4
In tale periodo storico si comincia quindi a prendere consapevolezza delle grandi
opportunità promozionali derivanti dallo sfruttamento commerciale del nome e
dell’immagine di soggetti portati alla ribalta dall’industria dell’intrattenimento:
tali soggetti, proprio a causa della loro già acquisita notorietà, sono inseriti in una
dimensione marcatamente pubblica che ne fa oggetto di conversazione tra larghi
strati della popolazione e che quindi li accredita ad instaurare, in modo
particolarmente efficace, un rapporto di comunicazione commerciale con il
pubblico2.
Diviene così nozione di comune esperienza che il nome o il segno notori recano
con sé un notevole valore economico che gli imprenditori, o gli stessi autori della
notorietà, avranno interesse a sfruttare in ambito commerciale, sia attraverso un
impiego meramente pubblicitario sia registrandoli come marchio.
La commercializzazione della notorietà si può, infatti, realizzare attraverso uno
“sfruttamento del valore suggestivo assunto da nomi o segni usati nello
svolgimento di una certa attività consentendone l’utilizzazione per promuovere la
vendita di prodotti o servizi la cui produzione e commercializzazione non rientra
nell’attività nella quale questi nomi o segni sono originariamente usati ed hanno
acquisito valore” 3.
Inoltre tale affermazione appare ancor più vera qualora si analizzi brevemente
l’economia di mercato odierna in cui risulta evidente come la popolarità acquisita
sul piano civile si possa trasferire a quello commerciale.
Nell’attuale contesto economico gli scambi sono effettuati in modo estremamente
anonimo; l’offerta di prodotti si è ampliata enormemente; per i clienti è sempre
più difficile scegliere i prodotti da acquistare.
1
Cfr. L.MARCHEGIANI Il diritto sulla propia notorietà, Riv.Dir.Civ., 2000, I, pag. 191.
2
In tal senso si veda M.RICOLFI, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Giuffrè,
Milano, 1991, pag. 17 e seguenti; M.RICOLFI, Il contratto di merchandising, Il diritto industriale, pag.
41 e ss.; M.RICOLFI, I segni distintivi: diritto interno e diritto comunitario, Giappichelli, Torino, 1999
pag. 95 e ss..
3Cfr. M.AMMENDOLA, Lo sfruttamento commerciale del valore suggestivo della notorietà civile di
nomi e segni, Giuffrè, Milano, 2004, pag.6.
5
Viviamo in un sistema economico di consumo e produzione di massa; ciò
significa che un crescente numero di individui accede a pratiche di consumo che
oltrepassano il semplice sostentamento; i prodotti industriali, distribuiti così
come sono usciti dalla fabbrica, appaiono eccessivamente standardizzati e non
abbastanza appetibili; è evidente che l’offerta anonima di tali prodotti non basta
più a soddisfare una crescente domanda sociale di differenziazione e di
distinzione.
Se guardiamo al passato, ricordiamo che la piazza del mercato, così come la
bottega erano luoghi di socializzazione; in questi luoghi l’acquisto di un prodotto
era spesso legato alla personalità del suo produttore; la sua competenza, la sua
onestà erano automaticamente trasferite ai suoi prodotti. “La produzione di massa
rompe questa relazione e rende impossibile tale proiezione”.4
Alla luce del fatto che oggigiorno un elevato numero di aziende propone prodotti
analoghi, se non addirittura uguali, per le aziende diventa sempre più difficile
differenziarsi l’una dall’altra basandosi solo ed esclusivamente sul prodotto
stesso.
Infatti “la standardizzazione della produzione cancella o attenua le differenze
qualitative fra i prodotti dello stesso genere, riconducendo la concorrenza a
quella fra plus immaginari quali sono spesso le firme apposte sui prodotti
stessi”
5
. In questo senso è proprio il marchio che si distacca dalle caratteristiche
intrinseche al prodotto e permette alle aziende di arricchire e differenziare la
propria produzione sul mercato e presso i consumatori6.
4
Cfr. A.SEMPRINI, La marca, Lupetti Editori, Milano, 1996, pag. 21.
5
Cfr. A.VANZETTI-V.DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2003, pag. 127.
