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contraddistinguono. L’obiettivo della corrente sezione è mostrare la straordinaria unicità
di questo legame, in quanto concilia in sé caratteristiche diametralmente opposte:
rivalità e complicità, odio e amore profondo, complementarietà e reciprocità.
Adotteremo pertanto un approccio più “clinico”, che ci consenta di distinguere nei vari
contesti la doppia identità in ciascun fratello, “a volte più Caino, a volte più Abele”.
Nella prima sezione del terzo capitolo, la relazione fraterna verrà descritta come
“relazione familiare”, caratterizzata da quegli aspetti di condivisione genetica ed
impegno etico tipici dei rapporti di sangue. In particolare, saranno introdotte le
principali alterazioni sociali, subìte dal nucleo familiare negli ultimi cinquant’anni, e la
ripercussione delle medesime sul legame fraterno.
Attualmente, la famiglia occidentale sta attraversando un periodo difficile, dove da un
lato emerge il prevalere della figura del figlio unico e dall’altro l’aumento di separazioni
e divorzi. Le variabili che spingono molte coppie ad avere meno figli o a rompere il
proprio legame coniugale non sono ancora state ben chiarite. Lungi dall’assumere una
posizione pregiudiziale verso la condizione del figlio unico, pensiamo che
l’abbassamento dell’ampiezza familiare, tra l’altro approfondita in una sezione a parte,
e l’assenza di fratelli, costituiscano opportunità mancate di maturazione personale e
sociale non indifferenti. A tal proposito, nella seconda parte terzo capitolo verranno
presi in considerazione proprio i vantaggi che i fratelli, vicendevolmente, potranno
fornire al proprio sviluppo individuale: nello specifico, saranno descritti i contributi alla
costruzione identitaria, sessuale e cognitiva; faremo accenni anche a due delle principali
risorse a cui i fratelli ricorrono per l’apprendimento reciproco: il gioco simbolico ed il
conflitto.
Infine, nel quarto capitolo approfondiremo le interazioni interne la famiglia,
concepita dalla prospettiva sistemica come una “totalità complessa” che non equivale
alla semplice somma delle sue parti. Sono stati scelti due eventi “non normativi”,
entrambi in aumento, per meglio mostrare la dinamicità dei rapporti di coppia, tra
genitori e figli, e tra fratelli: il conflitto e la rottura coniugale, e la presenza del fratello
“diversamente-abile”. Quest’ultimo paragrafo è stato realizzato anche grazie
all’esperienza accumulata in tre anni di volontariato, aiutando dal punto di vista
riabilitativo e psicologico famiglie con bambini e adolescenti affetti da paralisi
5
cerebrale, un insieme eterogeneo di patologie croniche che possono colpire e
compromettere le facoltà motorie, percettive, linguistiche e cognitive.
Per quanto la gestione della malattia possa essere gravosa e difficile, l’interazione
diretta con queste famiglie ci ha consentito scorgere l’“altra faccia” della disabilità, che
permette alle persone cui è a contatto di sviluppare una maggior flessibilità di ruolo
(“reciliency”) da parte di tutti i membri coinvolti. Inoltre, la maggioranza di questi
ragazzi ha almeno un fratello (“sibling”): questa realtà ci ha reso consapevoli
dell’importanza da essi rivestita nella cura e nel supporto al soggetto disabile ed ai
genitori.
La possibilità che tale contributo possa essere esteso anche a condizioni “normative”
e nel nostro quotidiano, si è rivelata il motore principale che ci ha spinto alla stesura di
questa tesi. Ci auguriamo che alla fine del nostro viaggio, anche il lettore riconosca
nella figura del fratello una presenza fondamentale nella famiglia, purtroppo a lungo
sottostimata dalla ricerca e dalla clinica, e attualmente sempre più rara nella nostra
Società.
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1.1 Le relazioni sociali
1.1.1 Un’introduzione
“Secondo Aristotele l’origine della vita associata è da ricercarsi nel fatto che l’individuo non
basta a se stesso; non solo nel senso che non può da solo provvedere ai suoi bisogni, ma anche
nel senso che non può da solo, cioè al di fuori della disciplina imposta dalle leggi e
dall’educazione, giungere alla virtù”
1
.
Fin dall’antichità, si è cercato di comprendere l’Uomo in riferimento al contesto
sociale in cui è immerso: l’isolamento veniva considerato una condizione estranea alla
sua natura perché chi rifiuta di vivere in comunità, riprendendo Aristotele, “o è un
essere inferiore o non è un uomo” (Politica, Libro I, 1253a). Ogni individuo ha bisogno
di stare con gli altri (Maslow, 1954; Baumeister e Leary, 1995): l’integrazione e la
socializzazione gli permettono sopravvivenza e benessere.
