5
terroristico è eseguito da agenti di un’entità sub-nazionale (o comunque distinta da un
governo nazionale) e mira a terrorizzare o intimidire una target audience non limitata
alle vittime immediate dell’attacco.
Un’azione terroristica è suicida se la sua esecuzione implica necessariamente la morte
del suo autore ed egli ne è pienamente consapevole. Una tale definizione permette di
escludere dall’ambito della nostra analisi gli innumerevoli episodi di attacchi ad alto
rischio, in cui la morte dell’esecutore non rappresenta un elemento necessario per il
successo della missione, ma solo una (più o meno probabile) eventualità.
Successivamente, allo scopo di fornire alcune coordinate essenziali per la
comprensione dello sviluppo del fenomeno, viene presentata una panoramica di nove dei
gruppi che hanno fatto ricorso alle tecniche suicide, ritenuti di particolare interesse per
l’intenso utilizzo di questa forma di attacco o per il ruolo da essi assunto nella diffusione
del fenomeno. Tali organizzazioni presentano una notevole diversità di ispirazioni
religiose, politiche, ideologiche e dei contesti, culturali e geopolitici, in cui operano.
Anche le caratteristiche socio-demografiche dei terroristi suicidi e dei membri dei vari
gruppi presentano una significativa variabilità, escludendo la possibilità di individuare
un unico profilo generalmente valido. Tuttavia nelle varie organizzazioni sembrano
prevalere nettamente individui giovani, con età inferiore ai trent’anni, e non sposati.
Il secondo capitolo affronta lo studio del fenomeno al livello delle organizzazioni
terroristiche, ricercando i fattori che possono spingerle all’adozione di questa particolare
forma di attacco.
Una prima spiegazione per il ricorso alle tecniche suicide risiede nella loro eccezionale
capacità distruttiva rispetto ad altri tipi di attacco: per esempio, nel periodo 1998-2003,
gli attacchi suicidi hanno causato in media un numero di vittime quattro volte superiore
a quello della totalità degli attacchi eseguiti con ordigni esplosivi.
Tale particolare distruttività dipende dal fatto che il terrorista suicida è una “bomba
intelligente”, capace quindi di compiere opportuni “aggiustamenti” relativi al luogo e al
momento stabiliti per l’esplosione, così da massimizzarne l’impatto sull’ambiente
circostante. Inoltre egli può raggiungere il suo target anche in aree con una forte
presenza di agenti di sicurezza, poiché non ha necessità di vie di fuga dopo l’attacco.
6
Anche il tipo di arma utilizzata, che combina chiodi, cuscinetti a sfera e vari frammenti
metallici all’esplosivo, è concepito per causare il maggior numero possibile di morti e
feriti. Allo stesso tempo questo tipo di ordigno, preparato con “ingredienti” che, a parte
l’esplosivo, possono essere trovati in normali negozi, è estremamente economico,
semplice da costruire e da utilizzare.
La stessa morte del terrorista, nel caso l’attacco abbia successo, rappresenta un
importante vantaggio per l’organizzazione, perché esclude la possibilità che l’attentatore
venga catturato e, sottoposto ad interrogatorio, divulghi preziose informazioni sul
gruppo e sui suoi piani.
Inoltre, la violenza di un attacco suicida e la morte del suo esecutore, che esprime in
questo modo una totale dedizione alla causa, garantiscono all’azione una notevole
copertura mediatica, permettendo ai terroristi, da un lato di terrorizzare un’audience
molto ampia, dall’altro di fare “pubblicità” a se stessi e alla loro causa.
In numerosi casi gli attacchi suicidi hanno anche rappresentato uno strumento per
sollevare il morale dei membri dell’organizzazione in momenti di particolare difficoltà.
Particolare attenzione in questo capitolo è dedicata allo studio condotto dal politologo
americano Robert Pape (2003) sulla logica strategica seguita dalle organizzazioni che
hanno fatto ricorso ad operazioni suicide.
