2
Il termine disagio è penetrato in modo così invasivo nel linguaggio corrente da
essere utilizzato per descrivere sia le condizioni in cui versano intere categorie
sociali (pensiamo al “disagio adolescenziale”), sia il vissuto dell’individuo. Esso
rimanda a qualcosa di indeterminato, ad una sorta di malessere che pervade la vita
in maniera tale da renderla invivibile, amara, e frustrante.
Il termine non è nuovo; già era stato preso in considerazione nella cultura
occidentale basti ricordare che Freud nel 1929 scrisse un’opera intitolata Il disagio
della civiltà
1
, ove tratta del malessere dell’uomo civilizzato, attribuendone le cause
a un ‘contratto sociale’: l’individuo, in cambio della sicurezza garantitagli dalla
società, è costretto a reprimere i suoi istinti, a non poterli esprimere liberamente:
sessualità e aggressività vanno represse per esigenze ‘di sicurezza’, convogliate ed
espresse nelle sole forme ritenute lecite dal contesto sociale in cui si svolge
l’esistenza umana. È chiaro che per Freud la civiltà impone restrizioni alle pulsioni
individuali per salvaguardare il benessere collettivo, ma scatena disturbi inconsci
che in un certo senso condizionano lo stesso agire del soggetto.
Al di là della spiegazione psicoanalitica, sono molti gli autori
2
che si sono
impegnati nella individuazione delle cause del malessere attuale. La ricerca delle
cause, spesso, ha finito per puntare l’indice sulla società dei consumi: l’uomo
contemporaneo, si dice, è costantemente influenzato da modelli di comportamento
studiati a tavolino per fini commerciali basti pensare alla pubblicità di una serie di
prodotti che finiscono con omologare tutto e tutti. Il ‘bombardamento’ mediatico
prospetta al singolo una società di ‘pari’ alla quale occorre conformarsi, a tutti i
costi; e l’individuo finisce per interiorizzare la necessità di adeguarsi al modello
1
Cfr. REGNI R., Educazione e disagio nella modernità, Ed. Era Nuova, Firenze, 1998.
2
D. Riesman in “ La folla solitaria” del 1950 osservava che nella società odierna, economicamente
ricca, caratterizzata dal consumo più sfrenato, emerge un nuovo tipo di personalità: la personalità
eterodiretta. “Intanto personalità e non carattere, l’eccezione è di tipo psicologico, introspettivo. Se
gli uomini delle società tradizionali avevano un carattere, quelli di oggi hanno una personalità.
L’individuo eterodiretto è un essere libero che vive in una società dell’abbondanza e non più nella
scarsità. Ma l’esito è paradossale. Perché se è libero finisce in una forma di individualismo gregario
in cui individui liberi fanno però tutti le stesse cose? perché accade questo? La risposta di Riesman
è che l’individuo eterodiretto è altrettanto poco capace di distanziarsi dai modelli quanto
l’individuo orientato dalla tradizione. La differenza è che invece dei modelli immutabili del
passato, gli individui di oggi orientano il loro giroscopio interiore verso i mutevoli atteggiamenti di
quei contemporanei che entrano in contatto con loro, magari attraverso i mass media e i fenomeni
della moda. Un eccezionale sensibilità per le azioni degli altri, un notevole bisogno di
approvazione, un’ossessione mimetica di assomigliarsi agli altri, di conformarsi alle loro
aspettative, sono alcune delle caratteristiche della personalità eterodiretta, che è per ciò stesso una
personalità ansiosa”. Cfr. REGNI R., op. cit., p. 11.
3
proposto perché viene insinuato il bisogno di essere ‘come’ gli altri. Da qui nasce e
si sviluppa una nuova concezione morale, non più legata al bene e al male, ma allo
star bene e allo star male: in questo tipo di società l’uomo è sempre più preso da se
stesso e sempre meno dal tessuto sociale; tende alla ricerca di relazioni
utilitaristiche trascurando se non addirittura diventando indifferenti di fronte ai
problemi sociali anche quando questi hanno una risonanza di un certo peso.