6
Cfr. A.SEMPRINI, Marche e mondi possibili, Franco Angeli Editore, Milano, 2004, pag. 27 e seguenti.
L’autore specifica che a causa della produzione di massa, è sempre più difficile per le aziende
contraddistinguere i propri prodotti e farli riconoscere dal consumatore come esclusivi e diversi da quelli
commercializzati da aziende concorrenti, convincendo così il consumatore all’acquisto.
E’ pertanto necessario che i prodotti presentino, oltre alle qualità tradizionali e materiali come il prezzo,
la taglia, il peso, il colore, anche caratteristiche che ne esprimano una determinata personalità che altri
prodotti non possiedono. Si tratta degli aspetti che si possono definire come immateriali ovvero correlati a
quanto tale prodotto evoca nell’immaginario del consumatore e che quindi attribuiscono al prodotto stesso
un valore simbolico che il consumatore percepisce e in funzione del quale ne decide l’acquisto.
6
“Il marchio moderno non appartiene più solo all’universo del commercio ma
anche a quello della comunicazione; da strumento di differenziazione e
d’identificazione, il marchio diviene progressivamente un vettore di senso e un
mediatore di valori socioculturali”7.
La popolarità del segno in sé considerato è del resto oggi ben nota agli
imprenditori: il segno o il nome notorio prescelto come marchio ha già sin dalla
sua adozione una predisposizione ad essere accolto dal pubblico dei consumatori
in modo positivo proprio perché già possiede quel valore suggestivo ed
evocativo, quella notorietà, che di solito possono essere conseguiti solo tramite
un significativo investimento di marketing.
Quindi l’utilizzo come marchio di un nome o segno notorio permette
all’imprenditore di collocarsi sin dall’inizio della sua attività produttiva in una
posizione di vantaggio concorrenziale; nella competizione per la conquista del
mercato egli si troverà favorito proprio per il fatto che il segno è già noto8.
Rispetto al passato la scelta di un segno da adottare come marchio, da parte degli
operatori commerciali, risulta oggi ancor più complessa, in quanto influenzata
dalla volontà di ricercare un segno in grado di suscitare delle reazioni emotive
benevoli, nei destinatari dei prodotti o servizi, con la finalità di stimolarli in tal
modo all’acquisto9.
D’altra parte oggi il consumatore ha necessità di soddisfare esigenze che non
corrispondono più a un solo bisogno materiale, bensì anche a un bisogno
7Cfr. A.SEMPRINI La marca, cit., pag. 20. L’autore sottolinea inoltre che mentre fino a pochi anni fa la
valutazione finanziaria di un’azienda si basava esclusivamente sui suoi beni materiali (es. fabbriche,
edifici) e finanziari (es. valore delle azioni), attualmente il valore in sé del marchio posseduto viene
sempre più computato nel bilancio finale.
8
In tal senso si veda F.LEONINI, Marchi famosi ed evocativi, Giuffrè, Milano, 1991,pag. 297 e ss..
9
In tal senso A.VANZETTI osserva in Equilibrio di interessi e diritto al marchio, Riv.Dir.Comm., 1960
I, pag. 16: “Se un tempo l’adozione di un determinato segno piuttosto che di un altro, da parte di un
produttore o di un commerciante, a marchio dei propri prodotti o merci, avveniva soprattutto sulla base di
scelte empiriche e fondate su semplici considerazioni di gusto personale, oggi, con l’affinarsi di tecniche
pubblicitarie che si valgono ormai abitualmente del sussidio degli strumenti della psicologia e della
psicoanalisi la scelta del segno che si adotterà a marcare il prodotto che si intende lanciare sul mercato
diviene cosa ben più complessa, ed è in genere il risultato di un ampio lavoro di rilevazione statistica e di
elaborazione scientifica dei dati relativi alle reazioni emozionali della particolare categoria dei
consumatori cui il prodotto è destinato”.
