6
ascoltare punti di vista contrastanti, evidenziare problematiche connesse, trovare le modalità
più efficaci di cambiamento.
Questo modo di affrontare la questione mi è sembrato essere molto diverso da quello dei
mass media, le cui notizie hanno costituito la mia prima fonte di conoscenza dell’argomento.
Io come tanti altri, cioè il pubblico di lettori di quotidiani o di spettatori televisivi, ho
appreso dell’esistenza delle Mgf attraverso la lettura di articoli o la visione di servizi e
reportage, che non hanno però, almeno nel mio caso, allontanato quella sensazione di avere a
che fare con un’alterità incomprensibile.
Chi si è occupato del tema, come ad esempio l’antropologa Mila Busoni (in Busoni,
Laurenzi 2005, 12), accusa anzi proprio i mass media di averlo sensazionalizzato, di essersi
focalizzati sulla radicalizzazione delle posizioni a riguardo e di aver perso di vista ciò che
doveva essere il suo compito più importante, il saper orientare all’interno di una questione
delicata e difficile. Infatti l’intento di Busoni è quello di proporre delle linee critiche utili a
tale scopo, così come Gruenbaum (2001, 1) dichiara che il suo obiettivo è quello di
“migliorare la comprensione, ridurre le denunce semplicistiche e fornire una solida base di
consapevolezza a coloro che decidono di appoggiare gli sforzi del cambiamento”. Secondo
l’autrice non basta conoscere solo i fatti o arrivare ad una posizione pro o contro, serve
considerare il contesto sociale e l’esperienza umana, e a questo fine include esempi dalla sua
ricerca etnografica in Sudan, oltre che esaminare le ragioni della pratica, le conseguenze
fisiche, sociali, sessuali e le controversie che si sono sviluppate attorno al processo di
cambiamento.
Sono testi come questo che mi hanno aiutato a soddisfare il bisogno di capire, ad esempio
presentandomi una grande varietà di modi con cui affrontare la questione, che io credevo
invece potesse essere posta solo in certi termini.
Mi sono rivolta a testi antropologici in quanto, nonostante Francesco Remotti nella sua
introduzione al testo di Allovio (2002, VII) affermi che “l’antropologia culturale e sociale si
contraddistingua per un’offerta piuttosto bassa di protezione e sicurezze”, poiché
diversamente da altre scienze ha a che fare con forme di vita vissuta, mi è sembrato un
ottimo strumento di comprensione, e tale lo considera anch’egli proprio per questo motivo.
Remotti, infatti, paragona l’antropologia ad un tessuto creato non solo dagli antropologi di
professione ma anche da tutta la gente con cui essi entrano in contatto, incompleto, in
continuo rifacimento e proprio per questo vitale. E’infatti a partire dal presupposto
dell’incompletezza sia delle culture sia dell’antropologia che vale la pena sentire cosa “altri”
7
hanno di importante da suggerire. L’antropologia nasce da una ricerca della possibilità di una
conoscenza della variabilità umana, oggetto di studio affascinante anche per la sua capacità
di disorientamento. L’argomento delle Mgf risulta di difficile decodifica proprio perché
mette di fronte ad una “alterità” dai tratti distintivi molto netti, forti, che richiedono
approfondimento per essere compresi. A questo proposito la letteratura antropologica che ho
preso in esame comprende autrici italiane come Mila Busoni ed Elena Laurenzi, insieme agli
autori e autrici della loro raccolta (2005), Michela Fusaschi (2003), Carla Pasquinelli (2000),
mentre tra i testi di autori e autrici stranieri mi sono stati d’aiuto quelli di Ellen Gruenbaum
(1982, 1996, 2001), Janice Boddy (1991, 1998), e vari articoli di antropologi e ricercatori
tratti da riviste accademiche che citerò in seguito.
Dopo essere arrivata ad una consapevolezza maggiore della questione, sono tornata alla
fonte primaria della mia conoscenza sulle Mgf, i mass media: una conoscenza più
approfondita dell’argomento ha accresciuto la mia curiosità riguardo sia allo spazio che gli è
stato accordato dai mezzi di comunicazione, sia al modo in cui il tema Mgf è stato realmente
rappresentato, definito, messo in discorso e “incorniciato”attraverso frames, al di là di quella
che è stata la mia sensazione iniziale.