L’uomo contemporaneo finisce così per essere preda - come osserva Lasch - di un
nuovo tipo di narcisismo
3
, che lo porta a ripiegarsi su se stesso, a spendere tutte le
energie per il conseguimento del proprio benessere, ma anche a fare i conti con un
Io debole, costantemente teso alla ricerca dell’approvazione altrui,
all’autoprotezione, ad evitare il rischio di mettersi in discussione. E su di un Io
debole l’influenza dei mass media si fa ancora più pericolosa, legando la sua
visibilità alla celebrità e la sua felicità a quest’ultima, in un processo che si avvita
su se stesso. La quotidianità e le abitudini che questa comporta fanno paura, così
come i legami troppo impegnativi, tutte le energie vengono finalizzate al successo
personale: non raggiungerlo comporta un senso di infelicità e di inadeguatezza.
Le lusinghe di stili di vita che fanno “clamore”, il miraggio del successo e della
celebrità, infatti, fanno perdere di vista l’importanza dei piccoli successi e delle
piccole conquiste, e guidano l’individuo verso obiettivi che possono risultare
sproporzionati rispetto alle proprie potenzialità. E’ facilmente intuibile la
connessione tra perdita del senso del limite e insorgenza di frustrazioni e del
conseguente profondo malessere.
Ogni investimento esclusivamente centrato sul proprio ‘io’ rischia di annullare
completamente o quasi l’immagine dell’altro, di oscurarne la stessa esistenza ed il
valore che lo accompagna, dando luogo, nel migliore dei casi, a comportamenti
3
Si tratta di un narcisismo “secondario”, che Lasch, analista del nostro tempo, nel suo scritto La
cultura del narcisismo sostiene che non possa essere confuso con il narcisismo “primario”, tipico di
ogni neonato, che non sa riconoscere e distinguere se stesso dal mondo che lo circonda. Nota Regni
R. «quello di cui parla Lach rappresenta invece un narcisismo secondario, cioè un narcisismo
nutrito da persone adulte che dovrebbero essersi lasciate alle spalle le fantasie di onnipotenza,
compresa l’indistinzione e la mancanza d’identità infantili. Questo genere di narcisismo patologico
è derivato da chi cerca di annullare le sofferenze per l’amore deluso ripiegandosi in se stesso,
investendo le energie libidiche non su oggetti ma su stesso. (…) Una cultura del narcisismo è tutta
assorbita dal presente e nel presente dal consumo, dal consumo dei beni sulle mille ribalte della vita
quotidiana. I tratti della personalità descritta da Lasch, più interessanti per il discorso sono il
considerare il mondo come uno specchio, per cui è necessario avere un certo pubblico di
ammiratori». (idem).
4
superficiali e “vuoti”, quando non diventano apertamente ostili (nei confronti
anche degli stessi familiari), annullando,in tal modo, le relazioni amicali.
L’uomo contemporaneo, in altri termini, dando esclusiva importanza
all’autorealizzazione, finisce per non rispondere più, in maniera adeguata ed
equilibrata, ai bisogni degli altri, e degli stessi familiari, dei più piccoli e dei più
deboli, dando vita ad una vera e propria catena di infelicità. Anche all’interno del
nucleo familiare, troppo spesso si assiste a rapporti vuoti e insignificanti, dove
adulti tutti concentrati a soddisfare le proprie ambizioni ed a ricercare forme di
gratificazioni personali, sia pure in perfetta buonafede, finiscono con lo stabilire
rapporti superficiali e insoddisfacenti con i propri figli, generando, in questi ultimi,
un sentimento di abbandono o, peggio ancora, di indifferenza.
Ecco, quindi, che la nozione stessa di disagio dall’adulto si riverbera sul giovane,
sull’adolescente, sul bambino; categorie ‘deboli’, che trovano l’adulto incapace di
dare delle risposte significative ai loro numerosi interrogativi esistenziali.
