mi apparteneva e non quella di cento creature della fantasia
che nulla avevano a che fare con me non solo, ma quel dovere a tale intento
speculare sulla mia faccia per la intera vita, esibirla spietatamente per esibirla
al tempo stesso dentro di me, oltre che momenti di riflessione mi davano veri e
propri momenti di dubbio. ( pag. 292)
Ma questo momento di crisi, che stava maturando nel futuro scrittore tra il
1905 e il 1906, fu interrotto da un evento che avrebbe potuto cambiare il
corso della sua storia. Sollecitato dal Direttore Rasi a presentarsi per una
“formalità” con il brano che aveva recitato davanti alla Duse, Palazzeschi
accompagna nuovamente la signorina rumena davanti ad Adolfo Re
Riccardi, personaggio di primo piano nel campo teatrale e amico personale di
Giolitti, e viene scritturato per una tournée.
Si trattava di entrare, di lì a poco, nella nuova compagnia tutta di giovani che
Virgilio Talli stava componendo. La decisione mise chiaramente in grande
agitazione i familiari di Palazzeschi, ormai abituati a vederlo recitare nel
teatrino di Via Laura.
La Compagnia Talli esordì a Bologna col dramma Dora o le spie di Sardou
nel quale Lida Borelli rivelò le sue qualità d’attrice.
10
La Compagnia si spostò quindi a Ferrara, e qui Palazzeschi, messo a stretto
contatto con la vita pratica delle scene, i disagi e le fatiche, decise di
abbandonarla.
Così spiegherà, molti anni più tardi, la sua decisione:
“Ero stanco di provocare scandali nel chiuso cerchio della famiglia e,
soprattutto, di dovermi vergognare della parte migliore di me. Riscattatomi
dalle scienze commerciali, dalla ragioneria e dall’economia politica, il teatro
mi aveva messo sulla strada buona, quella della poesia, e buona due volte
perché di mia esclusiva proprietà”. ( pag. 295)
In un’intervista apparsa sul “Corriere della sera” il 28 marzo 1971,
Palazzeschi ritorna ancora a parlare della sua esperienza giovanile, e ci
fornisce delle informazioni che riassumono sinteticamente gli eventi di
quegli anni:
“(...) Ma quegli studi (di economia, n.d.r.) non mi piacevano per nulla e a un
bel momento mi stufai. E siccome durante gli anni di scuola io ero andato a
teatro tutte le sere, e era lì che mi ero fatto una cultura, mi venne in mente di
fare l’attore. Allora io non avevo certo la pretesa di fare lo scrittore.
Figuriamoci! Così feci tutt’e tre gli anni della scuola di recitazione, e alla fine
andai perfino in compagnia. Ma per combinazione, per caso. Venne infatti a
Firenze Re Riccardi, un uomo famoso a quel tempo, che a teatro faceva il
nuvolo e il sereno. Una signorina romena e io fummo convocati per farci
sentire. Si recitò uno dei proverbi di Ferdinando Martini: “Il peggio passo è
quello dell’uscio”. Io facevo un po' da palo alla signorina. Ma alla fine Re
Riccardi disse: “Li piglio tutti e due!”. Si figuri io: mi sentii come
accarezzato! Però la vita dell’attore non mi piaceva: io odio la zingaraggine,
questo non aver casa... Così stetti in compagnia soltanto una quaresima.
Intanto m’era venuta l’ambizione di potermi esprimere con le parole mie”.
11
In questo senso, Palazzeschi sembra vedere nel teatro un’esperienza di
tramite, di passaggio per “accedere” alla poesia. Certamente, l’assidua
partecipazione agli eventi teatrali come spettatore prima, e la possibilità di
cimentarsi come attore poi, hanno costituito per lo scrittore un patrimonio
importante, che si è integrato con l’esperienza “di strada”.
Spagnoletti
2
afferma:
(...) La breve esperienza di teatro rimase sullo sfondo sempre entrando talora
nella tessitura della poesia e della narrativa. Basterebbe ricordare l’enorme
quantità di dialoghi e di battute di carattere esplicitamente teatrale sparsi nella
produzione giovanile e in quella della maturità. Esse formano un tessuto
connettivo di tale entità da farci sospettare che una parte almeno del suo
spirito sia rimasta legata al giuoco drammatico, al piacere della battuta, tipico
delle inclinazioni della prima giovinezza.
In una delle sue poche dichiarazioni autobiografiche
3
Palazzeschi dirà
esplicitamente:
“Non ho mai letto molto né con metodo, e la mia ispirazione letteraria viene
suscitata in me sempre dall’osservazione diretta della vita e della mia naturale
fantasia. La mia vera maestra fu la strada. Rare volte sono andato in biblioteca
riportandone sempre un senso di oppressione e di malinconia”.
