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La nostra televisione di Stato, grazie ad accordi con lo Stato tunisino, ha potuto
installare un’antenna sulla punta di Cap Bon (Tunisia del nord) per irradiare il suo
segnale. Inizialmente era possibile vedere la RAI solo all’interno della capitale;
poi in quasi tutto il Paese. Desidero far notare che ancora prima che la Tunisia
avesse una propria televisione era presente nel Paese il segnale della RAI. E in
seguito, dopo la nascita della TV di Stato tunisina (creata con l’ausilio
dell’esperienza di tecnici, registi, operatori italiani), la RAI continuò a catturare la
fetta più grande dell’audience tunisino vista la scarsissima appetibilità del
palinsesto della loro neo-nata TV.
Come si può facilmente intuire, la fruizione dei programmi trasmessi dalla nostra
televisione deve avere in qualche modo lasciato un segno, se non addirittura
influenzato una parte della popolazione tunisina.
È questa l’ipotesi che sta alla base della ricerca che ho condotto in Tunisia; ho
cercato di capire fino a che punto la RAI è stata ed è in grado di mostrare
correttamente le nostre città; ho tentato di comprendere se l’immagine che il
telespettatore tunisino è riuscito a crearsi delle nostre città (e quindi dei nostri
trasporti, abitazioni, modo di consumare ecc.– in generale l’immagine del Paese -)
attraverso ciò che veniva mostrato dalla nostra TV, è un immagine fittizia o
corrispondente al reale.
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Introduzione
Per fare ciò mi sono recato in Tunisia per svolgere, tramite un piccolo numero di
interviste in profondità, un’indagine di tipo “qualitativo” i cui risultati vengono
presentati, corredati con le teorie che ne stanno alla base, in questo testo.
Desidero premettere che in nessun modo i dati emersi dalle interviste potranno
dirsi rappresentativi dell’intera popolazione tunisina; ma d’altronde non era
questo lo scopo della ricerca.
La maggior difficoltà della ricerca credo sia stata definire gli elementi da
utilizzare nelle interviste: per fare ciò è stato necessario suddividere il concetto
stesso di città in numerosi sotto-concetti, tutti racchiusi nel primo. La città infatti
è, insieme, molte cose:
- “il sistema di idee” di coloro che la città la creano, la progettano e la
vivono (Roncayolo 1988, 105);
- Lo “stato d’animo”, i costumi, le tradizioni, atteggiamenti e sentimenti
(Park 1925-1967, 5);
- “l’immagine pubblica che gli abitanti della città o coloro che ne fanno uso
si costruiscono […]” (Sgroi 1996, 15);
- I processi produttivi e riproduttivi;
- I trasporti, l’informazione, le tecniche e i modelli dell’edilizia;
- La varietà sociale e culturale;
Abbiamo provato a proporre, tramite una serie di domande mediamente
focalizzate, questi e altri elementi del panorama urbano agli intervistati tunisini
per verificare fino a che punto si spinge la loro conoscenza delle città italiane e
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fino a che punto è “genuino” il modello che di esse loro hanno saputo creare
tramite ciò che gli viene mostrato dalla nostra TV.
Come si avrà modo di notare nella prima parte del testo si concede ampio spazio
agli aspetti metodologici. Si tratta di una sorta di panoramica sulle principali
teorie sociologiche riguardanti il tema dell’ “intervista non direttiva” così com’è
concepita dall’ermeneutica. Questa ricognizione di autori e teorie sta alla base di
tutta la mia ricerca e ha costituito un fondamentale punto di riferimento
nell’attività pratica di realizzazione delle interviste. La spiccata attenzione
all’aspetto metodologico ha quindi caratterizzato sia questo testo, sia l’attività
pratica di ricerca.
Nella seconda parte si è tentato di dare un’applicazione pratica alle teorie di
carattere metodologico precedentemente presentate. Si tratta del cuore della
ricerca: viene proposta l’analisi delle opinioni espresse dagli intervistati e di
alcuni dei temi classici della sociologia urbana che sono stati utilizzati come
sfondo non solo dell’analisi, ma della ricerca intera.
Nell’ultima parte della ricerca ho provato a fare qualche generalizzazione, ma mi
sono ben guardato dall’esprimere giudizi universalmente validi e duraturi sul tema
in questione. Ho preferito lasciare una porta aperta a chi vorrà occuparsi in futuro
dello stesso tema di cui mi sono occupato io, magari utilizzando tecniche diverse
attraverso le quali giungere a traguardi teorici e risultati profondamente diversi.