Esaminando l’universo degli attacchi suicidi del periodo 1983-2001, Pape individua
una precisa strategia coercitiva “punitiva”, che consiste nel colpire Stati democratici, per
ottenere da questi concessioni territoriali. Infatti, in tutte le campagne di attacchi suicidi
studiate da Pape, uno Stato democratico occupava o comunque era presente con forze
militari nel territorio della comunità di appartenenza dei terroristi.
Gli attacchi suicidi in nessun caso hanno rappresentato uno strumento per il
conseguimento di un’irrealizzabile piena vittoria militare contro le forze nemiche, ma il
metodo più efficace per rendere eccessivamente “costosa” (in relazione ai benefici
attesi) per lo Stato la sua presenza nel territorio straniero e di conseguenza spingerlo al
ritiro.
Solo una delle undici campagne di attacchi suicidi conclusesi entro il 2001 (quella
condotta da Hezbollah e da altri gruppi libanesi contro le truppe americane e francesi in
7
Libano), ha portato alla piena realizzazione dell’obiettivo dei terroristi. Tuttavia,
secondo Pape, nel 50% dei casi gli attacchi suicidi hanno determinato almeno un
parziale mutamento di comportamento dello Stato target nella direzione voluta dai
terroristi, manifestando dunque un’efficacia decisamente superiore a quella di altri
strumenti di coercizione internazionale generalmente a disposizione degli Stati, quali
bombardamento aereo e sanzioni economiche.
Pape ritiene che la ragione dell’aumento del numero di attacchi suicidi degli ultimi anni
deve essere ricercata proprio nell’efficacia coercitiva di questa tecnica: le organizzazioni
terroristiche hanno ragionevolmente interpretato come sostanzialmente positive le
esperienze di precedenti campagne di attacchi suicidi e hanno di conseguenza deciso di
dedicare sempre più risorse a questa strategia.
Tuttavia Pape è convinto che le organizzazioni terroristiche abbiano commesso un
errore nell’assumere che, se un moderato livello di punishment causato da attacchi
suicidi ha permesso loro di ottenere alcune parziali concessioni, un più intenso ricorso
alle operazioni di “martirio” possa garantire la piena realizzazione dei loro obiettivi.
Infatti le concessioni degli Stati sono state possibili proprio perché non riguardavano
loro interessi vitali, quali sicurezza nazionale e benessere economico, o comunque
avevano un carattere solo temporaneo.
Per quanto dunque le tecniche suicide massimizzino la capacità distruttiva del
terrorismo e riducano l’efficacia delle misure difensive degli Stati, questo tipo di attacco
non è in grado di incidere sulla disponibilità dei moderni Stati a sostenere alti costi per
importanti interessi e di conseguenza più ambiziose campagne suicide sono destinate a
fallire.
Il terzo capitolo è dedicato allo studio del fenomeno al livello dei singoli terroristi
suicidi.
Per prima cosa viene discussa la veridicità della concezione, peraltro molto diffusa,
secondo la quale chi esegue un attacco autodistruttivo non può essere un individuo
psicologicamente sano. La maggior parte degli studi psicologici sul terrorismo
concordano nell’affermare che non esiste una tipica personalità “terroristica” e che i casi
8
di individui psicopatologici all’interno di gruppi terroristici sono estremamente rari:
individui con seri disturbi mentali tendono ad agire da soli.
L’evidenza empirica relativa ai terroristi suicidi punta nella stessa direzione: non si
tratta d’individui psicologicamente instabili, né con caratteristiche tipiche delle
personalità suicide. Nella quasi totalità delle azioni suicide sono state le organizzazioni
terroristiche a reclutare, addestrare e fornire di esplosivo gli attentatori: queste tendono a
selezionare attentamente i potenziali kamikaze ed escludono gli psicopatici, che
costituiscono una minaccia alla loro sicurezza e alla buona riuscita delle operazioni.
Un ruolo molto più importante della psicologia individuale è esercitato dalle dinamiche
psicologiche all’interno delle organizzazioni terroristiche, in particolare quelle relative al
processo di addestramento dei futuri terroristi suicidi.
Secondo lo psicologo israeliano Ariel Merari (2000), che ha studiato il fenomeno dalla
sua comparsa in Libano, le organizzazioni non creano la disponibilità individuale a
compiere un attacco suicida, ma cercano piuttosto individui che hanno manifestato la
loro volontà di morire per la causa o per vendicarsi del nemico.