L’abbandono è facilmente visibile quando quotidianamente il televisore e il
computer diventano i maggiori interlocutori dei bambini, gli unici con cui essi
possano confrontarsi
4
, con il pericolo che il mondo fatato e virtuale, proposto da
questi strumenti, diventi l’unica realtà possibile.
Una certa dose di disimpegno educativo da parte dei genitori è anche evidente
nella mancanza di autorevolezza che essi dimostrano. L’assenza, spesso totale,
delle tante necessarie regole di vita, dalle quali dipende la conquista di un primo
grado di equilibrio formativo, viene percepita da bambini e adolescenti come una
resa dei genitori. Tale percezione dà luogo a una reazione duplice: all’apparente
accettazione della latitanza e al senso di “libertà” che ne deriva, contrasta, nel
profondo, la percezione di un vuoto relazionale, che crea disagio e senso di
solitudine.
Nella fase di crescita, il bisogno di modelli educativi validi e di restrizioni è forte:
sono le regole e i limiti che fanno assumere il senso della realtà. Così come è forte
4
Chiamo impropriamente “confronto” quello che i piccoli spettatori stabiliscono con i mass-media,
perché, in sostanza, è ben chiaro a tutti che non può esserci alcun confronto con mezzi che
“parlano” un linguaggio a senso unico, unidirezionale, non essendo in grado, nonostante la tanto
decantata “interattività” di fornire risposte ai mille interrogativi che affollano la mente di un
soggetto in formazione.
5
l’esigenza di dialogo
5
, della disponibilità all’ascolto e all’aiuto dei genitori.
Rinviare costantemente ad altro momento e ad altra data le richieste di
comunicazione del/della ragazzo/a, su problemi che, in un’età tanto delicata,
costituiscono spesso un peso gravoso, può portare a varie forme di reazione, che
vanno dalla chiusura del giovane in se stesso, alla sordità a qualsiasi sollecitazione
del mondo esterno, al rifiuto di impegnarsi in attività responsabili, sino ad arrivare
ad atti di violenza meramente gratuita.
Occorre, lo si capisce bene, tentare di articolare una risposta alle pressanti richieste
dei giovani; e, per farlo, domandarsi ancora una volta chi sia il giovane, che cosa
sia l’adolescenza, quali comportamenti adolescenziali possano considerarsi
normali, quanti, invece, deviati, anomali. Questi ed altri interrogativi sono di
fondamentale importanza, anche alla luce delle trasformazioni proprie della nostra
epoca.
Un’epoca tecnologicamente avanzata, ma anche di profonde crisi, se la si guarda
attraverso la lente dell’osservazione relazionale, si scopre che i rapporti adulto-
bambino, o adulto-adolescente, evidenziano le motivazioni di locuzioni quali
“malessere dell’infanzia”, “disagio giovanile”, e consimili.
Un’epoca nella quale, è vero, si dà maggior spazio ai diritti del bambino,
considerato dagli studi psicologici e sociologici come soggetto attivo del processo
formativo, cresce l’interesse teorico nei confronti delle giovanissime generazioni e
dei loro mondi vitali, tanto che si sostiene che si è passati da una cultura
adultocentrica ad una puerocentrica. Viviamo in un mondo nel quale sono
rilevabili molte esperienze che contraddicono queste direttrici; la concretezza del
vivere quotidiano cozza spesso con le dichiarazioni d’intenti, ne fa delle petizioni
di principio.
Lo scenario educativo attuale è visibilmente molto diverso da quello del passato:
alla famiglia patriarcale, composta da più persone organizzate secondo un ordine
gerarchico che presupponeva la soggezione dei figli all’autorità paterna, si è
sostituita la famiglia nucleare, formata da padre, madre e figlio ‘unico’, fondata su
5
Il dialogo, è bene ricordarlo, è un altro problema sul quale oggi si insiste in maniera costante,
perché rappresenta la base fondamentale della comunicazione, dalla quale dipende l’efficacia di un
rapporto relazionale e formativo.