Qui in basso riporto alcuni brani d’intervista: in essi i soggetti tunisini parlano
liberamente della TV italiana; esprimono il loro modo di vederla e di vederci.
Tramite questi stralci d’intervista spero di poter aiutare il lettore ad entrare meglio
nella ricerca e a capire che ciò di cui si parla non è una questione fittizia, ma
pienamente reale.
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“Prima c’era soltanto Rai1, adesso che ci sono altri canali pure Rai2, Rai3,
Canale5, con l’antenna parabolica! Noi guardiamo soprattutto il telegiornale,
che ci dà più informazioni su quello che succede in Italia. Poi l’aspetto che noi
vediamo tra i nostri studenti è l’Italia dello show……..cioè l’Italia è la moda, il
calcio…….Quella è l’Italia per il tunisino medio” (M TUN-it 02).
“[…] ‘La domenica sportiva’, credo che sino a adesso il 90% dei tunisini lo vede.
Quando era su Rai1, ma anche adesso che è su Rai2. Credo che sia il programma
più visto dai tunisini.
Qualche anno fa c’erano i varietà come ‘Domenica in’, Pippo Baudo, Raffaella
Carrà e la Marisa
2
. Comunque, si guardava ‘Domenica in’, i film, le serie tv,
quando c’era la guerra del Golfo quel programma molto famoso………’Porta a
Porta’, che parla di problemi internazionali, anche questo è un programma visto
da molti. Poi tutti i varietà del sabato sera dove ci sono soldi da guadagnare,
programmi molto seguiti perché c’è molto divertimento e, anche paragonata alla
tv tunisina, c’è molta ricchezza. Anche ogni mercoledì quando c’è il football,
credo che anche il 100%, forse no, ma una grande percentuale lo vede.
Anche la musica italiana ha avuto molto successo in Tunisia, nello stesso
momento che in Italia. Quando esce qualcosa in Italia è sentito con lo stesso
amore e la stessa stima che in Italia. Anche perché la lingua italiana per noi non
è una lingua straniera, ma una lingua che abbiamo l’abitudine di sentire e di
capire. Anche chi non la parla è sicuro che la capisce” (M TUN 02).
2
Credo si riferisca alla Laurito.
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“Cioè, nella situazione attuale, forse meno di prima, c’è stato un momento in cui
la RAI ha avuto una grande attenzione perché non c’era la presenza di altri
canali, c’era la televisione tunisina che non dava soddisfazione dal punto di vista:
programmi, diversificazione dei programmi ecc., quindi il ripiego era sulla RAI,
questo era negli anni ’80, dopo quando si è sviluppata l’antenna parabolica, tutto
il sistema di canali che sono …, è diminuita l’attenzione dei tunisini per la
televisione italiana, siccome qui la seconda lingua, la lingua europea più
utilizzata è il francese, spesso il tunisino che non sa l’italiano preferisce guardare
France 2 o France 3 o altri canali. Però c’è ancora una certa attenzione per la
televisione italiana. Non sono per la RAI, per chi ha l’antenna parabolica le reti
Mediaset e altri, soprattutto quello che attira sono i varietà, gli spettacoli
televisivi, giochi come per esempio questo di Bonolis, queste cose qua. Mentre
quando si arriva alle trasmissioni …, ai dibattiti basati proprio sulla
comprensione della lingua, non c’è spettacolo e in questo caso naturalmente
diminuisce l’attenzione per questo tipo di programmi” (M TUN-it 01).
“Per esempio mi piace molto il programma “passaggio a nord est” [credo sia
‘Passaggio a nord ovest’] e ‘Porta Porta’ un po’ con Bruno Vespa, la prova del
cuoco con Antonella e seguo anche ‘l’Eredità’ con Amadeus, poi anche il TG1, il
telegiornale, e poi anche qualche fiction, ho visto ‘Incantesimo’, adesso
‘Orgoglio’.
[…] il programma di Michele Cucuzza ‘La vita indiretta’, anche ‘Linea verde’ e
‘Linea blu’ ho visto le bellezze naturali, ho visto (…) Palermo, Milano, quando
hanno parlato dell’uccisione di un bambino” (F TUN 01).
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“Però devo dire che ‘Orgoglio’, il telefilm……la fiction, è seguita da tanti
3
e
piace tantissimo. Lo stesso ‘Incantesimo’, quando è venuta qui Paola Pitagora,
per la strada tutti quanti [urlavano] <Giovanna! Giovanna!
4
>, la chiamavano
“Giovanna”!. Quindi vuol dire che……vengono seguite……Ovviamente per poter
seguire queste fiction bisogna conoscere un po’ d’italiano, perché non è che ci
sono i sottotitoli!