L’argomento mi è sembrato interessante in quanto la controversia attuale sulle mutilazioni
genitali femminili tocca quelli che Walley (1997, 405) ha definito “numerosi nervi scoperti”.
Esso sfida le fondamentali concezioni di corpo, sé, sessualità, famiglia e morale, e un modo
di interpretare le relazioni di genere nei paesi non occidentali che ci è stato trasmesso dalle
descrizioni di epoca coloniale. Inoltre secondo l’autrice tale dibattito pubblico solleva
questioni pertinenti riguardo il nostro mondo sociale contemporaneo, essendo connesso alla
tematica della natura dei diritti umani universali, ai modi in cui tali diritti escludono o
includono le donne, ai diritti culturali delle minoranze in seguito all’aumento di
immigrazione nei paesi euro-americani, e infine al significato e all’attuabilità di “società
multiculturali”.
Un’occasione quindi per analizzare una rappresentazione dell’“altro” da
parte della stampa italiana, che a tale scopo è stata spesso oggetto di monitoraggi per lo più
riguardo al tema dell’immigrazione, mentre in relazione a questo tema più specifico, capace
di suscitare emozioni e reazioni molto forti, conosco solamente la ricerca di Silvia
Manganelli e Cristina Cenci sulla stampa italiana tra il 1992 e il 2000, contenuta nel testo di
Pasquinelli (2000, 15). Un simile argomento permette inoltre di riflettere sul ruolo e
l’efficacia della comunicazione attuale dei media come strumento delle campagne di
sensibilizzazione.
8
Come rappresentanti dell’informazione ho deciso di prendere in esame tre quotidiani italiani
nazionali, Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa, considerati nel periodo che va da
gennaio 1998 a luglio 2005, di cui sono stati trovati 95 articoli riguardanti il tema delle Mgf.
Gli articoli sono stati analizzati dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo, dopo aver
inquadrato l’argomento in una prospettiva socio-antropologica: ho ritenuto tale approccio
indispensabile per poter affrontare il tema e comprenderlo nella sua notevole complessità.
In una prima fase, come già detto, ho ritenuto opportuno verificare se vi fossero ricerche
analoghe in Italia, trovando come unico risultato quella di Cristina Cenci e Silvia
Manganelli, La costruzione sociale del corpo dell’immigrata: le rappresentazioni delle
mutilazioni dei genitali femminili nella stampa italiana e nella letteratura specialistica.
Sono
sorti però dei problemi nel momento in cui ho voluto operare un confronto con i dati
ottenuti: esse infatti indicano i dati in termini percentuali per quanto riguarda gli articoli
trovati sul tema Mgf in La Stampa e Corriere della Sera nel periodo 1992-1998, senza però
indicare la numerosità di articoli a cui si riferiscono. Questa questione viene considerata nel
capitolo 2, paragrafo 2.1, “Ricerche precedenti”.
L’analisi dunque procede rilevando gli articoli a cui è stato dato più spazio e visibilità:
quest’ultima è stata calcolata in termini di rilevanza, di cui sono stati costruiti degli
indicatori. E’interessante vedere se le notizie delle Mgf a cui è stato dato più spazio sono
anche quelli che godono di maggiore visibilità.
Tale analisi quantitativa dei dati è volta all’approfondimento dei meccanismi di gatekeeping
e agenda setting, attraverso cui le notizie e i relativi sottotemi vengono selezionati e
gerarchizzati dalle redazioni dei quotidiani; non si ritiene, infatti, che la comunicazione dei
mass media agisca a senso unico in direzione di destinatari passivi, ma che sia comunque
importante e non privo di conseguenze il fatto che essa comunichi una certa “agenda delle
priorità” (McQuail 2000, 356).
Per capire tali processi, che Sorrentino (2002, 93) definisce “i processi negoziali attraverso i
quali si scelgono gli eventi da trasformare in notizia”, può essere utile l’approccio del
newsmaking: la tradizione di studi sul giornalismo, sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni in
particolar modo nei paesi anglosassoni, indica le fonti d’informazione, il pubblico e i
mediatori di informazione come gli elementi coinvolti in questo processo di scelta.