6
principi democratici e ugualitari; tuttavia lo scenario educativo attuale non risulta
meno conflittuale del precedente.
Ho già detto del bisogno, urgente, di rivedere i rapporti genitori-figli all’interno
della società contemporanea, nel senso di una loro maggiore ‘autenticità’; il
dialogo, il rispetto reciproco, il riconoscimento e l’accettazione dei ruoli di
‘genitore’ e di ‘figlio’ come ruoli diversi e separati costituiscono i cardini di questa
“rivisitazione”. Certo è che bisogna anzitutto evitare di creare quei rapporti
falsamente ugualitari, nei quali i bambini finiscono per avere dinanzi non adulti,
ma ‘quasi’ coetanei, che simulano un comportamento non idoneo al loro effettivo
ruolo.
Bisogna, poi, centrare l’attenzione su quei casi che si presentano particolarmente
complessi e conflittuali; parlo soprattutto di quelle situazioni caratterizzate dalla
violenza, e mi riferisco tanto ai casi di violenza fisica che a quelli più subdoli,
meno visibili, della violenza psicologica. Quest’ultima è allarmante alla stessa
stregua della prima, considerato che utilizza strumenti ed espedienti che
mascherano la realtà scoprendone solo l’allettante aspetto esteriore, sicchè la
concretezza del metalinguaggio colpisce senza, tuttavia, lasciare indizi.
Famiglia, relazioni sociali, istruzione sono tutti ambienti le cui dinamiche possono
ripercuotersi negativamente sul soggetto in evoluzione e innescare una serie di
complesse e diversificate reazioni che caratterizzano oggi i comportamenti
devianti di un numero rilevante di giovani
Abuso di alcool, assunzione di sostanze stupefacenti, guida spericolata, disturbi
alimentari, precocità e promiscuità nei rapporti sessuali e le altre condotte
trasgressive e devianti, diffuse tra i giovani, sono tutte manifestazioni di una
sofferenza psicologica, di un malessere, appunto; in esse agisce anche un desiderio
inconscio di punirsi, di farsi del male, che talora giunge sino all’autodistruzione, al
suicidio.
Di fronte a queste manifestazioni, in tutta coscienza, non possiamo fornire delle
spiegazioni semplicistiche, limitandoci, magari, ad archiviare tali comportamenti
come espressioni di menti malate, anormali, deviate, senza prima chiederci quale è
un comportamento normale e cosa si intende per “normalità”.
7
Né possiamo far nostri tutti quei luoghi comuni che nascono proprio dal desiderio
di non assumersi la responsabilità di quanto accade, scaricandone le cause
unicamente sui giovani stessi. Molti ritengono che i motivi più forti di atti
“vandalici”, di comportamenti devianti, di manifestazioni violente vanno
individuati nell’“eccessivo benessere”, nella “noia”, nella “mancanza di problemi”,
nel “deserto dei valori”.
Arrestarsi a questa visione del disagio adolescenziale significa rifiutare l’impegno
per una soluzione adeguata, così come non è possibile sostenere come fanno altri
osservatori, che la nostra società sia priva di problemi. Occorre continuare a
domandarsi il perché di quanto accade, focalizzare l’attenzione sulle cause remote
di atti, condotte che spesso si rivelano estreme manifestazioni di un bisogno di
dialogo, comunicazione, guida, spiegazioni, formazione alle quali la società, in
tutte le sue istituzioni, dalla famiglia, alla scuola, non ha saputo dare risposta.
La complessità del fenomeno del disagio adolescenziale, richiede un’analisi attenta
e una capacità di lettura del problema che vada oltre le spiegazioni parziali, che
tenga in considerazione i vissuti personali del giovane, gli stili educativi, le
relazioni familiari, l’ambiente di provenienza... tutta una serie di variabili che
vanno scandagliate, nello sforzo di comprendere tale complesso fenomeno,
rintracciandone le cause profonde per prevenirne le diverse, ma sempre infauste,
manifestazioni.