L’altro giorno mi ha colpito come……..un nome che poi non conosco, un alto
funzionario di qua, avendo nominato un nome “Santucci”, non so come è venuto
fuori “Santucci”, lui ha detto “Santucci” è quello che su “L’eredità” fa la parte
del giudice. Per me lo spettro di chi vede la televisione italiana è molto ampio” (F
IT 03).
3
Si riferisce ai tunisini.
4
È il nome del personaggio che interpreta nella serie tv “Incantesimo”.
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PARTE I
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L’INTERVISTA ERMENEUTICA
L’intervista ermeneutica
“[…] ogni comprensione del particolare è condizionata dalla
comprensione del tutto” (Schleiermacher 1959, 46).
Il contributo di F.D.E. Schleiermacher (1959) rappresenta sicuramente uno dei
pilastri e un punto di partenza fondamentale del pensiero ermeneutico
contemporaneo. Con lui l’ermeneutica non si limita a cercare di comprendere
singoli passi “oscuri” ma diventa la tecnica principale per la comprensione di un
testo nel suo insieme.
“Tutto ciò che in un dato testo richiede una determinazione più completa può
essere determinato solo in riferimento al campo linguistico condiviso dall’autore e
dal suo pubblico” scrive Schleiermacher nell’opera pubblicata 25 anni dopo la sua
morte (avvenuta nel 1934) grazie alla ricostruzione di Kimmerle.
Accanto a questo tipo di interpretazione, che si potrebbe definire di tipo “tecnico”,
Schleiermacher colloca un altro tipo di interpretazione: l’interpretazione
psicologica. Essa è volta a ricostruire aspetti ancora più lontani rispetto al testo
che si ha di fronte come le esperienze, il pensiero, la personalità dell’autore.
Questo stesso tema dell’interpretazione psicologica era stato affrontato anche da
Dilthey (1900; 1914-36) all’interno del suo tentativo di definire un ambito di
indagine autonomo e specifico per le “scienze dello spirito”. Da un lato le
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“scienze della natura” e la loro capacità di “spiegare” la realtà, dall’altro le
“scienze dello spirito” che, invece, la comprendono. Ma la “comprensione” della
realtà teorizzata da Dilthey finisce per attribuire alle “scienze dello spirito”
capacità di rappresentazione così tanto sovrastimate che sia Gadamer (1960) che
Habermas (1968) accuseranno Dilthey di essere caduto nella trappola dello
scientismo e dell’oggettivismo, trascinando con sé anche quelle stesse “scienze
dello spirito” alle quali, in origine, si voleva donare una propria autonomia.
Lo stesso fine muove l’ingegno del filosofo del diritto Emilio Betti (1955; 1961;
1962); l’adozione di “canoni fondamentali”, di procedure accreditate e
controllabili intersoggettivamente consente, secondo Betti, di cogliere il senso di
un testo e, di conseguenza, di giungere ad una conoscenza corrispondente alla
realtà.
“Nell’approccio ermeneutico risuonano gli interrogativi di un’intera società che
interpreta se stessa” scrive Montesperelli (1998); non a caso gli autori già citati
arrivano a teorie generali dell’interpretazione, dopo aver progressivamente
sostituito la base primitiva dell’ermeneutica; essa arriva ad assumere infatti una
valenza più generale e filosofica, come affermava Dilthey (1914-36).
Ed è proprio da questo punto che prende il via l’ermeneutica filosofica che
“descrive un orizzonte storico e linguistico che determina, delimita, condiziona
l’esserci dell’uomo” (Montesperelli 1998).
Secondo Gadamer (1960), che riprende le teorie di Heidegger (1947),
l’ermeneutica non si riduce a esercizio di una facoltà fra le altre, né a
epistemologia, metodo o tecnica. L’ermeneutica, piuttosto, è ontologia. Perciò
l’ermeneutica non è limitata al senso di un testo o di un discorso, ma si estende
all’intero senso dell’ essere.
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Non sono tanto le tecniche a garantire la conoscenza, quanto invece l’ermeneutica
come “arte dell’ascolto”, predisposizione a imbastire una comunicazione tra
soggetto e oggetto (Gadamer 1960).
A conclusioni diverse arrivano gli autori che vengono inseriti nel filone
dell’ermeneutica critica, come Apel e Habermas. Se per l’ermeneutica filosofica
prima del metodo viene l’ontologia (prima di comprendere singoli oggetti siamo
compresi entro la tradizione ed entro quell’orizzonte di pre-comprensioni), per
l’ermeneutica critica, invece, prima dell’ontologia viene un “dubbio metodico”
per distinguere se un discorso sia distorto o meno.