9
Tale approccio rende conto anche dei frames con cui una notizia è incorniciata, schemi
interpretativi che facilitano sia il giornalista nel presentare la notizia, sia il lettore nel
comprenderla.
2
Una messa in prospettiva tanto più utile nel caso in cui l’argomento trattato
riguardi altri Paesi che sono sembrati lontani finchè i fenomeni migratori recenti non ne
hanno portato le problematiche qui “da noi”. Improvvisamente il tema delle mutilazioni
genitali femminili diventa di interesse comune, l’allarme si diffonde, si cercano soluzioni
rapide ad una situazione che riguarda popolazioni da millenni. E’ ciò che Dearing e Rogers
(1996) riportano essere “the issue-attention cycle”: il ciclo di vita di un tema diventato
notizia, dal momento in cui conquista l’attenzione del pubblico (e raramente ciò avviene in
rapporto a real world indicators, cioè a dati che rivelano una particolare rilevanza del
fenomeno come problema sociale in quel dato periodo), a quando l’interesse declina. Spesso
è un evento chiave a creare interesse attorno ad un tema: si rivela qui la natura di costruzione
sociale di un tema messo in opera dai media, che “scoprono” il tema Mgf e lo mantengono di
interesse pubblico incorniciandolo di volta in volta in modi diversi. Essi ipotizzano
un’influenza dell’agenda dei media su quella del pubblico, nonostante ammettano la
possibilità di una rielaborazione attiva da parte del pubblico, che in certi casi porta a incidere
sull’agenda politica: nel nostro caso abbiamo come esito l’approvazione di un disegno di
legge contro le Mgf.
La rilevazione degli articoli ha inoltre permesso di conoscere la terminologia più usata per
riferirsi alle Mgf (termine che per ora sto usando senza rendere conto della scelta fatta, ma
che necessita di una spiegazione in merito), quali fonti sono citate, a chi viene data la parola,
il tono usato dal giornalista nel testo e nel titolo.
Per quanto riguarda la metodologia seguita nel corso dell’analisi, che ho qui sintetizzato,
rimando alla “Nota Metodologica”:
3
in essa esplicito il procedimento con cui ho individuato
gli articoli, rendo conto delle testate e del periodo scelti, chiarisco il modo con cui ho
stabilito l’indice di rilevanza, nota a cui segue la griglia di rilevazione con cui ho analizzato
gli articoli.
2
I meccanismi di framing delle notizie - ovvero di messa in prospettiva - saranno approfonditi nel capitolo 3.
Essi sono il prodotto del lavoro di definizione della situazione da parte in questo caso dei giornalisti, che
applicano interpretazioni standardizzate con cui costruiscono cornici di significato prestrutturate. Vedi E.
Goffman, L’interazione strategica, Bologna, Il Mulino, 1988 (citato in C. Sorrentino, 2002).
3
Vedi Appendice, p. 188.
10
Ciò che mi interessava, dunque, era sapere quanto spazio effettivo era stato dato al tema
delle Mgf dalla stampa italiana e in secondo luogo farne un’analisi qualitativa, partendo dal
presupposto che le informazioni selezionate e tematizzate dai mezzi di comunicazione di
massa sono importanti indicatori e al tempo stesso operatori di rappresentazioni sociali, cioè
del sapere collettivo condiviso. Esse vengono definite da Moscovici (in Farr, Moscovici
1989, 32), che ha ripreso una nozione proposta da Emile Durkheim per sottolineare
l’importanza dell’attività simbolica nella costituzione della società e delle identità sociali,
come “creature del pensiero”, ma non per questo non costituiscono un ambiente reale. Le
rappresentazioni sociali sono modi di comprensione della realtà, convenzioni e pregiudizi
che consistono in una costruzione e ri-costruzione continua di senso comune, rendendo così
possibile la comunicazione dei gruppi sociali al loro interno e fra loro. Esse non sono la
semplice somma delle rappresentazioni dei singoli, ma di un lavoro di rielaborazione e di
interpretazione delle conoscenze frutto dell’interazione sociale. Moscovici sostiene che sia
bene prendere atto di tali convenzioni, che hanno come scopo principale rendere ciò che è
inconsueto familiare, e riconoscerle come un tipo di realtà.