Il compito delle organizzazioni consisterebbe nel rafforzare, attraverso un’intensa
attività di “indottrinamento”, le iniziali motivazioni individuali e allo stesso tempo nel
creare dei punti di “non ritorno”, poiché la volontà di morire non è stabile nel tempo. Ai
futuri terroristi suicidi di molte organizzazioni, in un dato momento del loro
addestramento, viene chiesto di impegnarsi solennemente all’esecuzione di un attacco: si
tratta di una sorta di contratto sociale, che in molti casi assume la forma di un video-
testamento. Da questo momento l’individuo percepisce se stesso, ed è considerato dagli
altri, come già morto e solo temporaneamente tra i vivi: tornare indietro a questo punto è
estremamente difficile, perché, dopo il lungo addestramento, i pensieri del futuro suicida
sono tutti focalizzati sull’idea della sua morte e, d’altra parte, perché la violazione
dell’impegno comporterebbe un insostenibile disonore sociale.
Una particolare attenzione è stata poi dedicata al fenomeno delle terroriste suicide.
Alcune organizzazioni (PKK e LTTE) hanno fin dall’inizio delle loro attività ammesso
membri-donna ed affidato loro l’esecuzione di attacchi suicidi. I gruppi islamici hanno
invece mantenuto un atteggiamento di chiusura nei loro confronti. Comunque, mentre al-
9
Qaeda non ha mai organizzato una missione suicida al femminile, i ribelli ceceni, a
partire dal 2000, hanno frequentemente utilizzato donne per tali attacchi e più
recentemente ancora Hamas e Jihad Islamica Palestinese hanno rivendicato delle
operazioni di “martirio” eseguite da donne, sebbene questi gruppi non riconoscano loro
lo status di membro dell’organizzazione a tutti gli effetti. Il ricorso ad attacchi suicidi al
femminile da parte di gruppi islamici ha trovato giustificazione da parte delle autorità
religiose, probabilmente in considerazione dell’evidente utilità della partecipazione
femminile alla jihad: infatti, in molti casi le donne, guardate con meno sospetto dalle
forze di sicurezza, riescono con maggiore facilità ad aggirare i controlli e raggiungere il
loro target.
Le società dalle quali le “martiri” provengono hanno tutte un carattere patriarcale, in
cui le donne sono relegate alla sfera privata e ai ruoli di mogli e di madri, mentre il
“mondo esterno” è esclusiva competenza degli uomini. E’ dunque possibile che in un
attacco suicida femminile, oltre al desiderio di affermare il valore della causa del
gruppo, di combattere il “nemico” e compiere una vendetta, sia presente anche una forte
aspirazione, da parte della terrorista, ad affermare e a veder riconosciuto il proprio
valore come essere umano e come guerriero, dotato di pari dignità rispetto ai membri
maschi del gruppo e della comunità in senso più ampio.
Infine, nel quarto capitolo cerchiamo di verificare l’attendibilità e la fondatezza della
diffusa convinzione che le cause di fondo del terrorismo (e della sua “versione” suicida)
siano povertà e ignoranza.
Tale concezione trova fondamento nella teoria economica del crimine sviluppata a
partire da Becker (1968), secondo la quale individui con scarse risorse economiche e
basso livello d’istruzione, tendono a partecipare con più probabilità ad attività criminali,
per via delle loro ridotte prospettive remunerative nel mercato del lavoro legale e perché
poco hanno da perdere nel caso vengano scoperti e arrestati.
Tuttavia appare piuttosto discutibile l’assimilazione del terrorismo alla semplice attività
criminale. Al contrario, si potrebbe interpretare questo fenomeno come una forma
estrema di attivismo politico: in questo caso non stupirebbe constatare che i terroristi
sono relativamente istruiti e benestanti, se si ipotizza che un reddito sufficiente alla
10
soddisfazione dei bisogni primari dell’individuo e un certo livello d’istruzione sono
condizioni indispensabili per lo sviluppo di un interesse alla politica.