Secondo l’impostazione evoluzionistica, gli ominidi hanno imparato fin da subito a
convivere con i propri simili, perché ciò garantiva loro protezione dai predatori, accesso
alle riserve di cibo e riparo dalle intemperie (Brewel e Caporael, 1990). Questo
collimerebbe anche con la tesi di S. Freud, secondo cui gli individui hanno rinunciato
alla libertà libidica, consentita dall’anarchia sociale, in cambio della propria sicurezza
(Freud, 1912-13; 1921; 1930).
L’abilità a socializzare non appartiene solo al genere homo, ma è una condizione
altamente diffusa in natura: siamo una razza incline alla strumentalizzazione e al
contatto gratuito con l’Altro perché abbiamo filogeneticamente ereditato tali
predisposizioni.
La “famiglia”, nel senso di “istituzione biologica” (Donley, 1993), si è infatti
costituita circa 180 milioni di anni fa (MacLean, 1982), come conseguenza naturale
dello stile di accudimento dei primi mammiferi. Le particolari cure richieste dai cuccioli
non si esaurivano al mero “sostentamento biologico”, ma contribuivano anche al loro
corretto sviluppo psicologico: il periodo di neotenia, ossia di permanenza nella famiglia
di origine prima della maturità sessuale, si è allungato parallelamente e
1
Abbagnano, N. e Foriero, G. (1992). Filosofi e filosofie nella storia. Vol. I: pensiero antico e
medioevale (II edizione). Torino: Paravia, p. 210-211.
7
proporzionalmente alla complessità intellettiva degli organismi, fino al suo culmine
nella specie umana (Donley, 1993). Le famose ricerche condotte da Harry Harlow su
scimmie Rhesus dimostrano come la deprivazione delle cure affettuose di un adulto (e
non del cibo!) nella prima parte di vita provocano severe difficoltà motorie, cognitive e
sociali a lungo termine (Harlow, 1958; Harlow e Harlow, 1962).
La psicologia dello sviluppo fornisce tuttora importanti contributi sul tema delle
relazioni interpersonali e di come queste favoriscano una crescita sana. La Teoria
dell’Attaccamento (Bowlby, 1969; 1973; 1980) ne è l’esempio più rappresentativo: esso
viene definito
“l’apogeo delle relazioni con gli altri durante la prima infanzia”
2
.
L’attaccamento (cfr. 2.1.2) è quindi una “relazione” a tutti gli effetti, sebbene resti
una relazione prototipica (Bowlby, 1969). Per comprendere questa affermazione, è utile
puntualizzare alcuni concetti.
Il coinvolgimento in un legame affettivo richiede certi “requisiti”, come la
consapevolezza di essere un “soggetto” e di avere a che fare con altrettanti “soggetti”
simili, ma separati da sé, la motivazione a comunicare, la memorizzazione degli incontri
precedenti, la costruzione delle aspettative, e, soprattutto, l’abilità di “leggere la mente”
altrui (Flavell, Miller e Miller, 1993) (cfr. 2.2.4). Per quest’ultima competenza sono
richiesti processi cognitivi piuttosto complessi che il bambino conquisterà solo alla
soglia della scolarizzazione (Wellman, 1990); invece, un particolare stile di
attaccamento è riconoscibile già a partire dall’anno (e. g. Ainsworth, 1967; Ainsworth,
1973).
Paradossalmente, il piccolo riesce a costruire una relazione di attaccamento prima di
sviluppare tutte le caratteristiche sopra elencate: ciò è possibile grazie al caregiver che,
interpretando i suoi comportamenti come intenzionali e reagendo alle sue richieste,
contribuisce, da un lato, all’accudimento del figlio e, dall’altro, alla continuità del
rapporto. Con questo si vuole evidenziare quanto lo stare con l’Altro sia una questione
urgente e quindi particolarmente importante ai fini dell’adattamento: sarebbe troppo
tardi aspettare che il bambino sia abbastanza maturo perché sappia riconoscersi davanti
ad uno specchio, o costruire una teoria della mente completa; questi stessi traguardi non
2
Flavell, J. H., Miller, P. H. e Miller, S. A. (1993). Cognitive Development. New Jersey: Prentice-Hall (tr.
it.: Psicologia dello sviluppo cognitivo. Bologna: Il Mulino, 1996, p. 265).
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verrebbero neppure raggiunti senza appoggiarsi a relazioni affettive precedenti (Rutter e
Rutter, 1993).
Ricordiamo inoltre che anche i bambini autistici, nonostante le gravi difficoltà nella
condivisione delle esperienze e nell’empatia (Baron-Cohen, 1991) riescono a sviluppare
una particolare forma di legame verso i propri genitori (Capps, Sigmand e Mundi,
1994); infine, per quanto la crescita psicologica del caretaker possa essere
compromessa, l’attaccamento si verifica perfino verso madri abusanti (Carlson e coll.,
1989) e depresse (Radke-Yarrow e coll., 1995).