Detto questo, ciò che trovo interessante è scoprire i modi in cui l’inusuale viene reso
comprensibile in una data società e in una certa epoca, nel mio caso nella società italiana
contemporanea che si è trovata di fronte alla rappresentazione non facile di un fenomeno di
difficile comprensione. La stampa italiana dunque ha contribuito alla costruzione delle
rappresentazioni e alla loro trasmissione ai lettori, attraverso un’opera di framing
(incorniciamento), e in questo senso può essere considerata operatrice di senso comune; allo
stesso tempo, però, non dobbiamo ignorare come anche i soggetti sociali partecipino a tale
lavoro di rielaborazione, per cui la stampa può essere definita anche come indicatore e non
solo unico soggetto attivo.
11
CAPITOLO 1
LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI (MGF) IN UNA PROSPETTIVA
SOCIO-ANTROPOLOGICA
1.1. Terminologia
La prima difficoltà che ho trovato nell’affrontare il tema delle mutilazioni genitali femminili
è stata riguardo la scelta del termine.
Le pratiche che vengono definite in questo modo hanno infatti varie possibilità di
denominazione, che portano con sè diverse interpretazioni e concettualizzazioni del
fenomeno.
Ancora oggi, come nota nel suo saggio in Busoni e Laurenzi (2005, 107) Diye Ndiaye,
coordinatrice per l’Italia della rete europea Euronet contro le Mgf, non si è arrivati ad un
accordo: questo nonostante l’espressione inglese “Female Genital Mutilation”,
corrispondente a quella italiana “Mutilazione Genitale Femminile” (da cui le rispettive sigle
Fgm e Mgf ), sia stata accreditata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Nel 1990, infatti, in occasione della III Conferenza tenuta dall’Inter-African Committee on
Traditional Practices Affecting the Health of Women and Children,
1
l’OMS consiglia di
abbandonare l’espressione “circoncisione femminile” in favore di “mutilazioni genitali
femminili”, unica denominazione accreditata a partire dal 1995.
Il termine Fgm venne scelto per la prima volta a metà degli anni Ottanta, in particolare
dall’IAC, per definire la pratica in tutte le sue varie forme e sottolinearne l’invasività se
confrontato con la circoncisione maschile, osserva Cristiana Scoppa in Busoni e Laurenzi
(2005, 130). Fino a quel momento, infatti, l’espressione più usata era female circumcision,
circoncisione femminile, ancora oggi usata a livello locale dove è una traduzione del termine
usato nella lingua locale.
Tale passaggio da un termine all’altro non è stato accettato all’unanimità: alla Conferenza
Mondiale delle Donne di Copenaghen (1980), continua Ndiaye (Busoni e Laurenzi 2005,
107), le donne africane partecipanti si opposero alla proposta delle donne occidentali di
1
IAC: la prima organizzazione panafricana contro le pratiche tradizionali nocive per la salute di donne e
bambini/e.
12
chiamare la pratica “mutilazione” invece che “circoncisione”, in quanto giudicavano
l’approccio femminista occidentale come invadente e razzista e percepivano nel termine da
loro scelto una implicita condanna, una valutazione negativa verso atti che per i soggetti
coinvolti non costituivano una mancanza, ma, come Fusaschi (2003, 31) ha definito, “eventi
positivi della vita dell’individuo, della comunità o tutt’al più passaggi necessari e obbligati
nel percorso di crescita della persona”.
Oggigiorno le attiviste rifiutano sempre più la denominazione di “circoncisione femminile”,
in considerazione del rispetto dell’integrità del corpo e del rifiuto di ogni forma di violenza.
Il termine “circoncisione” innanzitutto ha un significato specifico, consistente nell’ablazione
del prepuzio del pene, e in secondo luogo induce ad una facile assimilazione alla pratica
della “circoncisione maschile”. Essa di solito non ha nessuna complicanza medica, e, come
fa notare Ndiaye, prevede una preparazione psicologica all’operazione che non è invece
riservata alle ragazze o bambine (Busoni, Laurenzi, 109). A questo riguardo Walley (1997,
408) rigetta tale denominazione in quanto tratterebbe la rimozione del prepuzio nei maschi
come se fosse equivalente a quella della clitoride nelle femmine, facendo dimenticare la
perdita permanente di sensibilità sessuale nelle ragazze. A proposito però Walley riferisce
come non sia mai stato discusso e approfondito il modo in cui le donne che hanno
sperimentato tali procedure facciano esperienza della sessualità, sfiorando un tema che
Gruenbaum ha affrontato nei suoi scritti e che riprenderò più avanti in merito agli effetti
delle pratiche sulla sessualità, sia femminile che maschile.