Ora più che mai è necessario affrontare una sfida per cercare di contenere un
fenomeno in rilevante espansione. Non si può fare ciò se si prescinde
dall’importanza degli interventi educativi, in una fase critica come quella in cui la
personalità dell’individuo è in formazione. Educare e assumersi la responsabilità
che essa comporta è il primo compito che la famiglia e la società intera devono
assolvere, nella consapevolezza che ogni intervento contribuisce a scrivere la
storia personale del singolo ragazzo, a determinarne le possibilità di crescita e
maturazione.
Un ruolo importante e una più meditata assunzione di responsabilità, rispetto ai
giovani, spetterebbe anche ai mass-media, quegli stessi che costantemente portano
all’attenzione della pubblica opinione le risultanti più tragiche, drammatiche del
disagio giovanile.
8
E’ cronaca recente quella che ci parla di episodi di giovani che diventano i nemici
spietati dei propri genitori, degli amici, della persona amata; di bande violente; di
giochi perversi.
I mass-media danno molto spazio ad avvenimenti cruenti, ma le modalità
comunicative utilizzate rischiano di divenire pericolose perché spesso si tratta solo
di notizie urlate, di immagini crude, di ricostruzioni dettagliate e spesso morbose
dell’accaduto, senza un’analisi delle cause o suggerire la ricerca di spiegazioni
plausibili e non solo superficiali e approssimative, se non addirittura generalizzanti
i fenomeni stessi. In gran parte dei casi si assiste alla banalizzazione del fenomeno
o, peggio, alla giustificazione del singolo caso drammatico, avvolgendolo in un
alone di mistero, di inspiegabilità, o dandone spiegazioni di tipo “diabolico”.
Il rischio più ricorrente consiste nell’archiviare come “incomprensibile” un evento,
rinunciando a confrontarsi con la sua complessità oltre che con la sua
drammaticità. Più in generale, un modo superficiale di affrontare il problema
potrebbe diffondere l’idea che l’universo giovanile sia qualcosa di strano,
imprevedibile, preda di pulsioni immotivate e malvagie.
Un altro rischio, sul quale ci si interroga, è quello connesso alla possibilità che le
modalità di divulgazione di una notizia riguardante atti di violenza compiuti da
giovani possa indurre altri giovani a processi imitativi.
Può esserci un nesso causale tra il diffondersi di una notizia e l’aumento
dell’evento narrato? In altre parole, si può agire per imitare qualcun altro?
Secondo me, i mass-media potrebbero creare intorno ai soggetti devianti,
un’atmosfera di potere e di grandezza, affascinando altre persone che nutrono, sia
pure a livelli inconscio, gli stessi desideri e propositi, si fa urgente quindi
ripensare la nozione stessa di responsabilità personale
6
.
6
A questo proposito alcuni autori sostengono che sarebbe troppo comodo spiegare con la
televisione la crescita delle condotte devianti, M. T. Gammone fa notare che “ Statera in particolare
ha insistito su questo aspetto, sottolineando che la televisione ( come in generale tutti gli strumenti
multimediali) possono essere agenti suppletivi di socializzazione, ma in positivo oltre che in
negativo. Questa argomentazione è fondamentale in una discussione sulla necessità della
responsabilizzazione. (…) il tema della responsabilizzazione risulta importante sotto molteplici
profili. C’è una responsabilità dei genitori, che non possono lasciare i minori in balia di programmi
televisivi per loro non appropriati; c’è una responsabilità dei poteri pubblici che non si impegnano a
rafforzare una televisione pubblica interessata nella formazione; c’è una responsabilità degli
educatori che non sottolineano sufficientemente l’importanza dell’addestramento dei minori alla
gestione di uno strumento in sé neutro come la televisione, c’è infine una responsabilità di chi
9
Non si può pensare che chi agisce, lo fa solo perché condizionato: deve esserci,
sempre, qualcosa di più intimo e personale che spinge i giovani a manifestare i
loro conflitti, e ciò che sentono in modo anomalo. Certamente i media possono
offrire notevoli informazioni sui metodi e i mezzi utilizzati dagli adolescenti per
procurarsi la morte o per procurarla ad altri, ma essi sono imitati solo da coloro
che sono, in qualche modo e per ragioni che sfuggono all’informatore, predisposti
a compiere atti estremi.