L’evidenza empirica relativa ai terroristi suicidi offre scarso sostegno alla tesi
dell’esistenza di un legame diretto tra povertà, ignoranza e terrorismo: i dati biografici
relativi agli shahid dei gruppi palestinesi e ai dirottatori dell’11 Settembre evidenziano
un alto livello d’istruzione (in molti casi universitaria) e condizioni economiche
privilegiate. Le informazioni disponibili sui membri di Hezbollah, sui detenuti sauditi di
Guantanamo e sui membri del gruppo Jemaah Islamiyah, alleato di al-Qaeda,
confermano simili caratteristiche.
D’altra parte se dal micro-livello individuale ci si sposta a quello nazionale, le cose non
cambiano: recenti studi (per esempio, Kruegere e Maleckova, 2003) non hanno rilevato
l’esistenza di una significativa correlazione tra PIL procapite, livello d’istruzione e la
propensione di un Paese ad essere coinvolto nel fenomeno terroristico (espressa dal
numero di suoi cittadini autori di attacchi terroristici).
11
I. DEFINIZIONE E DESCRIZIONE DEL FENOMENO
I.1. Definire il terrorismo suicida
Per analizzare il fenomeno del terrorismo suicida appare necessario delimitare il nostro
campo d’indagine, cercando di definire il più chiaramente possibile l’oggetto di questo
studio. Il binomio “terrorismo suicida” deve essere esaminato nei due elementi che lo
compongono: per prima cosa bisogna chiarire che cosa intendiamo per terrorismo in
generale, senza ulteriori specificazioni, per poi evidenziare quali sono gli elementi o le
caratteristiche che rendono un atto terroristico suicida.
E’ importante sottolineare che non esiste un sostanziale consenso sulla definizione di
terrorismo. La questione della definizione di terrorismo anima da oltre trent’anni il
dibattito tra politologi, studiosi delle relazioni internazionali, filosofi politici e giuristi,
oltre a quello che ha luogo in sedi istituzionali quali organizzazioni internazionali,
ministeri degli esteri e ambasciate.
Lo sforzo definitorio (nel caso del terrorismo così come per molti altri fenomeni
studiati dalle scienze sociali) risponde ad una serie di esigenze non completamente
conciliabili, per cui è in qualche modo necessario stabilire quale di queste privilegiare,
alla luce della prospettiva accademica che si adotta e degli specifici obiettivi dello studio
che ci si propone di fare.
In particolare, nel cercare di definire il concetto di terrorismo appare evidente la
difficoltà di conciliare il carattere dell’imparzialità della definizione con quello della sua
utilità analitica. L’esigenza di imparzialità
1
richiederebbe un focus particolare sugli
elementi oggettivi delle azioni che vengono considerate terroristiche, trascurando
elementi soggettivi quali l’identità degli autori (Stati o entità sub-nazionali) o i loro
obiettivi finali (autodeterminazione, liberazione nazionale, eversione, per esempio)
D’altra parte l’esigenza di individuare i tratti che distinguono il terrorismo da altri
1
Sottolineata, per esempio da Cooper (2002: 5)
12
fenomeni simili, così da capirne le specifiche logiche e dinamiche, può richiedere di
adottare una definizione più esposta a critiche di parzialità, per esempio escludendo dalla
categoria di soggetti che possono compiere un atto terroristico gli Stati.
La definizione di terrorismo varia dunque notevolmente a seconda della prospettiva
disciplinare adottata, ma anche tra studiosi dello stesso ambito accademico sono notevoli
le divergenze di vedute.
I.1.1. La definizione di terrorismo secondo il diritto internazionale
Per più di trent’anni all’interno delle Nazioni Unite si è dibattuto sul tema della
necessità di punire il terrorismo, ma non è stato possibile raggiungere un consenso su
una definizione del fenomeno (Cassese, 2001: 258). I Paesi in via di sviluppo
(appoggiati dagli Stati del blocco socialista) affermavano con forza che questa
definizione non poteva includere atti violenti commessi da movimenti e individui che si
battevano per l’autodeterminazione dei loro popoli (freedom fighters) e allo stesso tempo
essi sostenevano che non potesse essere adottato un trattato per proibire atti terroristici
prima che fossero condotti adeguati studi per la comprensione del complesso intreccio di
fattori economici, sociali, storici e politici alla base del fenomeno (Cassese, 2003a: 120).