Anche Michela Fusaschi (2003, 123) evidenzia l’asimmetria e la non - equivalenza tra le due
operazioni, e come l’uso confuso dei due termini rimandi a un ritardo culturale o a un
inquietante atteggiamento liquidatorio.
Tuttavia il dibattito non si è spento: a metà degli anni Novanta numerose organizzazioni
hanno iniziato a criticare l’espressione Fgm, perché sarebbe interpretato come un giudizio
negativo esteso a tutta la propria cultura da parte delle comunità locali, quindi di ostacolo al
dialogo e alla conseguente possibilità di abbandono della pratica. Sono stati proposti altri
termini, come Fgc, female genital cutting (taglio dei genitali femminili) o come Fgm/c,
female genital mutilation/cutting, una mediazione ulteriore verso cui l’UNICEF e altre ong
internazionali si stanno orientando, che riconosce il danno fisico della pratica, ma afferma il
rispetto verso le culture in cui è diffusa.
Durante la mia consultazione di testi antropologici ho inoltre ritrovato una varietà ancora
maggiore di scelte terminologiche: la già citata Walley (1997) adotta il termine female
genital operations, operazioni genitali femminili, quando non può riferirsi in termini più
13
specifici a clitoridectomia e infibulazione. Questo le permette di evitare sia il termine
“mutilazione genitale femminile” che “circoncisione”, i quali le sembrano rimandare ad un
aut-aut, riferirsi a due modi di affrontare la questione rigidamente contrapposti, quello della
tolleranza relativistica e della violenza o ingiuria morale, definita come moral outrage.
Un problema che si pone anche Gruenbaum (2001), che sceglie il termine female
circumcision nella piena coscienza della sua inadeguatezza e, nonostante il suo chiaro
aspetto eufemistico, per evitare qualsiasi connotazione di intenzionalità malvagia, di offesa
inferta deliberatamente associata al termine “mutilazione”, che è percepita dalle comunità
praticanti come offensiva. In ogni caso conclude dicendo che nessuno dei due termini,
“mutilazione” e “circoncisione”, traducono la parola araba più comunemente usata in Sudan,
dove ha condotto le sue ricerche, cioè tahur o tahara, che significa “purificazione”.
Anche Boddy (1998) decide di usare il termine female circumcision: female genital
mutilation, sebbene sembri semplicemente descrittivo, in realtà non rende giustizia della
varietà di pratiche e significati, contenendo inoltre un certo significato morale ed ideologico.
Boddy vuole mettere in discussione l’uso della frase “vittime di violenza” in riferimento alle
donne che si sono sottoposte alle pratiche: sostiene come non sia possibile da parte delle
donne occidentali parlare di violenza attribuendola solamente a contesti “altri”, in quanto la
violenza non è separabile dalla vita di ogni giorno anche in contesti occidentali. La sua tesi
prevede l’istituzione di un parallelo tra le donne del villaggio sudanese di Hofriyati che
praticano l’infibulazione e quelle euro-americane, che si rivolgono alla chirurgia estetica ma
anche ad altre semplici operazioni quotidiane come quelle di make up: entrambe
condividono pratiche di “normalizzazione” del corpo femminile, le sudanesi in vista di un
ideale di fertilità, le occidentali di un determinato ideale di bellezza e magrezza. Questa tesi
è discutibile per varie ragioni che spiegherò in seguito, ma credo dia comunque interessanti
spunti di riflessione.
Ci sono poi scelte come quella di Nahid Toubia, medico, ricercatrice e presidente di
RAINBO, network di azione e informazione per l’integrità fisica delle donne, che usa
entrambi i termini, sia Fgm che female circumcision, a seconda dei contesti (Toubia 1988
citato in Gruenbaum 1996).