7
psichico, come quello di benessere, di prestigio, di classe, di raffinatezza, di
sportività, di forza.10
“Il consumatore non richiede più un bene per la sua capacità di soddisfare
bisogni cui tale bene era naturalmente destinato; non lo vuole perché questo
espleti la funzione del prodotto; lo vuole invece esclusivamente per il segno che
reca sopra; perché con tale segno, il possessore si identifica con un gruppo, trova
aggregazioni sociali, si differenzia da altri, entra nel club esclusivo ecc.”11
Dal punto di vista economico appare chiara l’importanza delle componenti
suggestive del messaggio collegato al marchio: esse aggiungono al prodotto un
valore rilevante nel giudizio del pubblico, costituito dalle immagini mentali di
cui il marchio è stato caricato, anche in relazione al suo uso extracommerciale;
immagini che rispondono a un bisogno dei consumatori, che sono disposti a
pagarle per averle12.
E’ proprio per tale motivo che la notorietà acquisita in campo extramercantile
può rappresentare un notevole richiamo per il consumatore: egli può essere
indotto ad acquistare un prodotto rispetto ad un altro in quanto nella sua mente si
crea un associazione di idee fra quel determinato prodotto e, per esempio, un
celebre sportivo in cui egli stesso si identifica.
“Quanto più il pubblico si identificherà col campione sportivo, tanto più sarà
indotto ad acquistare quel tipo di scarpe o quel tipo di racchetta: l’effetto sarà,
quindi quello di una persuasione sottile, discreta ma intensa, e dunque di
induzione all’acquisto di questo o di quel prodotto il cui marchio viene veicolato
dall’atleta cui esso è collegato”13.
In tal senso le personalità dello sport, dello spettacolo, del giornalismo, della
scienza, possono essere considerati come “fonti” di messaggi dotati di particolare
efficacia promozionale in ragione delle caratteristiche soggettive dell’emittente:
10
In tal senso si veda F.LEONINI, Marchi famosi ed evocativi, cit., pag. 297 e ss..
11
Cfr. A.MARLANI, Analisi economica del marchio che gode di rinomanza, Il diritto industriale, 1996,
n. 4, pag. 292.
12
Cfr. C.GALLI, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra
merchandising e free-riders, AIDA, 2003, pag. 241.
13
Cfr. FRIGNANI, Sponsorizzazione merchandising pubblicità, cit., pag. 29.
8
se il cantante Vasco Rossi si risolvesse ad impiegare il suo nome per
contraddistinguere una linea di occhiali, avrebbe verosimilmente maggiori
possibilità di largo successo di un ipotetico e anonimo signor Bianchi.
In questo esempio “la capacità attrattiva esercitata sui consumatori è una diretta
conseguenza del fatto che i prodotti simboleggiano ed evocano i personaggi noti,
con tutta la carica attrattiva che essi possiedono”14: la notorietà della persona
diviene il mezzo finalizzato allo scopo, economicamente redditizio, di immettere
sul mercato un prodotto che nella memoria del potenziale cliente risulta collegato
alla persona celebre stessa.
In tal modo la capacità attrattiva di un determinato nome o segno può essere
intesa come attitudine a vendere un prodotto indipendentemente dalle sue qualità
intrinseche, verificandosi in tal modo una commercializzazione della notorietà
acquisita in ambito civile; tale capacità di attrarre diventa un mezzo per far leva
sulla clientela per lanciare un nuovo prodotto o per forzare la penetrazione di
determinati prodotti sul mercato.
La notorietà civile rappresenta, quindi, un valore economico, un bene suscettibile
di valutazione patrimoniale15: si identifica in un “selling power di grande
efficacia nella società della comunicazione e della globalizzazione dei mercati”16.
14
Cfr. F.LEONINI, Marchi famosi e marchi evocativi, cit., pag. 298.
15
Specifichiamo che in giurisprudenza il diritto all’uso esclusivo del proprio nome e della propria
immagine si è affermato come diritto della personalità, cioè inerente alla persona stessa, e solo in un
secondo momento se ne sono riconosciuti i conseguenti risvolti patrimoniali. Infatti in passato il diritto
all’immagine era considerato come un’esplicazione del diritto sul proprio corpo e il diritto al nome come
una manifestazione del diritto sulla propria persona in genere. L’identificazione, la reputazione,
l’immagine, la notorietà non erano considerati come autonomi beni, non essendo idonei a soddisfare
alcun bisogno ma interessi, la cui protezione valeva a garantire un più pieno godimento del bene
rappresentato dalla persona stessa dell’uomo; la notorietà non era quindi considerata come autonomo
oggetto a sé stante.