Sempre in età senile, riconoscendo un certo debito con l’esperienza extra-
scolastica, fatta di giri in città e assiduità teatrale, Palazzeschi dichiarava: “Il
teatro fu la mia scuola e tutto quello che ho imparato è dal teatro che l’ho
imparato”
4
.
2
G. SPAGNOLETTI, Palazzeschi, Milano, Longanesi & Co., 1971, pag. 46.
3
Cfr. E. F. ACROCCA, Ritratti su misura, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960.
4
La dichiarazione è tratta da un’intervista che Palazzeschi concesse a Mario Picchi in occasione della
riduzione teatrale di Roma, uscita sul n° 108 di “Sipario”, aprile 1955.
12
1.2 PALAZZESCHI E I MOVIMENTI DELL’ AVAN-
GUARDIA PRIMONOVECENTESCA
Il rapporto di Palazzeschi con i movimenti letterari e ideologico-culturali del
primo Novecento costituiscono un notevole campo di discussione e di
dibattito critico.
Palazzeschi, autodidatta e, per quanto si sa, lettore di pochi libri - abbiamo
già avuto modo di notare che la sua scuola fu, per lo più, costituita dalla sua
consuetudine con la strada e il teatro - fu però in contatto diretto con
Marinetti e il futurismo milanese, con Soffici e altri esponenti del futurismo e
avanguardismo fiorentino, con Apollineare e il futurismo francese. Alcuni
studiosi, fra cui De Maria
5
e Curi
6
insistono sulla partecipazione convinta di
Palazzeschi ai movimenti d’avanguardia primonovecentesca: in particolare,
rilevano elementi di liberty e simbolismo nelle prime poesie, di futurismo
nelle poesie dell’Incendiario e nel romanzo Il Codice di Perelà
7
, fino a
giungere a parlare, a proposito dei giochi linguistici di Palazzeschi, di
predadaismo e protodadaismo.
Altri studiosi mettono invece l’accento sul carattere tutto particolare e
individuale dell’opera di Palazzeschi, pur nei termini di un diretto
collegamento con l’esperienza crepuscolare : Sanguineti, in questo senso, ha
definito Palazzeschi “quinta colonna del crepuscolarismo all’interno del
futurismo”
8
, introducendo delle distinzioni tra il futurismo milanese e quello
fiorentino e fra quello fiorentino e quello di Palazzeschi.
Moltissimi critici sono invece concordi nel vedere un’influenza limitata di
questi movimenti letterari, in cui comunque Palazzeschi si rispecchiò per un
periodo, ma che in realtà non riuscirono mai ad “etichettarlo” appieno.
Vivendo in modo personale e liberissimo gran parte dell’avventura letteraria
5
Cfr. L. DE MARIA, Palazzeschi e l’avanguardia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1976.
6
Cfr. F. CURI, Edipo, Empedocle e il saltimbanco, in “Il Verri”, 6, 1974.
7
Ricordiamo a questo proposito che il Codice, nella sua prima edizione del 1911, recava il sottotitolo
di “romanzo futurista”.
13
primonovecentesca, l’impressione che si ricava dalla sua produzione è che
abbia attraversato queste esperienze lasciandosene permeare, ma mai
sopraffare, conservando intatta una certa originalità caratteristica,
“palazzeschiana”.
Sia il crepuscolarismo che il futurismo esaltano, soprattutto negli aspetti
esterni formali, alcune componenti già “acquisite” da Palazzeschi. Il
futurismo lo incoraggiò, naturalmente, nella libera ricerca di mezzi espressivi
e contribuì ad aumentare in lui un certo impeto vitale; tuttavia, la ricerca di
mezzi espressivi e la tensione vitale non sono sempre dominate, come
accade invece in Marinetti, da intenti di polemica e di rinnovamento.
Palazzeschi continua anche all’interno del futurismo un processo, da tempo
iniziato, di affinamento tecnico e linguistico che lo distingue e insieme lo
eleva a un piano di relativa autonomia.
Altri critici infine, pur nella consapevolezza della sua dichiarata scarsità di
letture, avvertono nell’opera giovanile di Palazzeschi l’eco di alcune precise
fonti culturali, che collegano il poeta-narratore con l’ampia situazione
europea. Senza individuare precisi autori di riferimento, Barilli
9
ha notato
l’istintiva capacità di Palazzeschi di muoversi in direzioni parallele alla
grande cultura moderna europea: l’interesse per i problemi del riso e del
comico - che impegnarono Bergson, Freud e Pirandello- , lo sperimentalismo
linguistico e narrativo, i temi del clown e del saltimbanco, l’attenzione per
l’ironia, e infine, anche i procedimenti teatralizzanti.