Per quanto riguarda il panorama di ricerca italiana, anche in questo ambito si trovano varie
differenziazioni: Michela Fusaschi (2003) ha voluto offrire una prospettiva antropologica
alla questione, per cercare di andare al di là del sensazionalismo con cui i media l’hanno
affrontata, e per fare ciò ritiene importante lo stabilire le condizioni di un dialogo con i
soggetti interessati. A questo scopo preferisce parlare di “modificazioni genitali femminili”,
14
espressione che le è stata utile per evitare che tra lei e le sue interlocutrici si erigesse un
muro di incomunicabilità. Al contrario Busoni (Busoni, Laurenzi 2005)
e Pasquinelli
(2000)
preferiscono riferirsi alla pratica come Mgf, ma non senza essersi poste gli interrogativi in
questione.
Tenuto conto di tutte queste implicazioni ho ritenuto comunque opportuno utilizzare
l’espressione “mutilazioni genitali femminili” o Mgf, in quanto è quella attualmente assunta
e maggiormente utilizzata da tutte le organizzazioni nazionali e internazionali che si battono
per la loro abolizione, ma anche dagli operatori medico-sanitari e da coloro che, pur non
rientrando in tale categoria, parlano e si occupano di queste tematiche: dai politici ai
giornalisti sino agli scienziati sociali come sociologi e antropologi. Ritengo inoltre che il
termine “circoncisione femminile”, nell’istituire un parallelismo con quella maschile, possa
trasmettere un’interpretazione distorta delle pratiche e degli effetti che lasciano sul corpo
delle donne. Tuttavia capiterà che nel citare i testi di antropologi e studiosi userò i termini da
loro utilizzati, per mantenere da tutti i punti di vista l’interpretazione data da essi alle
pratiche.
15
1.2. Definizione, classificazione, estensione del fenomeno
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dunque proceduto nella seconda metà degli anni
novanta alla classificazione definitiva di quelle che ora tutti conosciamo come “Mutilazioni
dei genitali femminili” (Mgf), e che ha definito come “tutte le procedure che comportano la
rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altri interventi dannosi sugli
organi genitali femminili tanto per ragioni culturali che per altre ragioni non terapeutiche”.
Questi interventi sono raccolti in quattro tipologie di operazioni che coinvolgono, in maniera
differente, gli organi genitali della donna.
2
I. Escissione del prepuzio (o cappuccio) clitorideo, con o senza asportazione parziale o totale
della clitoride. E’detta anche sunna (che letteralmente significa “tradizione”).
II. Escissione della clitoride con asportazione parziale o totale delle piccole labbra. E’
l’escissione o la clitoridectomia.
III. Escissione di parte o di tutti i genitali esterni e sutura/restringimento dell’apertura
vaginale. E’ l’infibulazione o “circoncisione faraonica”, che consiste nell’ablazione della
clitoride e delle piccole labbra, e nella sutura dei lembi rimanenti della vulva con fili di seta
o spine d’acacia, con l’occlusione pressoché totale dell’introito vaginale, lasciando
solamente un piccolo foro per il passaggio dell’urina e del sangue mestruale. E’inoltre il caso
di ricordare altre due pratiche connesse all’infibulazione: la deinfibulazione, ossia la
procedura attuata per accrescere l’apertura dell’orifizio lasciato al momento
dell’infibulazione, e la reinfibulazione, cioè la procedura attraverso la quale le labbra
vengono ricucite insieme dopo il parto.
IV. La quarta tipologia include tutte quelle pratiche in cui vi è una manipolazione degli
organi genitali femminili. Include: perforazione o incisione della clitoride e/o delle piccole e
grandi labbra; stiramento della clitoride e/o delle labbra; cauterizzazione per ustione della
clitoride e dei tessuti circostanti; raschiatura dei tessuti circostanti l’orifizio vaginale
(angurya cuts) o incisione della vagina (gishiri cuts); introduzione di sostanze corrosive o
erbe in vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla e restringerla e qualsiasi altra
procedura che cade sotto la suddetta definizione di Mgf.
Gruenbaum
(2003, 3) osserva come queste classificazioni siano sì utili categorizzazioni, ai
fini ad esempio di una descrizione medica, ma che non rendano conto della varietà di
2
Dati reperiti in rete sul sito www.who.int.
16
pratiche effettuate in realtà. Riporta come Toubia affermi di non aver mai visto, durante anni
di pratica medica in Sudan, Egitto e Gran Bretagna, nessuna operazione che rispondesse a
quella definizione di sunna che prevede la sola rimozione di tutto o parte del cappuccio
clitorideo.