16
Cfr. G.SAVORANI, La notorietà della persona da interesse protetto a bene giuridico, Cedam, Padova,
2000, pag. 328. L’autrice specifica che i nomi o segni acquistano valore sul mercato quando diventano
suggestivi ed evocativi agli occhi del pubblico, come quelli delle griffe della moda e dei personaggi di cui
i fans collezionano memorabilia.
9
Capitolo primo
LA TUTELA DEI NOMI E SEGNI NOTORI COME MARCHIO PRIMA
DEL D.LGS. 4 DICEMBRE 1992 N. 480
1.1. Il quadro normativo.
In epoca anteriore alla riforma della legge marchi introdotta con la novella del
1992, la questione della tutela dei nomi e segni notori si presentava alquanto
complessa, a causa dell’assenza nel nostro ordinamento di norme specificamente
finalizzate alla protezione del potere di vendita acquisito da tali nomi e segni.
Infatti se appariva indiscutibile l’attribuzione, ad una persona divenuta famosa, di
un diritto di esclusiva allo sfruttamento commerciale del valore suggestivo
acquisito dalla sua immagine, “problematica appariva, a prima vista invece la
configurabilità di un analogo diritto sul nome”17 e sul valore promozionale
acquisito da altri segni, diversi dal nome stesso, divenuti popolari18.
Per quanto riguarda il nome di una persona celebre è peraltro necessario, ai fini
dell’individuazione della disciplina in quel periodo applicabile, distinguere
l’ipotesi in cui il nome fosse utilizzato come marchio d’impresa dall’ipotesi in
cui il nome venisse utilizzato solo per scopi pubblicitari da un soggetto non
autorizzato.
17
Cfr. F.LEONINI Marchi famosi e marchi evocativi, cit., pag. 332.
18L’articolo 21.1 legge marchi stabiliva: “I ritratti di persone non possono essere registrati come marchi,
senza il consenso delle medesime e, dopo la loro morte, senza il consenso del coniuge e dei figli, in loro
mancanza, o dopo la loro morte anche di quest’ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso”. Inoltre
DI CATALDO osserva, in I segni distintivi, Giuffrè, Milano, 1985, pag. 71, che “tradizionalmente le
ragioni della diversità della disciplina dettata dall’articolo 21 l.m. per il nome e per il ritratto sono viste
nel fatto che il ritratto ha, rispetto al nome, una maggiore capacità individualizzante, e, quindi, la presenza
di un ritratto in un marchio ha maggiori probabilità di ledere l’interessato, di quanto non ne abbia la
presenza del nome”.
10
Nell’ipotesi di nome altrui adottato come marchio d’impresa in dottrina erano
riscontrabili diverse opinioni, le quali saranno analizzate in modo specifico nel
paragrafo successivo.
Infatti non essendo in tal epoca prevista una norma ad hoc, la disciplina
applicabile veniva desunta dal coordinamento dell’articolo 21.2 legge marchi
(oggi art. 8.2 c.p.i.) con l’articolo 7 codice civile; coordinamento il quale dava
luogo a contrasti interpretativi che saranno analizzati nel seguente paragrafo.
La prima di tali disposizioni stabiliva che “i nomi di persona diversi da quello di
chi chiede il brevetto, possono essere brevettati come marchi, purché il loro uso
non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare
tali nomi. L’Ufficio Centrale dei brevetti ha tuttavia facoltà di subordinare la
concessione del brevetto, anche in tal caso, al consenso”19 dell’ avente diritto al
nome.
L’articolo 7.1 del codice civile prevede invece che “la persona alla quale si
contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio
dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la
cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”.
Nel caso in cui, invece, il nome fosse utilizzato esclusivamente per fini
promozionali e quindi non in funzione distintiva di beni o servizi il valore
suggestivo del nome veniva in prevalenza tutelato, attraverso una interpretazione
estensiva, dall’articolo 7 codice civile.