Senza entrare nel merito di questioni che hanno già impegnato la critica in
lunghe e complete indagini, qui ci basti aver ricordato alcune tappe e alcune
caratteristiche di contatto tra Palazzeschi e i movimenti letterari del periodo.
8
E. SANGUINETI, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, pag. 82.
9
Cfr. R. BARILLI, L’antidolore, in AA. VV., Palazzeschi oggi, Atti del convegno. Firenze 6-8
novembre 1976, pag. 71-87.
14
1.3 TRA LETTERATURA E TEATRO: IL DIBATTITO
CULTURALE
Il periodo in cui Palazzeschi si trova a scrivere è un momento ricco di
fermenti e novità ideologiche. In particolare, il rapporto letteratura-teatro è
discusso e profondamente analizzato: in tutta Europa, tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si discute su quale sia il ruolo del
teatro in relazione alla letteratura e alla poesia.
Il simbolismo mette in rilievo la difficoltà di adattare la problematica
letteraria al teatro, rilevando un forte sbilanciamento tra la letteratura
unicodificante e la caratteristica multimediale del teatro. Sempre per i
simbolisti, la parola non è un fatto di contenuti reali, ma è l’elemento formale
esterno, cui bisogna adattare sulla scena corrispondenti strutture formali,
artificiose ed astratte. In questo modo, la letteratura non è solo
strumentalizzata come linguaggio-guida, ma viene anche considerata,
nell’ottica simbolista, come struttura formale dello spettacolo.
Partendo da una lettura formale dell’arte e delle opere letterarie
contemporanee, i simbolisti capiscono che il punto essenziale è questione di
forma, di convenzione, di artificiosità.
Il simbolismo, che è in primis in opposizione col precedente naturalismo,
lascerà poi, attorno al 1910, posto ad altre avanguardie, che formuleranno
varie proposte, sempre alla ricerca di una risposta al ruolo delle diverse
forme d’arte.
Il rapporto avanguardia/tradizione, che si presenta come tratto comune di
tutte le forme artistiche del Novecento, non fu esclusivamente interno alla
pratica letteraria, ma coinvolse una serie di altri codici di comunicazione.
E così anche il futurismo fu un movimento culturale che interessò letteratura,
teatro, pittura, scultura, musica, ecc.. Palazzeschi ne fece parte, a fianco
dell’amico Marinetti, e la partecipazione attiva al movimento è provata dalla
15
sua collaborazione a “Lacerba”
10
e dalla sua partecipazione alle serate
futuriste.
Marinetti, dopo l’uscita del Manifesto futurista
11
che diede inizio al
movimento, organizzò una serie di incontri futuristi - le “serate” appunto-
che si articolavano in letture pubbliche di poesie e manifesti e scrisse saggi
sul futurismo e sui suoi possibili sviluppi nelle varie arti. A proposito del
teatro affermò che era “tra tutte le forme letterarie, quella che può avere una
portata futurista più immediata”
12
. Ma per realizzare questo, i drammaturghi
dovevano rifiutare sdegnosamente il successo popolare e creare una nuova
arte capace di riflettere la sua forza dinamica.
Una migliore definizione di questo programma trovò poi uno sviluppo ne Il
teatro di varietà (1913) in cui si esorta il drammaturgo futurista a guardare,
per andare oltre al teatro di ricostruzione storica, al teatro di varietà.
Un contributo successivo rimane da ricordare - anche se non è l’ultimo
13
- , Il
teatro futurista sintetico (1915), scritto da Marinetti, Settimelli e Corra.
Il sottotitolo - “atecnico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale”-
riassume gli obiettivi del nuovo dramma sintetico in cui le tecniche
tradizionali andavano abolite. Il nuovo teatro avrebbe dovuto rimodellare la
realtà ed essere estremamente conciso nel comprimere “in pochi minuti, in
poche parole e in pochi gesti innumerevoli situazioni, sensibilità, idee,
sensazioni, fatti e simboli”
14
.
10
Ricordiamo che la rivista “Lacerba” viene fondata a Firenze nel dicembre del 1912 e cessa le
pubblicazioni nel maggio 1915.
11
Il 29 febbraio 1909 esce sulla prima pagina del “Figaro” il Manifesto del futurismo, in cui Marinetti
invocava un’arte nuova, adatta al nuovo secolo, votata alla velocità e alla lotta, alla macchina e
all’industria.
12
Cfr. F. T. MARINETTI, La voluttà di essere fischiati in Teoria e invenzione futurista, Milano,
Mondadori, 1968, pag. 11.