Rimane da chiedersi perché ci sono persone che imitano tali gesti e quali sono i
loro vissuti interiori. Questo a mio avviso è fondamentale, così com' è importante
tener presente che spesso i ragazzi non sono capaci di prevedere completamente
gli esiti di ciò che fanno.
In ogni caso, come ho detto, va spesso imputato all’azione dei mass-media quel
senso di infelicità che attanaglia l’uomo contemporaneo, novello narciso, tutto teso
al raggiungimento di modelli di vita inappropriati e inaccessibili, che, proprio per
essere solo dei miraggi, possono influenzare e turbare menti in via di formazione.
Spetta ancora una volta in primo luogo alla responsabilità dei genitori tenere sotto
controllo l’azione potenzialmente perturbatrice dei mezzi di comunicazione di
massa, proteggerne i propri figli, anche attraverso la proposta, concreta e non solo
verbale, di modelli di vita e di comportamento ‘alternativi’, ‘veri’, ‘vissuti’ e
positivi. Spetta pur sempre all’adulto assumersi la responsabilità dei propri compiti
educativi, nonostante egli stesso vada perdendo il senso della realtà, dei valori
‘veri’, rimanendo ammaliato da quei mondi ‘paralleli’, che lo sollecitano a delle
modalità più facili per il loro raggiungimento e, per ciò stesso, propenso ad
assumersi le responsabilità dei propri compiti educativi.
Lo smarrimento dei valori può essere spiegato anche tenendo in considerazione il
fatto che viviamo in un’epoca contrassegnata dalla complessità: la cifra che
caratterizza la società contemporanea non è più quella dell’omogeneità, ma quella
della pluralità. La nostra, è una società multietnica, ove costumi, culture, visioni di
vita, etnie diverse convivono, cercando di contemperare bisogni e tendenze talora
contrastanti, apparentemente incompatibili. Ma è anche una società globalizzata,
lavora nelle comunicazioni di massa”. GAMMONE M. T., Responsabilizzazione e devianza
minorile, Cacucci Editore, Bari, 1999, p 156 – 159.
10
ove modelli di vita univoci tendono a imporsi su un universo quanto mai
variegato
7
.
Di fronte a questa complessa pluralità, l’uomo occidentale ha perso le sue certezze
e sente di essere chiamato a costruirne di nuove; improvvisamente qualcosa è
cambiato, il senso e i valori attribuiti al mondo si sono frantumati in mille pezzi.
Il singolo ha perso tutto ciò che da sempre aveva ritenuto importante e sente di
essere bombardato da nuovi modelli culturali. Vedendo messe in discussione tutte
le proprie tradizionali certezze, i significati abitualmente attribuiti alla realtà
circostante, non sa più come agire, perché non sa più a che cosa deve conformare
la propria condotta. All’improvviso ogni tradizione ha perso la sua valenza, ogni
perla di saggezza proveniente dal passato è stata spazzata via, perché sentita come
estranea e inutile in un mondo tanto diverso da quello che le aveva promosse e così
mutevole. Ne deriva un senso acuto di disorientamento, di incertezza, di
confusione.
La sfida odierna, consiste, allora, nel riscoprire ciò che conta veramente,
recuperandolo dal passato oppure creando nuovi principi. L’uomo è chiamato a
ridare senso e valore alla realtà circostante, quindi ad un compito nuovo, perché
mai fino ad ora si era verificata una simile rottura con il passato e le tradizioni.