Secondo Habermas (1968) e Apel (1973) la comunicazione può essere libera,
trasparente; ma questa situazione è da conquistare progressivamente visto che gli
attuali rapporti di dominio, i rapporti di produzione, l’ideologia dominante
distorcono il più delle volte la comunicazione. Si chiede quindi all’ermeneutica di
smascherare la comunicazione distorta attraverso la critica dell’ideologia, secondo
un metodo che garantisca di sottoporre l’interpretazione a un controllo
intersoggetivo.
In questo senso Glaser e Strauss (1967) propongono al ricercatore di liberarsi
dalle teorie precedenti, dai concetti sociologici standard e da orientamenti rigidi
per poter penetrare meglio la situazione osservata, aprirsi alle concezioni delle
persone studiate, ricavare induttivamente teorie interpretative plausibili.
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Estraneità e familiarità:
La “dialettica dialogica” nella filosofia di Gadamer evidenzia il fatto che il
rapporto fra soggetto (l’interprete) e “oggetto” (un testo, un discorso, un’azione)
deve muoversi contemporaneamente all’insegna dell’estraneità e della familiarità
(Montesperelli 1998).
Accentuare troppo l’estraneità a scapito della familiarità significa concepire il
soggetto contrapposto all’oggetto e pensare che questa contrapposizione assicuri
la possibilità di conoscere l’oggetto in modo obiettivo. D’altronde però il soggetto
non può distanziarsi completamente, non può “oggettivare” in pieno l’oggetto, né
può acquistarne conoscenza completa e conclusiva.
Accentuare invece in misura eccessiva la familiarità a scapito dell’estraneità
significa trascurare il fatto che il soggetto deve anche compiere uno sforzo per
avvicinarsi all’oggetto.
Nell’ermeneutica occupa una posizione decisamente fondamentale il tema della
traduzione, in qualunque modo essa sia intesa: in senso ampio, come “attività di
spostamento simbolico” sul piano ontologico (apertura all’altro), in senso
epistemologico (fra teorie), oppure semantico (tra lingue) (Borutti 1991, 81-2).
Per Gadamer tradurre è la forma esemplare dell’interpretare attraverso la distanza
ed è il lavoro conoscitivo per eccellenza, ma non è affatto privo di problemi, al
punto che ci si chiede se una traduzione sia davvero possibile (Montesperelli
1998, 25).
Secondo Quine (1951; 1960) i singoli testi significano qualcosa solo in relazione
all’insieme complessivo del contesto culturale da cui hanno preso origine. A ogni
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lingua corrisponde un’esperienza globale di verbalizzazione e di
concettualizzazione; ogni significante può essere compreso solo in relazione
all’insieme dei significati cui appartiene.
In sintesi: ogni lingua è un’esperienza globale di costruzione del mondo ed il
significato dei singoli enunciati non può essere compreso senza riferirsi
all’insieme del contesto.
Ne consegue l’indeterminatezza di ogni traduzione da un lato perché le lingue non
sono segmentabili in unità di significato sovrapponibili come afferma Borutti
(1991, 86 e ss.); dall’altro perché non ci sono significati unitari, interlingiustici e
interculturali su cui fondare il confronto tra lingue diverse.
Scrive Montesperelli in proposito: “Le tesi di Quine sembrano esaltare
radicalmente il momento dell’alterità a scapito della familiarità, anche se non
viene del tutto compromessa la tensione dialettica tra questi due poli” (1998, 25-
27).
Nemmeno quegli autori che prevedono la possibilità della traduzione annullano la
tensione presente tra i due estremi (familiarità e alterità); essi si pongono però in
una posizione che da un lato non si può dire coincidente con l’alterità, dall’altro
ne presenta indubbiamente alcune caratteristiche, seppur deboli.
Ad esempio per Jacobson (1963) ogni conoscenza è una traduzione, e conoscere
vuol dire mostrare la distanza, dialogare attraverso la distanza; fin dal primo
contatto è un conflitto-confronto tra due identità.
Ciò ha risvolti evidenti all’interno della ricerca sociale e, soprattutto, all’interno di
quella antropologica; “E’ il caso (che si è a volte verificato, e di cui a noi interessa
l’esemplarità epistemologica) degli antropologi che non sono tornati dal viaggio, e
che si sono fatti indigeni. Costoro hanno smesso di essere antropologi, e perciò di