Essa risulta essere, infatti, una pratica che prevede grande varietà di applicazioni:
in Sudan ad esempio va oltre la semplice riduzione per avvicinarsi alle forme più radicali di
mutilazioni genitali, come ad esempio l’escissione o clitoridectomia. Questo perché, nella
zona in cui Gruenbaum ha condotto le sue ricerche, il Sudan centro-orientale, le forme
principali sono due, la “sunna” e la “circoncisione faraonica”, che raggruppano altre forme
più o meno simili sotto la loro denominazione.
Inoltre le pratiche cambiano, si adattano a nuovi contesti, e con loro i termini per designarle:
Gruenbaum (2001, 155) riporta il suo incontro nel 1989 con l’ostetrica sudanese Sister
Battool Sittiq, che operava nella città di Wad Medani, e che riferisce di come le donne che
volevano evitare le forme più radicali scegliessero le pratiche cosiddette nuss, che significa
“metà”, o juwaniya, nel testo tradotto come “insyde type”, in cui vengono unite solo le
piccole labbra. Sister Battool cercava di convincere le donne a sottoporsi ad un intervento di
sua “invenzione”, una sunna meno severa della clitoridectomia, che prevedeva la rimozione
di solo una piccola parte del cappuccio clitorideo, lasciando intatto il tessuto erettile: questo
per ridurre i rischi di emorragia, setticemia e shock, preservando, non da ultimo, la
sensibilità sessuale.
Nello stesso periodo la studiosa si reca a visitare l’ospedale della stessa
città, dove le ostetriche le parlano dei tanti tipi di “circoncisione” che vedono al momento
del parto, e dove riesce ad assistere a vari parti: la prima donna è una sudanese del Sud, non
“circoncisa”, la seconda un’arabo-sudanese con la forma al juwaniya, la terza era stata
infibulata secondo la “circoncisione faraonica”. (Gruenbaum 2001, 148).
Anche Boddy (1998, 82), che ha svolto ricerca nel Sudan settentrionale, definisce le
classificazioni riportate dall’Oms come “approssimazioni”: infatti chi le pratica può avere
una tecnica o anche una preparazione medica che varia da quella di altri “operatori”, inoltre i
gruppi hanno preferenze diverse tra loro, ed infine le pratiche si evolvono.
Come esempio di ciò cita il Sudan degli anni Venti e Trenta del XX secolo, in cui il
personale medico britannico, al fine di incoraggiare il superamento delle pratiche, introdusse
una forma modificata e medicalizzata di circoncisione faraonica, che prese poi piede in
modo considerevole.
3
Nel Sudan contemporaneo, in città, si adotta ora invece un
compromesso tra la sunna e l’infibulazione, chiamato sunna magatia, che può essere più o
3
Essa prevede un’asportazione minore di tessuto delle labbra, e l’unione delle sole parti anteriori delle labbra
esterne, risultando in un’apertura genitale maggiore.
17
meno tradotto con “sunna con amputazione”.
4
Inoltre Boddy (1998, 83) cita Gruenbaum che
in un suo scritto del 1991 riportava di un’ulteriore nuova operazione, in cui le grandi labbra
venivano unite non in modo irreversibile, in modo tale che le figlie delle famiglie più colte e
“urbanizzate” potessero “salvare la faccia” di fronte alle compagne di classe “circoncise”
radicalmente.
Ciò che risulta interessante è che le pratiche siano così varie e diversificate, come cambino e
si evolvano a seconda del luogo e del tempo: inoltre pensiamo al fatto che questi esempi
siano solo limitati al Sudan. Questo fa pensare al continente africano in termini diversi
rispetto a quelli comuni, cioè non come ad una nazione monolitica, ma come ad un insieme
di nazioni diverse, che presentano a loro volta grande varietà al loro interno, a seconda delle
zone, delle regioni, delle città e dei villaggi, ognuna delle quali ha proprie pratiche,
interpretate di volta in volta in modo differente.