Restano, tuttavia, alcuni valori dai quali non si può derogare e che possono segnare
il cammino e orientare l’uomo nel cambiamento: il diritto alla vita, la libertà di
espressione e di azione, il rispetto reciproco, l’onesta, il senso del dovere e di
responsabilità, compresa quella di prendersi cura dei figli e di chi è debole, non
hanno perso e non possono perdere la loro funzione di faro. Così come la
tolleranza, l’ascolto, il dialogo, tanto più necessari nella complessa e plurale
società odierna. Principi conquistati a fatica, che hanno scandito il recente vivere
sociale dell’uomo occidentale e che non possono in ogni caso venir meno, pena lo
7
“ Si è realizzato oramai quello MecLuhan aveva chiamato il “villaggio totale”, nel senso che il
mondo, per le possibilità che ognuno ha di vedere, sentire e partecipare alle vicende e alle
espressioni di vita di ogni punto della terra - e in un domani forse non lontano anche di molti altri
luoghi dell’universo – vive ormai in una dimensione planetaria”. Il villaggio totale è consentito,
secondo Santoni Ruggiu A. dal crescente sviluppo delle comunicazioni di massa “ (…)Le
comunicazioni moderne – telefono, radio, tv – hanno permesso di allargare grandemente il raggio
delle possibilità sensoriali. Non solo perché oggi possiamo spostarci con notevole rapidità, ma
ancor più perché le nostre facoltà di vedere e di udire si sono ampliate in un senso fantastico”. Cfr
SANTONI RUGGIU A. Scenari dell’educazione nell’Europa moderna, La Nuova Italia, Firenze,
1994,. P. 476.
11
smarrimento totale di ogni guida sicura nell’incertezza contemporanea. E’ quindi
di fondamentale importanza, oltre che continuare a ‘coltivarli’ impegnarsi a
trasmetterli alle nuove generazioni, in un momento in cui i giovani si sentono
preda, ancor più dell’adulto, di un senso di smarrimento, in larga parte comunicato
loro proprio dal disorientamento di chi dovrebbe in qualche modo guidarli.
Disagio giovanile, ribellione, scontro generazionale sono sempre esistiti; oggi,
tuttavia, non si può non constatare con preoccupazione l’aumento della violenza
giovanile auto ed eterodiretta. E ciò non può non essere in relazione con la
latitanza di valori cui si è accennato.
Occorre interrogarsi su quanto sta accadendo, cercare di comprenderne fino in
fondo le ragioni, rinunciare ai luoghi comuni, alle soluzioni facili, così come agli
alibi e alle giustificazioni.
L’impegno, la riflessione in educazione devono essere costanti, e non limitarsi a
rigurgiti emotivi legati a fatti di cronaca; ognuno di noi deve avere il coraggio (dai
genitori, agli operatori, agli intellettuali) di chiedersi cosa abbia cessato di
funzionare, e soprattutto essere consapevole che qualcosa è cambiato nel modo di
gestire le relazioni intime, specialmente quelle familiari.
Il rapporto genitori-figli si costruisce negli anni, nasce e cresce gradualmente:
dall’analisi attenta e amorevole dei primi bisogni, alla trasmissione di principi e
valori ritenuti fondamentali, alla imposizione di limiti e restrizioni. Le scelte
educative dovranno essere pensate, coerenti: permissivismo, indecisione,
autoritarismo, falso egualitarismo non porteranno a nulla di buono nel soggetto in
evoluzione.
Così come la disattenzione, l’incapacità di comprendere le fasi dello sviluppo:
considerare ad esempio il bambino, come un uomo in miniatura, da gettare prima
possibile nel mondo degli adulti, è un approccio sbagliato. L’infanzia, come le
altre fasi dello sviluppo di un individuo, ha i suoi tempi e i suoi mondi, che vanno
rispettati. Caricare un bambino di responsabilità troppo grandi per lui, metterlo al
corrente, in tenera età della crudezza della vita, farlo smettere di sognare,
smentendo le favole e le magie da esse proposte è un errore: una fiaba insegna che
qualsiasi problema può essere risolto in modo positivo, stimola la fantasia e la
creatività.