La proteggibilità anche solo indiretta del valore promozionale acquisito da altri
segni veniva, invece, più o meno decisamente negata, a prescindere dal fatto che
questi segni fossero adottati unicamente in messaggi pubblicitari o inseriti in
marchi d’impresa20.
19
Si precisa che tale norma, in seguito all’introduzione dell’articolo 21.3 legge marchi (ora art.8.3 c.p.i.)
ad opera del d.lgs. n. 480 del 4.12.1992, è prevista solo per i nomi non notori.
20
In tal senso A.AMMENDOLA, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni,
cit., pag.12
11
E’ il caso ad esempio del nome di un personaggio di un opera dell’ingegno, al
quale l’opinione dottrinale21 e giurisprudenziale assolutamente prevalente nega
una tutela d’autore (come creazione autonoma o come parte di un opera),
riconoscendogli invece unicamente una protezione come elemento di distinzione
di un personaggio di fantasia e dunque nei limiti di questa funzione distintiva,
ossia solo nei confronti di un uso di questo nome su opere dello stesso genere di
quella in cui il medesimo è stato originariamente adottato”22.
In quest’ottica l’utilizzazione del nome di questi personaggi per promuovere la
vendita di un bene o come marchio era sottratta al controllo di chi aveva ideato e
reso noto al pubblico quel nome.
21
In tal senso si veda AUTERI, Sulla tutelabilità del nome di personaggi di opere letterarie (a proposito
del caso Iames Bond 007), in Riv.dir.ind., 1971, II, pag.106. Secondo l’Autore il nome di un personaggio
dell’opera dell’ingegno, in sé considerato non presenterebbe il carattere della creatività quale è richiesto
per le opere dell’ingegno: “un nome, per quanto formato in modo originale, non può mai racchiudere in sé
una una rappresentazione individuale della realtà; il suo valore, come quello di qualsiasi nome o segno
distintivo, è il mero riflesso dell’oggetto che esso individua richiamandone l’idea alla mente delle
persone. Originale e creativo e quindi degno di tutela, potrà essere il personaggio che il nome individua o
l’opera di cui il personaggio fa parte, ma non il nome separato dal personaggio e dall’opera”.
22
Cfr. A.AMMENDOLA, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni, cit.,
pag.12.
12
1.2. La giurisprudenza in tema di protezione dei nomi e segni notori come
marchio.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, prima della riforma del 1992,
l’adozione di un nome altrui come marchio era espressamente disciplinata
dall’articolo 21.2 legge marchi, il quale, senza distinzioni alcuna tra nomi dotati e
non dotati di notorietà, stabiliva che i “nomi di persona diversi da quello di chi
chiede il brevetto, possono essere brevettati come marchi, purché il loro uso non
sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali
nomi”; l’applicabilità a tale fattispecie, in coordinamento con l’articolo 21.2
legge marchi, dell’articolo 7 codice civile, il quale nel prevedere in generale la
tutela del diritto al nome attribuisce al singolo il diritto di impedire ogni uso
indebito da parte di terzi che possa arrecargli pregiudizio, era invece da parte
della giurisprudenza oggetto di opinioni discordi, le quali saranno analizzate in
questo paragrafo.
Secondo un prima e meno recente giurisprudenza23, l’utilizzazione del nome
altrui come marchio sarebbe stata regolata non solo dall’articolo 21.2 legge
marchi, ma anche dall’articolo 7 codice civile.
Questo orientamento, infatti, contestando l’opinione dottrinale24 secondo cui il
diritto al nome avrebbe tutelato l’individualità del soggetto solo contro scambi e
confusioni con altre persone, riteneva che “la norma dell’articolo 7 codice civile
(avrebbe tutelato) il diritto all’uso esclusivo del proprio nome contro le
usurpazioni non solo nel caso che il nome (fosse) usato da altri per individuare la
propria persona, ma anche in ogni caso in cui il nome (fosse) usato per altri
23
In tal senso Corte di Appello di Milano, 22 gennaio 1960, in Rivista di diritto Industriale, II, pag. 106 e
ss.; Corte di Cassazione , 1°febbraio 1962, n.201, in Rivista di diritto commerciale, II, pag.215 e ss..