I Paesi occidentali invece si rifiutavano di accettare questa eccezione nella definizione di
terrorismo.
Si preferì di conseguenza adottare un approccio più pragmatico e selettivo al problema
del terrorismo, concludendo una serie di Convenzioni che bandissero alcuni ben
specificati atti, aggirando la controversa questione di una definizione generale.
2
Tali Convenzioni proibiscono il dirottamento aereo
3
, crimini contro persone protette
2
Non esiste però un trattato che specificamente riguarda il terrorismo suicida. Israele ha recentemente
completato una bozza di trattato contro gli attacchi suicidi da sottoporre all’attenzione di altri Stati. Tale
bozza vieta, oltre agli attacchi, l’incitamento e l’assistenza, in qualunque forma, per la commissione di un
attentato suicida e prevede l’istituzione di un organismo internazionale che, in cooperazione con le
Nazioni Unite, aiuti gli Stati nella lotta contro questa forma di terrorismo (Benn, 2004).
3
Covention on offences and certain other acts committed onboard aircraft, firmata a Tokio il 14 settembre
1963; Convention for the suppression of unlawful seizure of aircraft, firmata all’Aja il 16 dicembre del
13
internazionalmente
4
, la presa di ostaggi
5
, atti illegali contro la sicurezza della
navigazione marittima.
6
Inoltre, sono state concluse alcune Convenzioni per la
cooperazione regionale contro il terrorismo.
7
Come conseguenza di questa situazione è piuttosto diffusa tra studiosi e diplomatici
l’opinione che non esista una definizione di terrorismo sulla quale gli Stati siano
d’accordo e che dunque non sia possibile considerare il terrorismo in quanto tale un
crimine: solo singole e specifiche forme di terrorismo espressamente proibite da trattati
internazionali potrebbero essere considerate crimini. Ciò equivale a dire che il
terrorismo non è un distinto crimine secondo il diritto internazionale consuetudinario.
Cassese (2003a) contesta questa opinione, affermando che una definizione di
terrorismo in realtà esiste e che esso costituisce un crimine secondo il diritto
internazionale consuetudinario.
Secondo Cassese la divergenza di vedute tra Paesi economicamente sviluppati e Paesi
in via di sviluppo riguardava un’eccezione alla definizione, non la nozione generale di
terrorismo, che era quindi fuori discussione. Affermare che una definizione generale non
si è sviluppata a causa della mancanza di consenso su un’eccezione non sarebbe corretto
da un punto di vista logico. Un tale tipo di argomento implicherebbe inoltre l’inesistenza
di una definizione di altre fattispecie criminali previste dal diritto internazionale, poiché
anche in relazione a queste può mancare un consenso su singole eccezioni. Inoltre,
Cassese sostiene che l’esistenza di una nozione generale di terrorismo è provata da una
serie di norme contenute in trattati internazionali che esplicitamente proibiscono il
1970; Convention for the suppression of unlawful acts against the safety of civil aviation, firmata a
Montreal il 23 settembre 1971.
4
Convention on the prevention and punishment of crimes against internationally protected persons,
including diplomatic agents, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 14 dicembre del 1973.
5
International Convention against the taking of hostages, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il
17 dicembre del 1979.
6
Convention for the suppression of unlawful acts against the safety of the maritime navigation, conclusa a
Roma il 10 marzo del 1988.
7
Arab Convention on the suppression of terrorism, firmata ad un meeting tenuto al Segretariato Generale
della Lega degli stati arabi al Cairo il 22 aprile del 1998; European Covention on the suppression of
terrorism, conclusa a Strasburgo il 27 gennaio del 1977; OAS Convention to prevent and punish acts of
terrorism taking the form of crimes against persons andl related extorsion that of international signifiance,
conclusa a Washington D.C. il 2 febbraio del 1971da Stati Uniti, Sri Lanka e 22 Paesi dell’America
Latina.