Alcune ricerche hanno dimostrato, invece, che la sicurezza nelle relazioni precoci
riduce il rischio di psicopatologia (Pianta, Egeland e Sroufe, 1990) e ottimizza la
crescita cognitiva e sociale in età successive (Meins, 1997): il risultato non sorprende,
dato che un attaccamento sicuro è dovuto alla fiducia che l’individuo nutre verso il
partner e alla speranza di un suo intervento qual’ora si presentasse un pericolo.
La psicologia della salute, in stretta collaborazione con le scienze bio-mediche e le
campagne politico-sociali, ha più volte sottolineato la connessione reciproca tra
relazioni sociali e benessere percepito (Majani, 1999; Zani e Cicognani, 2000;
Baumeister e Leary, 1995).
“… ogni studio sulla felicità umana rivela che trarre appagamento dalle relazioni sociali è la
miglior cosa che possa capitare nella vita”
3
.
Il supporto e l’integrazione sociale
4
sono i fattori ambientali maggiormente
considerati in letteratura: molto brevemente, il primo attutisce le conseguenze negative
provocate da situazioni ansiogene frequenti e/o croniche (“stress buffering”), mentre il
secondo agisce preservando e migliorando il proprio stato di salute, indipendentemente
che si verifichino o meno condizioni stressanti (“main effect”) (Cohen, 2004, p. 677).
3
Berscheid, E. (1999). The greening of relationship science. American Psychologist, 54, p. 260.
4
Per “supporto sociale” si intende “l’aiuto e lo scambio di risorse che un soggetto può avere, all’interno
delle reti sociali in cui è inserito, da parte di differenti categorie di persone” (Emiliani e Zani, 1998, p.
249). House ne identifica quattro funzioni principali: emotiva (empatia, rassicurazione e appoggio
psicologico in generale), strumentale (aiuto materiale ed economico), informativa (la trasmissione delle
conoscenze utili per risolvere il problema) e di stima (l’azione diretta dell’apprezzamento e del rispetto
per l’altro sull’autostima) (House, 1981). Più recentemente, altri Autori (per una rassegna, si veda Duck,
1990) hanno proposto la dicotomizzazione del supporto sociale in strumentale (includendo sia l’aiuto
concreto, sia quello informativo e consulenziale) ed emotivo (comprensivo anche di quello diretto
all’autostima).
Con “integrazione sociale” ci riferiamo invece alla “partecipazione ad un ampia gamma di relazioni
interpersonali” (Cohen, 2004, p. 277).
9
Ricordiamo che lo stress (cfr. 3.1.2), nonostante resti un’importante difesa naturale
dalle minacce ambientali, se eccessivo e prolungato, provoca sfiancamento psicofisico
(Majani, 1999) e immunodepressione (Cohen, 2004).
Non sempre però le relazioni sociali si rivelano positive: conflitti e cattive influenze
possono mettere in serio pericolo la salute mentale e fisica degli individui; il rifiuto da
parte dei pari e il conseguente isolamento rimangono al primo posto per la gravità dei
loro effetti (Baumeister e Leary, 1995; Rutter e Rutter, 1993), e non solo tra umani
(Baumeister e Leary, 1995; Cohen, 2004) (cfr. 1.1.3).
1.1.2 Definire una relazione sociale
Lo scopo della scienza delle relazioni è comprendere le dinamiche interpersonali, le
loro cause e le loro conseguenze. Tale obiettivo è stato prefissato solo di recente, in
quanto la psicologia inizialmente non ha manifestato molto interesse al network sociale
cui ogni persona fa riferimento. In fondo, la parola “relazione” rientra nel bagaglio
linguistico popolare e parecchi studiosi non hanno ritenuto necessari ulteriori
approfondimenti su un fenomeno giudicato così “scontato” (Reiss, Collins e Berscheid,
2000). Vogliamo iniziare la nostra analisi partendo proprio dall’origine etimologica di
questo concetto, con lo scopo di verificare se sia effettivamente così ovvio.
Il termine “relazione” rinvia a due significati chiave: “re-ligo” e “re-fero” (Scabini e
Iafrate, 2003, p. 49). Il primo rimanda al “legare” nella sua azione concreta e astratta;
può perfino acquistare un valore sacro e di lealtà, dato che la sua radice è comune ad
altre parole, come “religio, -onis” (“scrupolo”, “coscienza”, “fede”). Il secondo
comprende una vasta gamma di significati, dal più immediato “riportare” agli
interessanti “ricambiare”, “riferire”, “attribuire”, “rinnovare”, “rievocare” (Castiglioni e
Mariotti, 1990).
La relazione è quindi un fenomeno che avvicina e mantiene coloro che vi prendono
parte, ma è anche qualcosa che prosegue, si rilancia e si recupera, come suggerito dal
prefisso “re-” all’inizio di ciascun termine.