24
In tal senso FERRARA, Trattato di diritto civile Italiano, vol.1, Roma, 1921, pag. 575; Id., Diritto
delle persone e di famiglia, Napoli, 1941, pag.89. Per quanto riguarda l’analisi delle opinioni dottrinali in
merito all’applicazione o meno dell’articolo 7 codice all’ipotesi di uso del nome come marchio si veda il
paragrafo precedente.
13
scopi, compreso quello di contraddistinguere un prodotto. Pertanto (sarebbe
rientrato) nella previsione della norma l’uso del nome altrui come marchio”25.
Questa interpretazione venne proposta dal Tribunale di Milano con la sentenza
del 17 novembre 1958, dalla Corte di Appello di Milano con la sentenza del 22
gennaio 1960 e successivamente ribadita dalla Corte di Cassazione con la
sentenza 1° febbraio 1962, n. 201; le decisioni attenevano alla tutelabilità del
nome Farouk, invocata dall’ex sovrano d’Egitto Farouk Fuad contro una società
che senza il suo consenso aveva brevettato ed usato in Italia tale nome come
marchio per un proprio prodotto.
In particolare un’industria dolciaria aveva posto in commercio una tavoletta di
cioccolato contraddistinta da un marchio composto dal nome Farouk e da una
vignetta rappresentante un incantatore di serpenti sullo sfondo di un paesaggio
orientale. Tale marchio era stato anche registrato.
A seguito di questi fatti Farouk Fuad, ex sovrano di Egitto in esilio, aveva adito
le vie giudiziarie lamentando l'uso abusivo del proprio nome ai sensi dell’articolo
7 codice civile e dell’articolo 21.2 legge marchi.
In quell’occasione la Suprema Corte, affermò che la delimitazione della tutela
predisposta dall’articolo 7 codice civile al solo caso dell’appropriazione del
nome altrui per l’uso consistente nell’identificazione personale sarebbe estranea
al testo legislativo, il quale, proprio per evitare che la portata della norma
potesse, dall’interprete, essere in tal modo ristretta, “sostituì con la più
comprensiva espressione uso che altri indebitamente ne faccia, l’altra della
assunzione del nome altrui, che si legge nel corrispondente articolo del progetto
preliminare del codice”26.
Data la latitudine della norma, sarebbe stata in tal modo apprestata tutela tanto
contro l’appropriazione che venga fatta dal nome altrui per designare la propria
persona, quanto l’usurpazione compiuta per usare il nome altrui ad ogni altro
scopo, compreso quello di contraddistinguere il proprio prodotto.
25
In tal senso Corte d’Appello di Milano, 22 gennaio 1960, in Riv.Dir.Comm., pag. 215.
26
Cfr. Corte di Cassazione, 1°febbraio 1962, n. 201, cit., pag. 215.
14
Inoltre il fatto che il legislatore nell’articolo 7 codice civile avesse genericamente
adoperato il termine pregiudizio anziché indicare uno specifico genere di
pregiudizio, quale la possibilità di confusione, avrebbe denotato l’intenzione di
non limitare la tutela al solo interesse alla distinzione della persona.
Pregiudizievole, quindi, ai sensi dell’articolo 7 codice sarebbe stato qualsiasi uso
del nome che, pur non determinando alcuna confusione, fosse semplicemente
atto a pregiudicare la dignità della persona.
Secondo questa opinione, dunque, un uso indebito e pregiudizievole ai sensi
dell’articolo 7 codice civile potrebbe ricorrere anche quando il nome venga
utilizzato per designare un prodotto industriale ed anche a prescindere dal
pericolo di confusione con la persona.
Affermata, quindi, l’applicabilità dell’articolo 7 codice civile alla fattispecie
dell’uso del nome altrui come marchio, questa giurisprudenza riteneva, inoltre,
che l’articolo 7 codice civile e l’articolo 21.2 legge marchi avessero lo stesso
contenuto normativo, poiché “entrambi avrebbero ammesso, in via di regola, il
libero uso e la libera brevettabilità come marchio del nome altrui; il primo
articolo come norma generale, il secondo come disciplina particolare dell’uso del
nome come marchio d’impresa; nell’uno e nell’altro caso sempreché non ne
derivi al titolare del nome un pregiudizio, anche soltanto potenziale secondo il
codice civile, in concreto secondo la legge sui brevetti”27. Quindi l’unica
differenza fra le due norme sarebbe stata che mentre il pregiudizio è previsto
dall’articolo 7 codice civile come anche soltanto eventuale, nell’articolo 21.2
legge marchi è richiesto come in concreto sussistente.