14
terrorismo, senza aggiungere alcuna definizione o specificazione. Una di queste è
l’articolo 33 (1) della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, che prevede che
“collective penalties and likewise all measures of intimidation or of terrorism are
prohibited”. Allo stesso modo, l’articolo 4(2)(d) del Secondo Protocollo Addizionale del
1977, sui conflitti armati interni, proibisce “atti di terrorismo”.
8
Secondo Cassese il fatto
che i redattori di questi trattati abbiano fatto riferimento a “terrorismo” e “atti di
terrorismo” senza definirne il significato implica che essi avessero in mente una nozione
sostanzialmente chiara del fenomeno. La nozione a cui essi hanno fatto deliberatamente
o inconsapevolmente riferimento fa parte del diritto internazionale consuetudinario.
Secondo Cassese inoltre la condanna del terrorismo è progressivamente aumentata nella
comunità internazionale, con un cambiamento del clima politico legato alla caduta dei
regimi socialisti e all’esaurimento delle lotte di liberazione nazionale. Tutto ciò avrebbe
determinato il graduale emergere di un ampio accordo su una definizione generale e
sufficientemente chiara di terrorismo senza la previsione di eccezioni.
9
La risoluzione 49/60 dell’Assemblea Generale, adottata il 9 dicembre 1994,
rifletterebbe questo accordo. Nel paragrafo terzo della Dichiarazione annessa si afferma
che:
Criminal acts intended or calculated to provoke a state of terror in the
general public, a group of persons or particular persons for political purposes
are in any circumstance unjustifiable, whatever the considerations of a
political, philosophical, ideological, racial, ethnic, religious or any nature
that may be invoked to justify them.
Da tale risoluzione emergono i principali tre elementi del crimine internazionale di
terrorismo: 1) gli atti in questione devono costituire un crimine secondo la maggior parte
dei sistemi legali; 2) devono avere lo scopo di diffondere terrore, attraverso l’esecuzione
8
Si può inoltre ricordare l’articolo 4 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, che
fornisce al Tribunale giurisdizione su “atti di terrorismo” in un conflitto armato interno.
9
Si deve comunque ricordare che la già citata Arab Convention on the suppression of terrorism del 1998
esclude dall’ambito di applicazione del trattato atti commessi allo scopo di ottenere l’autodeterminazione.
15
o la minaccia di azioni violente
10
; 3) devono avere una motivazione politica, religiosa o
comunque ideologica, cioè non devono essere volte al perseguimento di fini
individuali.
11
Inoltre, Cassese (2003a: 126) sottolinea che la natura criminale di un atto terroristico è
indipendente dall’identità di chi lo compie (un individuo che agisce nella sua capacità
privata o un agente statale).
12
Tale definizione ha molti elementi in comune con quella contenuta nell’articolo 2(1)(b)
della Convenzione Internazionale per la Soppressione del Finanziamento del
Terrorismo, votata nella risoluzione 54/109 dell’Assemblea Generale il 9 dicembre
1999. Secondo questa Convenzione terrorismo è:
Any … act intended to cause death or serious bodily injury to a civilian, or
to any other person not taking an active part in the hostilities in a situation of
armed conflict, when the purpose of such act, by its nature or context, is to
intimidate a population, or to compel a government or an international
organization to do or to abstain from doing an act.
La Corte Suprema del Canada, nel caso Suresh, ha sostenuto che questa definizione
10
Il crimine di terrorismo appare dunque caratterizzato da un duplice intento criminale: quello generale di
compiere un atto illegale e quello specifico di generare e diffondere terrore tra la popolazione.