13
I due principali manifesti posteriori al 1915 sono Il teatro della sorpresa (1921) di Marinetti e
Francesco Cangiullo e L’atmosfera scenica futurista (1924) di Prampolini, che ribadiscono
sostanzialmente le posizioni già sostenute negli scritti precedenti. In ogni caso, va ricordato che il
movimento futurista rimase una componente importante della scena teatrale italiana fino a circa il 1910;
in seguito alla prima guerra mondiale il suo contributo alla teoria drammatica fu piuttosto scarso.
14
Cfr. F. T. MARINETTI, Il teatro futurista sintetico in op. cit., pag. 113.
16
Questa è un piccolo e superficiale scorcio degli sviluppi del clima culturale
in cui Palazzeschi si trovò a vivere e a scrivere, e a cui lo stesso scrittore
diede un primo, convinto contributo.
Nel 1910, con L’Incendiario
15
, Palazzeschi risponde alla crepuscolare
negazione della poesia sotto le insegne di un pretestuoso futurismo: in
seguito autocensurato - sparirà infatti dalle successive raccolte
palazzeschiane - L’Incendiario presenta quei tratti narrativamente
drammatizzati che caratterizzano tante poesie palazzeschiane e che
troveranno poi tanti rispecchiamenti in prosa, soprattutto in Perelà.
Non è quindi facile proporre un’analisi della prima produzione
palazzeschiana prescindendo dal contesto letterario e ideologico del periodo;
ciononostante, nel prossimo capitolo ci sforzeremo di coglierne le
caratteristiche attraverso un’analisi di quelle poesie che, linguisticamente e
semioticamente, presentano elementi interessanti di oralità, colloquialità e
teatralità.
15
La prima edizione reca la famosa dedica “A F. T. Marinetti, anima della nostra fiamma”.
17
Capitolo secondo
I LUOGHI DELLA TEATRALIZZAZIONE
NELLA PRIMA PRODUZIONE DI
PALAZZESCHI
2.1 INTRODUZIONE
Merita soffermarsi sull’ “intrinseca teatralità” di certa produzione
palazzeschiana, a prescindere dal rapporto di Palazzeschi col teatro.
In molti hanno infatti individuato nelle sue poesie delle caratteristiche che le
rendono in qualche modo “teatrali”: queste considerazioni linguistico-
semiotiche non sono state però impiegate in un’analisi di tipo formale
completa ed esaustiva, ma spesso hanno costituito un punto di partenza per
un’indagine sociologica o psicologica.
Spesso l’analisi delle poesie di Palazzeschi investe altre problematiche, e lo
studio della poetica dell’autore si riveste di altri significati, ben lontani da
considerazioni formali. O ancora, se di analisi linguistica si deve parlare, lo si
fa legandola indissolubilmente al periodo storico-letterario in cui Palazzeschi
si è trovato a scrivere. Alcuni critici hanno messo in azione strumenti
interpretativi di tipo sociologico o di storia delle ideologie per ricondurre
l’opera di Palazzeschi entro l’ambito storico della crisi dell’intellettuale
primonovecentesco o del poeta crepuscolare.
18
Rimane ancora una strada, che è quella dello studio delle prime poesie come
tappa obbligata per comprendere la produzione successiva di Palazzeschi, e
in particolare del Codice: in questo senso Piero Pieri
1
ha auspicato un’analisi
puntuale ed esaustiva di questa prima fase produttiva del poeta, che ne metta
in evidenza le leggi e le caratteristiche. Pieri rileva proprio la mancanza di un
lavoro approfondito in merito, affermandone l’utilità: ma non si spinge oltre
a questo augurio, passando velocemente ad altri aspetti della produzione
palazzeschiana.
È possibile pertanto trovare degli spunti e delle osservazioni valide e
pertinenti, ma sempre incomplete e comunque finalizzate ad un discorso che
talvolta ingloba componenti ideologiche e risvolti filosofici.
Ecco che allora le osservazioni linguistico-semiotiche sembrano oscillare tra
sporadiche intuizioni e vaghe definizioni, ben lungi dal trovare una
collocazione sistematica che ne permetta un’analisi precisa.
Mancando questa “griglia” interpretativa in chiave formale, è intanto utile
prendere in considerazione le diverse osservazioni fatte in questo senso, e
cercarne dei riscontri reali applicandole alle poesie di Palazzeschi.
Il fine, un po' come segnalava Pieri, è quello di ricercare all’interno di questa
prima produzione gli antecedenti di certe scelte seguite poi da Palazzeschi
nel suo romanzo principale, mettendone in rilievo le caratteristiche di oralità.
Sia gli espedienti formali che quelli linguistici rivelano infatti una forte
tendenza all’aspetto colloquiale, quasi “fisico” della parola nelle poesie
palazzeschiane: un elemento che si lega fortemente alla dinamica teatrale.
1
P. PIERI, Ritratto del saltimbanco da giovane. Palazzeschi 1905-1914, Bologna, Pàtron editore,
1980.