Secondo tale orientamento, dunque, l’articolo 7 codice civile e l’articolo 21.2
legge marchi avendo lo stesso contenuto normativo si sarebbero applicati
simultaneamente alla fattispecie dell’uso del nome altrui come marchio.
Riferendo questa interpretazione al caso dell’uso del nome Farouk sia il
Tribunale di Milano, sia la Corte d’appello di Milano, sia la Corte di Cassazione
27
Cfr. Corte di Cassazione, 1°febbraio 1962, n. 201, cit., pag. 233.
15
ritennero, dunque, che esso rientrasse sia nella previsione dell’articolo 7 codice
civile sia nella disposizione dell’articolo 21.2 legge marchi.
Presupposto ciò, l’utilizzazione come marchio del nome Farouk fu dichiarata, sia
in base all’articolo 7 codice civile che in base all’articolo 21.2 legge marchi,
illegittima; infatti si ritennero esistenti nel caso di specie sia il pregiudizio che la
lesione alla fama, al credito e al decoro, richiesti, rispettivamente, dall’articolo 7
codice civile e dall’articolo 21.2 legge marchi ai fini della loro applicabilità.
Infatti secondo questa giurisprudenza la degradazione del nome proprio di
persona dalla dignità di attributo della personalità alla funzione strumentale di
individuazione di un banale prodotto posto in commercio, che si verifica con
l’inclusione del nome in un marchio sarebbe stata di evidente pregiudizio per chi
porta quel nome e avrebbe costituito una lesione del suo decoro.
Secondo un altro orientamento28, invece, l’utilizzazione del nome altrui come
marchio sarebbe stata regolata esclusivamente dall’articolo 21.2 legge marchi.
Questo orientamento giurisprudenziale è stato avviato dal Tribunale di Milano
con la sentenza del 30 maggio 1974.
Nel caso di specie la signora Elvira Leonardi in Boyeure, celebre con lo
pseudonimo Biki in virtù sia della sua parentela con Giacomo Puccini sia
dell’attività da lei stessa svolta nel campo della moda femminile e maschile, nella
quale si era avvalsa del nome Biki come ditta e marchio, aveva convenuto in
giudizio l’impresa Grappeggia imputando ad essa di aver diffuso un catalogo di
mobili in cui apparivano reclamizzati dei salotti Biki e di aver così provocato, a
causa dell’accostamento delle tradizioni intellettuali, mondane e di raffinato
gusto della persona Biki a dei prodotti di largo consumo, lo svilimento del
proprio pseudonimo e del corrispondente marchio, in violazione dell’articolo 7
codice civile e della legge marchi.
28
In tal senso Tribunale di Milano, 30 maggio 1974, in G.A.D.I., n.565; Tribunale di Milano, 28 aprile
1975, n.720, in G.A.D.I., n.720; Corte di Appello di Milano, 8 novembre 1976, n.911; Tribunale di
Milano, 26 maggio 1977, in G.A.D.I., n.944; Tribunale di Roma, 31 gennaio 1983, in G.A.D.I., n.1647;
Pretura di Milano, 21 novembre 1983, in G.A.D.I., n.1855; Corte di Cassazione 21 ottobre 1988, in
G.A.D.I., n. 2242.
16
L’attrice, dunque, domandava l’inibitoria del comportamento illecito e
l’applicazione delle sanzioni del risarcimento del danno e della pubblicazione
della sentenza.