Questo in riferimento alla classificazione del fenomeno. Ma le incertezze nascono anche nel
momento in cui lo si voglia quantificare: dal sito dell’OMS ricavo che il più comune tipo di
mutilazione genitale femminile è l’escissione della clitoride e delle piccole labbra, che
arrivano a coprire circa l’80 per cento dei casi, mentre la forma più radicale, l’infibulazione,
riguarda circa il 15 per cento dei casi.
Si riporta inoltre che oggi il numero di donne e bambine che sono state sottoposte a
mutilazione genitale femminile siano tra i 100 e i 140 milioni, ed è stato stimato che ogni
anno 2 milioni di bambine rischiano di essere sottoposte a Mgf.
Spesso si ritiene che il ricorso a queste pratiche sia confinato all’interno di particolari gruppi
sociali o delle famiglie meno istruite, soprattutto nelle zone rurali. Al contrario, secondo
quanto rivela la Ricerca su demografia e salute (Demographic Health Survey, DHS) condotta
nel 1995, nei paesi dove queste pratiche sono diffuse su larga scala, il grado di istruzione di
una ragazza o il fatto che la famiglia risieda in un’area urbana piuttosto che rurale
sembrerebbe avere un’influenza relativa sulla possibilità che essa subisca mutilazioni
genitali.
5
4
Le piccole labbra vengono cucite in modo leggero per produrre adesione: è conosciuta anche come
“sandwich”.
5
Tratto da The world’s women 2000. Trends and statistic, a cura dell’Ufficio statistico delle Nazioni Unite,
New York, 2000. Versione italiana a cura della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità
(citato nel sito dell’AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo: www.aidos.it).
18
Anche Fusaschi (2003, 28) lamenta la mancanza di dati certi sul fenomeno, nel riportare una
rappresentazione relativa alla distribuzione geografica delle pratiche della stessa OMS.
Come ho potuto constatare, gli ultimi dati disponibili sono aggiornati al maggio 2001, ma
presentano alcuni limiti di fondo legati soprattutto a una certa disomogeneità nelle modalità
di rilevazione. Mancano proprio quelle distinzioni precise in ordine alle tipologie, così come
definite precedentemente proprio dall’OMS, favorendo una certa confusione, inoltre sono
limitate esclusivamente al continente africano e infine, come avverte la stessa
Organizzazione, sono frutto di una sintesi approssimativa di fonti di qualità estremamente
differente.
Il fatto che tali dati siano limitati alla sola Africa rischia di far dimenticare la reale
distribuzione del fenomeno, che l’OMS stima riguardare 28 Paesi Africani, oltre che l’Asia,
il Medio Oriente e, in seguito agli spostamenti migratori, anche l’Europa, l’Australia, il
Canada e gli USA.
L’Organizzazione inoltre specifica come nelle culture in cui è norma accettata, la
mutilazione genitale femminile sia praticata dai seguaci di ogni credo religioso, così come
dagli animisti e dai non credenti,
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solitamente praticata da “professionisti” tradizionali con
rozzi strumenti e senza anestetici, ma anche da personale sanitario qualificato nei centri
ospedalieri cittadini. L’OMS a tale proposito si dichiara contraria ad ogni tipo di
medicalizzazione, se non per rimediare ai danni subiti, in quanto ciò significherebbe
assicurare la perpetuazione delle Mgf.
Specifica inoltre come l’età delle donne e bambine sottoposte alla pratica vari a seconda
della zona: essa può essere praticata su neonate di pochi giorni, bambine, adolescenti e anche
su donne adulte.
Un richiamo dunque a porre attenzione alla grande variabilità delle pratiche, non solo per
quanto riguarda le modalità, ma anche in relazione all’età
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e, come vedremo in seguito, ai
significati attribuiti agli interventi.
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Per quanto riguarda il legame delle Mgf con i credi religiosi, Gruenbaum (2001, 7) riporta il rischio che le
Mgf possano propagarsi in regioni in cui si crede, erroneamente, che siano richieste dalla propria religione,
come nel caso delle popolazioni musulmane dell’Asia del sud e dell’Indonesia, che hanno adottato la pratica. Il
rapporto Mgf –religione verrà affrontato nel paragrafo 1.6.1, Mgf e religioni tradizionali monoteistiche.
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A tal fine vedi Michela Fusaschi (2003, 96), in cui è riportata una tabella che mostra quanto le Mgf siano
fenomeni diversificati e articolati.