11
Nonostante la graduale emergenza di una definizione generale, senza eccezioni, di terrorismo, Cassese
(2003a: 124-125) ricorda che il crimine di terrorismo non è stato incluso tra quelli sotto la giurisdizione
della Corte Penale Internazionale, perché, tra le altre cose, si riteneva mancasse una definizione condivisa
di terrorismo e si voleva evitare di politicizzare la Corte. Si possono anche richiamare alcune pronunce
giurisprudenziali che assumono un approccio piuttosto cauto nel riconoscere l’esistenza di una chiara
definizione di terrorismo secondo il diritto internazionale consuetudinario: per esempio, nel 1984 la Court
of Appeals of the District of Columbia in Tel-Oren v. Libyan Arab Republic ha sostenuto l’inesistenza di
un accordo sulla definizione di terrorismo secondo il diritto consuetudinario internazionale (Zappalà,
2001).La decisione dell’US Court of Appeals for the Second Circuit del 4 aprile 2003 in United States
v.Yousef and others è andata sostanzialmente nella stessa direzione, affermando che “there continues to
be strenuous disagreement between States about what actions do or do not constitute terrorism” (riportata
da Cassese, 2003b).
12
A fianco alla responsabilità penale individuale si può configurare la responsabilità dello Stato per conto
del quale l’individuo ha agito. Lo stesso può avvenire se uno Stato ha un atteggiamento di acquiescenza,
tolleranza o incoraggiamento verso la commissione di atti terroristici in un altro Paese da parte di individui
che agiscono nella loro capacità privata.
16
“catches the essence of what the world understands by ‘terrorism’.”
13
Perché si possa parlare di terrorismo come crimine propriamente internazionale (cioè
proibito dal diritto internazionale consuetudinario) è necessario che gli atti terroristici
possano essere configurati come crimini di guerra, come crimini contro l’umanità o
rientrino nella categoria di terrorismo come distinto crimine internazionale (Cassese,
2003a: 125).
Terrorismo come crimine di guerra. L’articolo 33(1) della Quarta Convenzione di
Ginevra proibisce atti di terrorismo contro individui cui spetta lo status di “persone
protette” in un conflitto armato internazionale; similmente in conflitti armati interni
l’articolo 4(2)(d) del Secondo Protocollo addizionale proibisce atti di terrorismo contro
civili o persone che hanno cessato la loro partecipazione ai combattimenti. Inoltre il
Primo e il Secondo Protocollo Addizionale
14
proibiscono atti o minacce di violenza il cui
scopo primario è quello di terrorizzare la popolazione civile.
Perché un atto terroristico sia considerabile un crimine di guerra deve essere
compiuto contro non combattenti o obiettivi e installazioni civili
Terrorismo contro crimine contro l’umanità. Un attentato terroristico può rientrare
nella categoria dei crimini conto l’umanità (in particolare come “omicidio”,
“sterminio”, “stupro”, persecuzione e “altri atti inumani”, che sono sub-categorie di
questo tipo di crimine previste dall'articolo 7 dello Statuto della Corte Penale
Internazionale), purché siano presenti l’elemento della sistematicità o diffusione
dell’attacco contro civili
15
e della consapevolezza di chi compie l’atto che questo fa
parte dell’attacco sistematico o diffuso.
Terrorismo come distinto crimine internazionale. Non tutti gli atti terroristici possono
essere considerati crimini internazionali. Qualora un atto terroristico non rientri nelle
due categorie già viste è comunque possibile parlare di crimine internazionale se questo
presenta un carattere di transnazionalità. Ciò significa che l’attacco non deve limitare i
13
Citato in Cassese, 2003a: 122.
14
Articoli 51(2) e 13(2) rispettivamente.
15
Secondo Cassese (2003a: 128), sebbene gli statuti della Corte Penale internazionale e dei Tribunali ad
hoc delle Nazioni Unite prevedano che i crimini contro l’umanità possano essere compiuti solo contro
civili, il diritto internazionale consuetudinario comprenderebbe anche attacchi contro militari e
installazioni militari.
17
suoi effetti ad un solo Stato, ma per i mezzi impiegati, le persone implicate o la violenza
sprigionata deve riguardare anche altri Stati
16
e costituire oggetto di preoccupazione per
l’intera comunità internazionale. Secondo Cassese (2003a: 129) se un attacco
terroristico presenta queste caratteristiche ed è particolarmente grave o di grandi
dimensioni può essere considerato un crimine internazionale.
17
Come nel caso dei
crimini contro l’umanità, secondo Cassese, non sarebbe necessario che le vittime siano
civili.