In tale occasione il Tribunale di Milano affermò che “l’articolo 7 codice civile e
l’articolo 21.2 legge marchi (avrebbero avuto) un diverso contenuto precettivo e
un diverso ambito di applicazione. Mentre infatti il primo (avrebbe vietato) da un
lato non già qualsiasi uso del nome altrui, ma unicamente l’uso posto a scopo di
identificazione personale, ma dall’altro lato lo (avrebbe vietato) in relazione a
qualsiasi tipo di pregiudizio, anche meramente eventuale, (potesse) da questo uso
derivare all’avente diritto, il secondo (avrebbe disposto) che l’imprenditore
(avrebbe potuto) scegliere liberamente un nome di persona diverso dal proprio
come marchio del suo prodotto e (avrebbe previsto) come rigorosa eccezione a
questa regola il caso in cui l’uso di detto marchio (fosse) tale da ledere la fama, il
credito ed il decoro della persona che ha diritto di portare tale nome”29.
Più precisamente l’articolo 7 codice civile, mentre sanciva il diritto del titolare di
impedire l’uso indebito del proprio nome per il solo fatto che da tale uso potesse
derivargli un pregiudizio di qualsiasi genere anche meramente eventuale, nello
stesso momento avrebbe enunciato la regola secondo cui sarebbe stato vietato
l’uso del nome altrui; l’articolo 21 legge marchi, invece, avrebbe posto l’opposta
regola secondo la quale l’imprenditore avrebbe potuto scegliere liberamente
come marchio un nome di persona diverso dal proprio, prevedendo come
rigorosa eccezione a questa regola l’ipotesi in cui l’uso di detto marchio fosse
tale da ledere la fama, l’onore e il decoro del titolare di tale nome.
Ciò premesso, sempre secondo il Tribunale di Milano, sarebbero risultate
evidenti le differenze fra il contenuto precettivo dell’articolo 7 codice civile e
l’articolo 21.2 legge marchi.
In primo luogo, infatti, questa opinione, osservando che l’uso del nome altrui ai
fini dell’articolo 7 codice civile sarebbe stato indebito solo nel momento in cui
fosse stato posto in essere da chi non ha diritto di servirsene in base al disposto
17
del precedente articolo 6 e solo se da tale uso indebito avesse potuto derivare al
titolare un qualsiasi pregiudizio anche eventuale, affermava che proprio a causa
dell’ampiezza di tale tutela la norma dell’articolo 7 codice civile non si sarebbe
riferita a qualsiasi uso ma unicamente all’uso posto in essere a scopo di
identificazione personale.
Fondamento di tale restrittiva interpretazione dell’ambito di applicazione
dell’articolo 7 codice civile sarebbe stata la stessa lettera della norma la quale,
secondo questa opinione, contrapponendo “l’uso del proprio nome” “all’uso che
altri indebitamente ne faccia” avrebbe in tal modo assunto una nozione unitaria
dell’uso legittimo e di quello indebito che non può non riferirsi alla
identificazione personale.
In secondo luogo, poi, il Tribunale di Milano, criticando l’opinione
giurisprudenziale precedentemente esposta, riteneva che il pregiudizio di cui
all’articolo 7 codice civile non sarebbe stato in alcun modo assimilabile alla
lesione della fama, credito, o decoro di cui all’articolo 21 legge marchi “non
certo solo perché il primo (avrebbe potuto) essere eventuale e la seconda (sarebbe
dovuta) essere attuale ma soprattutto perché il primo (sarebbe stato) riferibile ad
ogni sorta di danno - morale e materiale - derivante pur sempre dalla confusione
personale cui ha dato luogo l’uso indebito del proprio nome, mentre la lesione di
cui all’articolo 21 prescinderebbe da ogni considerazione in ordine alla tutela
contro la confusione o l’accostamento che possa verificarsi fra il titolare del
nome e le cose che con lo stesso segno vengono contraddistinte sul mercato30”.
Secondo il Tribunale di Milano, peraltro, proprio il non aver colto questa
differenza avrebbe condotto “la interpretazione - per così dire - unitaria
dell’articolo 7 codice civile e articolo 21.2 legge marchi al risultato
inammissibile di considerare indebito ai sensi dell’articolo 7 codice civile e
lesivo ai sensi dell’articolo 21 legge marchi l’uso del nome altrui come marchio
per il solo fatto della degradazione che con esso si verifica del nome proprio di
29
Cfr. Tribunale di Milano, 30 maggio 1974, in G.A.D.I., n.565, pag. 766.
30
Cfr. Tribunale di Milano, 30 maggio 1974, in G.A.D.I., n.565, pag. 766.