12
Comprendere e prevenire il disagio giovanile è un’impresa difficile e audace, ma
tanto più necessaria di fronte “alla fragilità di questo mondo giovanile, ragazzi
belli decorati di ogni oggetto elegante possibile, intelligenti, ma affettivamente
fragili come qui vetri di Murano che affascinano e poi basta un colpetto e vanno in
frantumi”
8
.
È importante capire quanto influiscono sul disagio giovanile, i metodi educativi, le
nuove tipologie di famiglie ( attualmente essa può anche essere composta da un
solo genitore, da tre o più persone, da un genitore e da un compagno ecc.), le
nuove relazioni genitori-figli (pensiamo a quelle basate sulla pseudo-uguaglianza),
l’assenza di regole e spesso di valori, i continui stimoli, incontrastati, provenienti
dai media, e ancora, l’eccessiva importanza data al successo e ai beni materiali, e
così di seguito.
Probabilmente nessuna indagine potrà rispondere a questi quesiti in modo
esauriente, ma questo non è un buon motivo per non intraprendere una ricerca in
tal senso. In ogni caso, mi pare essenziale indagare sulla natura del rapporto tra
cambiamenti della società, disorientamento degli adulti e malessere giovanile.
Non dimentichiamo, ad esempio, che in passato la famiglia, in prima luogo, e le
istituzioni scolastiche, si proponevano, essenzialmente, di trasmettere alle nuove
generazioni quei saperi ritenuti fondamentali per poter vivere. Questo oggi non
sembra accadere più, almeno a stare a quanti, e sono in molti, avvertono una
profonda frattura tra ciò che è stato loro insegnato e le situazioni che si trovano a
fronteggiare e non ritengono di avere nelle proprie mani una ‘verità’ da poter
tramandare.
Quanto ai giovani, essi sempre più spesso, stentano ad identificarsi con i modelli
(quando ci sono) proposti da genitori e insegnanti, e finiscono col mutuare dai
media modelli di comportamento e ‘figure’ di riferimento aberranti: nuovi idoli e
nuovi mondi popolano il loro immaginario, fatto di calciatori, show girl, giovani
rampanti, dal successo facile, lustrini. Basta riandare all’effetto avuto dai media
sui tanti emigranti giunti in un’Italia “da sogno”, per poter pensare a quale
amplificazione tale effetto possa avere in una personalità in formazione, lasciata
sola a bersi quei sogni.
8
Morelli R., Schelotto G., Uno sconosciuto in casa, supplemento a Riza Psicosomatica, n. 244,
Milano, 2001, p. II, n° 244, 2001, Milano.
13
Le istituzioni deputate all’educazione, quali la famiglia e la scuola, sembrano
mancare di progetti educativi efficaci, pensati e rivolti all’infanzia; troppo, a mio
avviso, viene ancora lasciato all’improvvisazione. Di fronte alla complessità della
materia, all’importanza che oggi più che mai rivestono gli interventi educativi, mi
pare manchi spesso un’adeguata preparazione e una giusta motivazione nei
genitori e, peggio, anche negli insegnanti.
Gli adolescenti vivono frequentemente senza figure valide con cui confrontarsi, a
cui chiedere aiuto e conforto per affrontare le difficoltà della vita. La mancata
assunzione di responsabilità, in questo campo, è colpa gravissima, e a nulla serve
la moltiplicazione di regali, beni materiali, merce cui sempre più spesso gli adulti
delegano il compito di dimostrare l’affetto e l’attenzione che essi non danno. E’
modo di fare tipico delle società consumistiche, in cui ognuno sente di contare
qualcosa non per ciò che è, ma per quello che ha: l’essere viene barattato con
l’avere, e con l’essere, l’affetto, l’attenzione, il ruolo di guida autorevole che sono
i cardini su cui dovrebbe incentrarsi il ruolo fondamentale del genitore e
dell’educatore.
Ragazzi ben nutriti, belli, ben vestiti e ben ‘equipaggiati’, pieni di tutto quello che
potrebbero chiedere viaggiano insoddisfatti, emotivamente deboli, smarriti e soli
nel mondo di merci che la società degli adulti ha loro ‘regalato’.