I.1.2. La definizione politologica
Schmidt e Jongman (1988: 5-6) citano 109 differenti definizioni di terrorismo ottenute
da un'inchiesta condotta tra accademici esperti del fenomeno: “violenza” o “forza”
appaiono nell'83,5% delle definizioni; l'aggettivo “politico” nel 65%; “paura” o “terrore
enfatizzato” nel 51%; “minaccia” nel 47%; quindi, con sempre minore frequenza, i
concetti di “effetti psicologici e reazioni anticipate”, “differenziazione tra target e
vittime”, “azione intenzionale, pianificata, sistematica e organizzata”, “metodo di
combattimento, strategia, tattica” ed altri ancora.
Schmidt e Jongman (1988: 28), alla luce delle critiche e dei suggerimenti relativi ad
una loro precedente definizione emersi dalle risposte degli esperti contattati, propongono
la seguente definizione:
“Terrorism is an anxiety-inspiring method of repeated violent action,
employed by (semi-)clandestine individual, group, or state actors, for
16
Cassese (2003a: 129) sostiene inoltre che un elemento di acquiescenza, tolleranza o promozione da
parte di uno Stato sembra necessario per poter considerare un atto terroristico un crimine internazionale.
Tuttavia la necessità che tale condizione si verifichi può apparire discutibile, visto che questa
implicherebbe che un attentato anche più grave di quelli dell’11 Settembre eseguito da un’organizzazione
senza legami con uno Stato non venga considerato un crimine internazionale.
17
L’emersione della categoria di terrorismo come crimine internazionale distinto è testimoniata da
numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale che riflettono la crescente
revulsione della comunità internazionale contro questo crimine. Cfr., in particolare, le risoluzione del
18
idiosyncratic, criminal, or political reasons, whereby--in contrast to
assassination--the direct targets of violence are not the main targets. The
immediate human victims are generally chosen randomly (targets of
opportunity) or selectively (representative of simbolic targets) from a target
population, and serve as message generators. Threat- and violence-based
communication processes between terrorist (organization), (imperilled)
victims, and main target (auidence(s)), turning into a target of terror, a target
of demands or a target of attention, depending on whether intimidation,
coercion, or propaganda is primarily sought.”
Secondo tale definizione gli autori di un atto terroristico possono essere individui,
gruppi e agenti statali.
18
Schmidt e Jongman riconoscono la ragionevolezza
dell’argomento secondo cui si dovrebbe fare “a clear distinction between terrorism by
state and terrorism by individuals and groups, which are not acting as a governement”
19
,
visto che i due tipi di attori hanno verosimilmente un diverso modus operandi e diverse
sono le risorse a loro disposizione. D’altra parte, notano Schmidt e Jongman, “we use
the term ‘war’ for both guerrilla war and nuclear war, though the two are as unalike as
state and non-state terrorism.” (p. 14)
Inoltre, nella definizione non si prevede che le ragioni che spingono ad azioni
terroristiche abbiano necessariamente natura politica, per cui il terrorismo politico
costituirebbe una sottocategoria del terrorismo.
Secondo Schmidt e Jongman, l’elemento che distingue il terrorismo dall’omicidio (e da
altri tipi di azioni violente, aggiungiamo noi) sarebbe il fatto che nel terrorismo non c’è
coincidenza tra gli obiettivi della violenza (i soggetti che fisicamente la subiscono) e gli
obiettivi principali dell’atto. Le vittime immediate dell’attacco (targets of violence)
servono come messaggio per un audience più ampia; il fine dell’attacco non è
Consiglio di Sicurezza 1368 e 1373 del 2001 e la risoluzione 56/1 dell’Assemblea Generale del 12
settembre 2001.
18
Sembrerebbe comunque che solo atti compiuti da agenti statali che agiscono in un regime di semi-
clandestinità o segretezza rientrino nella definizione di Schmidt e Jongman.
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Si tratta del parere di Ariel Merari, psicologo israeliano esperto di terrorismo, che ha risposto al
questionario di Schmidt e Jongman. Citato in Schmidt e Jongman, 1988 : 11.